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Olocausto macedone, narrazioni a confronto

Mentre il 10 marzo a Sofia si celebra la Giornata del salvataggio degli ebrei bulgari, l’11 marzo a Skopje si ricorda l’Olocausto macedone. Due narrazioni e interpretazioni degli eventi della Seconda guerra mondiale diametralmente opposte e confliggenti, con ricadute tutte attuali sulle relazioni diplomatiche tra i due stati confinanti.

Ohrid, ottobre 2022: l’apertura di un circolo culturale bulgaro dedicato allo zar Boris III scatena le ire dei macedoni, che interpretano l’avvenimento come una bassa provocazione da parte di Sofia. Tra la folla compare un cartello, che recita “Con i fascisti non si tratta” (Со фашисти не се преговара). Il rimando è duplice: da un lato si fa riferimento alle negoziazioni in corso sull’allargamento dell’Ue in Macedonia del Nord, ostaggio dei diktat bulgari e del loro potere di veto in sede di Consiglio dell’Ue; dall’altro al ruolo assunto dalla monarchia bulgara nel corso della Seconda guerra mondiale, quando si schierò con le forze dell’Asse e occupò militarmente quasi tutto il territorio corrispondente all’odierna Macedonia del Nord.

Secondo quello che oramai è andato a costituirsi come un vero e proprio topos comune nella narrazione politica macedone, abbracciato in maniera bipartisan tanto dai conservatori di Vmro-dpmne quanto dalla sinistra di Levica, c’è dunque una sostanziale continuità tra i bulgari occupatori e fascisti della Seconda guerra mondiale e i bulgari di oggi. Questi ultimi sarebbero rei di promuovere una politica di “bulgarizzazione” della cultura, lingua e storia macedoni, esigendo da Skopje la promulgazione di riforme irricevibili come lasciapassare per l’ingresso in Ue.

Dall’altra parte del confine, invece, non si parla di occupazione in riferimento ai drammatici eventi avvenuti tra il 1941 e il 1944, ma piuttosto di amministrazione territoriale; le richieste mosse ai macedoni vengono giustificate in termini di tutela della minoranza bulgara in Macedonia del Nord – tutela che, vale la pena sottolinearlo, non è invece concessa alla minoranza macedone in Bulgaria.

Uno dei tanti tavoli ai quali si gioca questa partita di narrazioni e contronarrazioni tra Bulgaria e Macedonia del Nord – nonché uno dei più confliggenti e, proprio per questo motivo, esemplificativi – riguarda però il modo in cui è ricordato l’Olocausto in ciascuno dei due paesi confinanti. O, per essere più specifici, come l’Olocausto macedone sia ricordato in Macedonia del Nord e come (non) sia ricordato in Bulgaria.

La narrazione di Sofia: il salvataggio degli ebrei bulgari

Non c’è modo migliore di analizzare la narrativa nazionale di un determinato evento storico che armarsi di spirito critico e visitare l’offerta museale di un paese. Il Museo nazionale di storia della Bulgaria in questo senso è illuminante. L’edificio, ex residenza governativa dell’ultimo presidente della Repubblica popolare di Bulgaria, Todor Živkov, si sviluppa nella periferia sud-occidentale di Sofia, su una superficie complessiva di 6mila metri quadrati, suddivisa in cinque sezioni che accompagnano il visitatore alla scoperta dei momenti salienti della storia del paese balcanico.

museo storia nazionale sofia
Museo di storia nazionale (Meridiano 13/Giorgia Spadoni)

La sezione relativa al Principato e al Regno di Bulgaria, a confronto delle altre, colpisce per la propria modestia. Al suo interno, più di 30 vetrine sono dedicate allo sviluppo del paese a seguito dell’indipendenza dall’Impero ottomano (1878). Solo un paio affrontano gli anni della Seconda guerra mondiale.

Di queste, una è dedicata interamente all’Olocausto. Su tutto, svetta un grande trofeo a forma di menorah. Le didascalie informano il visitatore che si tratta di un dono della comunità ebraica di Washington al presidente bulgaro Želju Želev (1990-1997) per il “salvataggio degli ebrei bulgari nella Seconda guerra mondiale”. Una seconda targa esprime la gratitudine degli ebrei americani al “popolo giusto” della Bulgaria, che ha rischiato la vita per evitare la deportazione dei propri connazionali di origine ebraica. Ecco qui condensata l’intera narrazione bulgara attorno all’Olocausto: il “popolo giusto” bulgaro che salva da deportazione e morte certa l’intera comunità ebraica nazionale, costituita da più di 48mila individui.

museo storia nazionale sofia
Museo di storia nazionale (Meridiano 13/Giorgia Spadoni)

