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Nella lingua della guerra

Nella lingua della guerra è un testo scritto dal poeta, traduttore, critico e giornalista ucraino Oleh Kocarev in occasione del secondo anniversario dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Kocarev analizza come il conflitto ha cambiato la lingua. La traduzione è a cura di Aleksej Tilman e Martina Napolitano.

1.

Quando inizia una guerra, di regola le persone non hanno né tempo né voglia di dedicarsi a giochi di parole, trovate espressive, riflessioni, verbosità. Le prime terribili ore e i primi terribili giorni sono per lo più tempo di brevi urla e pianti, di ordini e comandi, di richieste e sussurri spaventati, di bisbigli spizzicati. Dopodiché accade un piccolo miracolo bizzarro: la realtà della guerra gradualmente diventa la normalità. Ci abituiamo. E facciamo una scoperta ingenua: durante la guerra la vita continua. Con ciò, dunque, continua a respirare, a modificarsi anche la parola.

L’Ucraina, per molti versi, non era pronta alla brutale aggressione russa del 24 febbraio 2022. Lo si nota anche nella sostanza della lingua. Molti di noi all’inizio semplicemente non trovavano i termini e le citazioni necessarie per una situazione del genere. Proprio per questo, in quel febbraio, gli ucraini e le ucraine citavano così spesso una canzone sovietica dei tempi della Seconda guerra mondiale che non sembrerebbe molto adeguata al contesto: “(…) Esattamente alle 4 del mattino / Kyiv è stata bombardata, ci hanno annunciato / Che la guerra era iniziata”.

Oggi, a distanza di quasi due anni, questa canzone non viene più particolarmente ricordata. È stato inventato molto altro e gli artefatti sovietici provocano sempre più rigetto.

2.

I nuovi contesti quotidiani hanno richiesto parole nuove. Fragorosi sono esplosi i nomi delle armi utilizzate. In primo luogo, quelle anticarro portatili americane Javelin e i droni turchi Bayraktar. Li si notava soprattutto nella primavera del 2022, quando gli ucraini respingevano gli attacchi precipitosi delle colonne di truppe russe sugli estesi territori nel nord, nel sud e nell’est del paese. Così hanno iniziato a venire chiamati alcuni cocktail, bar e stazioni radio. E chiaramente, delle canzoni. Con il tempo questa moda ha oltrepassato i limiti del buonsenso ed è comparso il termine bajraktarščyna, ovvero l’entusiasmo eccessivo e il parassitismo nei confronti dei modi, dei simboli e dei termini militari o simil-militari.

Un’altra parola importante, soprattutto nel 2022, era teroborona (da terytorial’na oborona, difesa territoriale). Si tratta di truppe ucraine “legate” a un dato territorio. All’inizio dell’attacco russo, tuttavia, quando un ruolo rilevante nella resistenza contro gli occupanti era svolto da gruppi ancora poco organizzati di volontari che conoscevano bene la loro città natale, quartiere o villaggio, quando le armi si distribuivano praticamente a tutti quelli che le desideravano, tutto questo veniva spesso chiamato teroborona.

Nella città di Buča, presso Kyiv, dove ho vissuto negli ultimi sette anni, nel febbraio del 2022 degli attivisti (alcuni con esperienza militare e altri privi) hanno dato vita a diverse di queste unità parzialmente armate, che fino al 3 marzo hanno portato avanti una resistenza attiva alle forze russe. 

Furono loro i primi che il 27 febbraio hanno colpito la colonna russa che poi è stata distrutta sulla via della stazione e i cui resti fotografati hanno fatto il giro del mondo diventando uno dei simboli di Buča. Fino all’occupazione completa erano loro le uniche forze che in qualche misura controllavano la città. E, in alcuni quartieri, sono rimasti attivi anche durante l’occupazione. Certamente si trattava di gruppi non regolari di cittadini e non di unità militari, sarebbe meglio dire che erano una forza di “autodifesa”, eppure il termine teroborona si è affermato.

Oppure prendiamo l’ironico bavovna. È un gioco di parole basato sulla moda russa (la neolingua ufficiale e non ufficiale nella Russia di oggi sarebbe un tema interessante da trattare a parte) di chiamare chlopok le esplosioni che avvengono nei territori da loro occupati o all’interno della Russia [un esempio che Meridiano 13 aveva già spiegato in questo articolo].

