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Lingua e resistenza. Il dissenso russo nella distopia putiniana

Che quella attuale in Russia non si possa chiamare “guerra” ormai è risaputo. Meno noto è forse che processi simili di rinominazione (es. da guerra a operazione speciale), risemantizzazione (es. il nebuloso significato di fascismo o quello pretestuoso di russkij mir), de-nominalizzazione (es. la generalizzazione dell’uso di quinte colonne e agenti stranieri per parlare di rappresentanti mai singolarmente nominati di un eterogeneo dissenso), simbolizzazione metonimica (es. l’uso del grafema latino Z) sono ben collaudati nella realtà russa (e non solo) e hanno una lunghissima storia. 

Un nuovo vocabolario imposto dall’alto

È un meccanismo abbastanza semplice quello di modificare il linguaggio per tracciare, tra gli altri fini, una linea di demarcazione tra consenso e dissenso: non stare al passo con il nuovo vocabolario è un marchio sufficiente se non di aperta protesta, quanto meno di scollamento. 

Si tratta anche di una modalità di attenuazione e riscrittura di realtà scomode, complesse o potenzialmente disgreganti per la tenuta della status quo: non troppi anni fa (in particolare tra 2019 e 2020) diversi commentatori russi avevano notato come i media avessero normalizzato una nuova collocazione linguistica nel definire i purtroppo frequenti casi di esplosioni di gas negli edifici, sia che comportassero vittime che no: da vzryv gaza (esplosione di gas) a chlopok gaza (schiocco — nel senso di rumore secco, come quello di una frusta, un applauso o una porta che sbatte — di gas); fonti ufficiali avevano spiegato candidamente lo slittamento lessicale come parte di una politica deliberata di diffusione di informazioni edulcorate al fine di “non seminare il panico”.

Modificare il linguaggio aiuta anche a cancellare velocemente il portato delle parole (e ciò che esse denotano) che ne sono vittima. È così che per estirpare del tutto la scomoda realtà artistico-teatrale moscovita del Gogol’-centr, guidato fino allo scorso anno dallo scomodissimo regista Kirill Serebrennikov, non è servito chiuderlo ufficialmente, ma riformarlo con una nuova direzione e un (vecchio) nuovo nome, quello di Teatro Gogol’. L’ultimo spettacolo del Gogol’-centr, andato in scena il 30 giugno, portava il titolo di “Io non prendo parte alla guerra” ed era dedicato al centenario dalla nascita del poeta Jurij Levitanskij, morto nel gennaio 1996 per un infarto durante una tavola rotonda dove, ancora una volta, invitava le autorità russe a porre fine alla guerra in Cecenia. 

Una resistenza (linguistica) che viene dal basso

In un contesto simile non deve stupire dunque che le strategie di opposizione individuali e collettive in Russia passino spesso attraverso il linguaggio, un linguaggio che si fa spesso “esopico” per contrastare (il più possibile impunemente, ma a un tempo in modo sufficientemente intellegibile) quella specie di “neolingua” (novojaz, newspeak) distopica in cui è immerso, secondo una tradizione per niente nuova alla realtà russa, intensificatasi sicuramente in epoca sovietica.

Così la parola “guerra” (vojna) viene sostituita da cinque semplici asterischi ***** o, in alcuni casi, da “Roskomnadzor” (il Servizio federale di supervisione delle reti e tecnologie di informazione e comunicazione di massa), con risultati come il seguente: “Gli USA hanno accusato la Cina di aiutare segretamente Mosca nella [Roskomnadzor] in Ucraina”.

Così luoghi deputati ad altro vengono accortamente riappropriati e creativamente riutilizzati: lo ha fatto l’artista pietroburghese Saša Skočilenko (ora in custodia cautelare con l’accusa di diffusione di “fake news” sulle forze armate russe, secondo il nuovo articolo 207.3 del codice penale) che ha sostituito i segnaprezzi del supermercato con scritte contro la guerra.

È stato fatto nel giardino botanico dell’università statale di Mosca, dove tra i marcatori di alcune piante sono comparse le scritte “Meglio i fiori dei proiettili”, “Estirpate erbacce e tiranni” (nell’originale il gioco di parole ruota in realtà attorno al verbo sažat’, piantare — i fiori — ma anche imprigionare).

O, ancora, è successo a Vyborg, città a nord di Pietroburgo al confine con la Finlandia, dove all’“albero dei desideri” sono stati aggiunti dei messaggi di pace. Sticker e graffiti continuano intanto a comparire nelle città, facendo rischiare accuse di “vandalismo” ai loro autori.

Un’altra forma di protesta — in realtà in circolazione almeno dal lancio, nel dicembre del 2015, del taglio da 100 rubli rinominato “crimeano” (krymskaja banknota) per ciò che raffigura — è quella delle scritte sulle banconote. 

Anche riappropriarsi di parole dello stesso Putin è risultato un atto censurabile: è accaduto a Pietroburgo ad Artur Dmitriev, sanzionato per aver riportato su un manifesto una citazione del presidente, da lui pronunciata soltanto il 9 maggio 2021, “la guerra ha portato così tanto dolore che è impossibile dimenticarlo. E non esistono forme di perdono per coloro che di nuovo pianificano delle aggressioni”.

Oltre alle parole, anche i colori si fanno scudo di resistenza: il blu e il giallo appaiati, ma anche il verde o il nero luttuoso; manca in realtà un colore preciso per questa condanna della guerra e dell’invasione dell’Ucraina a differenza, ad esempio, del bianco e del rosso che hanno inequivocabilmente segnato le manifestazioni bielorusse. 

Infine ci sono i simboli, spesso costruiti a partire dal materiale più semplice, la carta, che prende le sembianze di una colomba, di una gru o di omini che si prendono pacificamente la mano.

In un contesto come quello russo attuale, ognuna di queste azioni può costituire un pretesto per una sanzione, un fermo, una condanna. I sondaggi che paiono confermare il sostegno popolare nei confronti di questa guerra non devono trarre in inganno: si tratta di cittadini russi che a domanda rispondono, sapendo di farlo per strada o al telefono a proprio rischio e spesso diffidando delle intenzioni e posizioni di partenza dell’intervistatore. 

Mentre i giornali e i media indipendenti hanno dovuto chiudere e in alcuni casi hanno aperto redazioni all’estero (è il caso di Novaja gazeta, ad esempio) restando inaccessibili via web dalla Russia, i canali Telegram e YouTube restano per ora delle realtà virtuali molto vive e seguite. Non è un caso che proprio nel corso delle sue seguitissime puntate (alcune, come le interviste a Dmitrij Muratov e Grigorij Judin hanno superato i 4 milioni di visualizzazioni), la giornalista Katerina Gordeeva sponsorizzi anche dei servizi di VPN per aiutare i russi ad aggirare i blocchi imposti alle realtà d’informazione indipendente online. Non è nemmeno un caso che quello di Gordeeva sia un canale ben sottotitolato in inglese, capace dunque di raggiungere quel pubblico internazionale interessato a seguire il dibattito interno della Russia “altra”.

Foto di copertina di Pixabay

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Martina Napolitano
Martina Napolitano

Dottoressa di ricerca in Slavistica, è docente di lingua russa e traduzione presso l’Università di Trieste, si occupa in particolare di cultura tardo-sovietica e contemporanea di lingua russa. È traduttrice, curatrice di collana presso la casa editrice Bottega Errante ed è la presidente di Meridiano 13 APS.