Chlopok indica sia un rumore [secco come quello di una frusta, un applauso o una porta che sbatte, N.d.T.] che il nome di una pianta, il cotone, che in ucraino si chiama bavovna. Adesso viene usato per parlare di qualsiasi attacco vincente degno di nota da parte ucraina a danno delle posizioni, le navi, gli aeroporti, i ponti e le città russe.

Sulle differenze tra lingua russa e lingua ucraina vi consigliamo questo articolo di Claudia Bettiol.

Più specifiche e meno note alla maggior parte della popolazione sono le parole che vengono usate puramente nel quotidiano militare: arta in luogo di artiglieria, pokemon per la versione modernizzata della mitragliatrice PK, zero a indicare la linea di scontro degli eserciti nemici.

3.

Quale lingua della guerra può esistere senza l’immagine del nemico? I “fratelli” che hanno attaccato l’Ucraina, naturalmente, hanno provocato un enorme incremento dell’astio popolare (rafforzato anche dall’esperienza dell’aggressione più “modesta” avvenuta tra il 2014 e il 2021). I violenti attacchi missilistici, le fucilazioni dei prigionieri e la retorica fascista non contribuiscono a sedare gli animi, se mai li infiammano.

I nomignoli forse più diffusi per i soldati russi nell’Ucraina odierna sono rašisty e orky (“orchi”). Il primo termine è un ibrido tra “fascisti” e “Russia” (paradossalmente la narrazione della guerra del ventunesimo secolo continua a girare intorno a “fascisti”, “nazisti” e “neonazisti”, parole con cui entrambe le parti si onorano a vicenda). Il secondo termine deriva da Il Signore degli Anelli di Tolkien, dove gli orchi sono i ripugnanti guerrieri spietati dell’Oscuro Signore di Mordor. A volte, in risposta a orky, i russi ironicamente chiamano i militari ucraini “elfi”, ma non sembra che questa abitudine sia divenuta di massa.

Per designare la Russia talvolta viene usato l’antico Moscovia o l’espressione “nelle paludi”. Esiste anche il non molto rispettoso rusnja, oltre al tradizionale etnonimo spregiativo kacapy. L’invettiva jobana rusnja (“fottuta rusnja”), invece, tenendo conto dei limiti imposti da alcuni social media, si è trasformata nelle abbreviazioni jbn rsn, jbn bld rsn e nel palindromo ajnsur anaboj.

I soldati russi provenienti dalle numerose regioni autonome come Tuva e il Tatarstan vengono chiamati genericamente buriati (va detto che attorno a Kyiv i peggiori ricordi rimasti dopo il 2022 sono legati a loro). Le unità cecene controllate da Kadyrov, invece, a causa del loro amore per i video su TikTok (in cui spesso vengono rappresentate immaginarie battaglie epiche) sono i tiktokery

Una porzione non indifferente dell’aggressione lessicale è caduta sul nostro vicino settentrionale, la Belarus’. Non tutti gli ucraini oggi hanno il tempo, la forza e il desiderio di distinguere chi voleva da chi è stato costretto a supportare l’aggressione russa (mettendo a disposizione il territorio, gli aeroporti, i poligoni e forse le armi, gli equipaggiamenti e le uniformi), se sia stato l’apparato dittatoriale di Aljaksandr Lukašėnka o la società del paese (e quale parte di società). Per questo sono apparse prese in giro linguistiche come Bljadorus’ [legato al termine bljad, letteralmente “puttana” ma utilizzato come l’intercalarecazzo” in italiano, N.d.T.] e BeloMoscovija.

Qualcosa di simile è accaduto alla città russa di confine Belgorod. Da lì spesso viene bombardata la città ucraina di Charkiv e per questo per molti ucraini Belgorod è diventata Bljad’gorod.

Tuttavia, la maggior parte degli abitanti dell’Ucraina nelle retrovie non s’imbatte in soldati russi (è una piccola cosa, ma comunque positiva), ma se mai nei missili russi e nei droni iraniani. Ecco che allora quelli a volare non sono più missili, ma bljadiny e blediny; è pure comparsa la canzone “Vola bledina”. E i droni iraniani Shahed, grazie alla loro forma costituita da un triangolo e una sorta di bastoncino (che a me ricorda, tra parentesi, una qualche antica scrittura cuneiforme), si trasformano in balalaiche, ma anche motorini (mopedy), šljuchedy (da šljucha, “mignotta”) e derenčalky [dal verbo ucraino derenčaty, “sferragliare, emettere suoni intermittenti di sonagli”, N.d.T.].

La lingua della guerra è anche il tema su cui si incentra Dizionario della guerra del poeta Ostap Slyvyns’kyj.
Come Oleh Kocarev in questo testo, il volume di Slyvyns’kyj racconta come il conflitto sia entrato nella quotidianità degli ucraini anche a livello lessicale (Meridiano 13/Claudia Bettiol)

4.

L’immagine della guerra è di solito l’immagine della compattezza di un popolo, di un paese davanti a un pericolo esterno. Sì, davvero in tempi così non si può fare a meno del sostegno reciproco di massa, del volontariato universale, di canzoni che fanno battere il cuore e di altre manifestazioni di “allineamento alla bandiera”. Milioni di persone raccolgono soldi per diversi “materiali di consumo” dei soldati. I genitori che lasciano una zona pericolosa con i figli trovano sempre un passaggio gratuito. Per aiutare a rimuovere le macerie di un edificio colpito da un attacco missilistico arrivano volontari. Senza tutto questo non ce la si potrebbe fare.

Ma l’unità nazionale non è tutta la realtà della guerra. E più a lungo prosegue l’orrore delle azioni militari, più frequentemente e in maniera evidente emergono cose meno entusiasmanti. Discussioni e conflitti interni, errori delle autorità civili e militari e dei politici, differenze nella comprensione della tattica e della strategia, dolore e rabbia per le perdite, stanchezza e traumi. Anche tutto questo è la guerra, e influenza il modo in cui parliamo, la lingua. Un’amara auto-ironia, l’esplosione di litigi (spesso per futili ragioni), l’alternanza di euforia e disperazione in base alle notizie (o la loro imitazione)…

In questo contesto il meme “due-tre settimane” è divenuto tragicomico. Tanto si sarebbe dovuta protrarre la fase attiva del conflitto in base alle previsioni che aveva fatto nel marzo 2022 Oleksij Arestovyč, un politico controverso e contraddittorio, allora consigliere del presidente Zelens’kyj.

Adesso tale “profezia” fa ridere ed è fonte di parodie di ogni tipo, ma allora in molti credettero ad Arestovyč. Alcuni gli credevano in quanto “persona informata sui fatti”, altri semplicemente gli volevano credere. In generale, nei primi giorni e settimane di guerra c’erano molti voci e discorsi che parlavano di una pace imminente.

I politici decideranno tutto tra di loro

Quando arriveranno i cadaveri nessuno vorrà più combattere

A nessuno serve una guerra in mezzo all’Europa nel ventunesimo secolo

Sentivo queste e simili frasi dappertutto. Per esempio, una mia conoscente racconta che in quel periodo andava a dormire ogni notte sperando che la mattina avrebbe capito che si era trattato solo di un terribile sogno. È facile immaginare il livello di delusione che avrebbero provato coloro che si erano lasciati andare a queste idee, che avevano creduto a queste previsioni.

Quando si sono ridotti i numeri della prima enorme ondata di volontari che si sono uniti all’esercito ucraino e alle strutture paramilitari, è diventato chiaro che non tutti erano pronti a imbracciare un fucile per la difesa della patria. E che non tutti supportano la politica della chiusura dei confini per gli uomini in età di richiamo.

Questo è un conflitto interno serio anche se non sempre visibile dall’esterno (al quale si aggiunge la grande differenza di esperienza e percezione tra coloro che sono al fronte, chi è nelle retrovie, tra i profughi e chi è rimasto in Ucraina). Gli uni invitano tutti i civili al fronte, gli altri si inventano metodi per evitare la chiamata alle armi.

Per ora questa spaccatura non si è formalizzata a livello politico, ma nella realtà linguistica si è resa manifesta in maniera molto chiara. Ha avuto enorme diffusione il termine uchyljant (“scansatore”, dal verbo ucraino uchyljatysja, “scansarsi”), ovvero chi si è sottratto al servizio nell’esercito. Analogo a questo è mamina čerešen’ka (“ciliegina di mamma”, un’espressione da una vecchia canzone pop sentimentale).

Gli uomini che sono riusciti ad andare all’estero e che non hanno intenzione di tornare e combattere vengono ironicamente chiamati batal’on Pol’ša (“battaglione Polonia”) o batal’on Monako (“battaglione Monaco”, la variante più ricca). Alcuni al fronte dicono dei cittadini nelle retrovie: “lui è nel calderone di Kyiv” (con “calderone” si intende una parte di truppa che continua a resistere pur essendo circondata dai nemici) o “nel battaglione da divano”.

A loro volta gli “scansatori” hanno elaborato una loro terminologia. Quando informano sui social delle retate o che in un dato check point distribuiscono le cartoline, capita che chiamino i militari “olive” o “i verdi” e i poliziotti “i blu”. Si creano costrutti anche assai interessanti: “due cetrioli e una melanzana” può significare due militari e un poliziotto. E si possono fare “previsioni del tempo” figurate: “A Bykivnja è molto soleggiato, ho messo gli occhiali da sole e mi sono abbronzata le gambe”. Questo significa che nel quartiere Bykivnja di Kyiv in un dato momento non vengono distribuite cartoline di chiamata alle armi.

5.

L’epoca genera sintesi e archetipi. La parola Mariupol’ è diventata il simbolo della tragedia della città costiera, dell’assalto barbaro dei russi, del tristemente noto bombardamento del teatro dove si nascondevano civili (la scritta “bambini” non ha commosso gli aggressori), della lunga resistenza e della prigionia di chi cercava di difendere la città.

Poster per ricordare i difensori di Mariupol’ in piazza Santa Sofia a Kyiv (Meridiano 13/Claudia Bettiol)

Buča è invece il simbolo della sorprendente durezza degli occupanti scatenatasi sui civili, delle fucilazioni in strada e nei seminterrati. Buča, al contrario di Mariupol’, è stata liberata nella primavera del 2022. Come si vive adesso nella cittadina vicino a Kyiv che è diventata un buco nero nella carta del pensiero comune? L’uccisione di più di quattrocento cittadini e cittadine e, allo stesso modo, la morte di molti combattenti di Buča rimangono una ferita aperta, della quale ci ricordano a livello visivo gli stand informativi dedicati ai caduti nella strada centrale pedonale della città.

Ma, d’altra parte, la città non è così distrutta come ci si potrebbe aspettare. Una larga parte delle infrastrutture e degli edifici colpiti è stata ristrutturata e la maggior parte degli abitanti è tornata a casa. Non si può definire la vita a Buča come pacifica, ma è una realtà di retrovia relativamente tranquilla e piuttosto attiva. Alle persone di altre città e di altri paesi questo sembra strano. Alcuni si meravigliano che la guerra ancora continua, altri sono scioccati dal fatto che si può fare il bagno nel meraviglioso lago di Buča. E chiedono di continuo:

Hanno già sminato il lago?

A Buča c’è un lago e una spiaggia sul lago?

È proprio quella Buča?

La guerra al fronte o nelle sue vicinanze e la guerra nelle retrovie sono due cose molto diverse. La stessa cosa si può dire di un conflitto su larga scala come quello attuale e di una guerra locale come quella in Donbas tra il 2014 e il 2022.  E le persone parlando provano a tastare questa differenza.

Finché gli attivisti non convinceranno tutti a non parlare del 24 febbraio 2022 come dell’inizio della guerra (visto che l’aggressione della Russia è iniziata già nel 2014!), a Buča per strada ad ogni passo sentirete questa frase paradossale pronunciata dalla gente comune: “è successo durante la guerra”, ove per guerra s’intendono i combattimenti per la città nel febbraio e l’occupazione nel marzo del 2022. Del tempo presente dicono: “già dopo la guerra”.

Il tempo in generale cambia in modo enigmatico per come viene percepito in tempo di guerra. Le ore e i minuti, i giorni e i mesi si confondono, spesso diventano astrazioni (i partecipanti e i testimoni immediati delle vicende belliche confondono le date e i periodi forse più di tutti gli altri). È come se vivessimo di nuovo in un tempo ciclico arcaico, quando il movimento visibile delle stelle nel cielo e la percezione del clima sulla pelle significavano più delle lettere e delle cifre dei calendari, degli orologi e di altri aggeggi. 


Questo articolo è uscito originariamente sul media bulgaro Toest, tradotto da Neva Micheva.
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Redazione
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