Se tuttavia la resistenza dello zar Boris III (lo stesso del centro culturale aperto a Ohrid) alle pressioni tedesche, che pretendevano l’esecuzione della soluzione finale anche nell’alleata Bulgaria, è degna di nota, restano molte lacune importanti nella narrazione degli eventi. Innanzitutto non vi è alcun riferimento al clima antisemita che pur si respirava in territorio bulgaro all’epoca dei fatti: ancora prima di aderire al patto tripartito, su iniziativa del primo ministro germanofilo Bogdan Filov, misure a difesa della razza e apertamente antisemite erano già state prese, come la legge per la protezione della nazione promulgata dal parlamento bulgaro nel 1941. Campi di lavoro entro i quali veniva confinata in condizioni pietose la popolazione bulgara di origini ebraiche restarono in attività fino alla resa di Sofia.

In secondo luogo, non è minimamente menzionata la responsabilità delle autorità bulgare nella deportazione degli ebrei dalle aree occupate. Solo un pannello informativo marginale informa i visitatori più attenti che “11.363 ebrei della Macedonia Egea e della Macedonia di Vardar furono deportati”, senza accennare in alcun modo al fatto che le deportazioni fossero state organizzate e gestite dalle forze d’occupazione bulgare.

Un lapsus tutt’altro che casuale, come ci confermano le dichiarazioni di Božidar Dimitrov, ex ministro del governo Borisov e direttore del museo. Per Dimitrov, gli ebrei macedoni non furono deportati dalle autorità bulgare, e questo sarebbe dimostrato dal fatto che, altrimenti, l’intera popolazione ebraica bulgara avrebbe seguito la stessa sorte. Ciò invece non avvenne “perché erano cittadini bulgari” e dunque scamparono alla Shoah. Ma chi è dunque il colpevole per l’Olocausto macedone? Il parere di Dimitrov è netto:

Nel 1941, la Germania vietò alla Bulgaria di concedere la cittadinanza bulgara a circa 11.000 ebrei macedoni. (…) Gli ebrei macedoni furono mandati nei campi di sterminio dai tedeschi come parte della cosiddetta soluzione finale.

La responsabilità, quindi, nonostante i territori incriminati fossero sotto diretta amministrazione di Sofia, secondo Dimitrov, non sarebbe da attribuire alle autorità bulgare, ma a quelle tedesche. In questa chiave di lettura distorta l’Olocausto macedone sarebbe avvenuto perché gli ebrei macedoni non erano considerati cittadini bulgari, a differenza degli ebrei di Bulgaria, e in quanto tali sono potuti essere stati deportati nei campi di concentramento nazisti. Una facile via di fuga da un passato con il quale è difficile fare i conti.

La narrazione di Skopje: occupazione e Olocausto macedone

Se al Museo nazionale di storia della Bulgaria l’Olocausto macedone viene relegato a poche righe di una stanza dedicata al Principato, a Skopje è stato costruito un museo intero a due passi dalla piazza principale della città. Inaugurato nel 2013 nel bel mezzo del mastodontico piano di restyling della città noto come Skopje 2014, il museo risulta all’avanguardia sia dal punto di vista architettonico che di offerta multimediale al suo interno.

Si inizia al pian terreno con la visione di sagome umanoidi che reggono foto di ebrei deportati, cornici vuote o specchi. L’intento di questo espediente è quello di far immedesimare il visitatore nei panni di una delle vittime dell’Olocausto macedone sin dal primo momento.

Imperial Tobacco "Monopol" di Skopje (TKS), campo di concentramento e transito provvisorio per gli ebrei macedoni tra il 10 e il 31 marzo 1943
Sede della Imperial Tobacco “Monopol” di Skopje (TKS), che funse da campo di concentramento e transito per gli ebrei macedoni tra il 10 e il 31 marzo 1943 (Meridiano 13/Nicola Zordan)

Proseguendo si sale una scalinata dove è possibile informarsi sulla storia del popolo ebraico, dalle origini fino alla contemporaneità. Al primo piano, infine, si giunge al cuore del museo: l’occupazione bulgara dal 1941 al 1944. Differentemente rispetto a quanto appreso a Sofia, si ripercorre con dovizia di particolari lo smembramento della Jugoslavia da parte delle forze dell’Asse, l’occupazione della Macedonia avvenuta il 18 aprile e l’imposizione della cittadinanza bulgara “a tutti i popoli della Tracia e della Macedonia, ad esclusione degli ebrei”.

Prigionieri ebrei ammassati dalle forze di occupazione bulgare nel campo di transito Monopol, Skopje, 11-31 marzo 1943
Prigionieri ebrei ammassati nel campo di transito Monopol, Skopje, 11-31 marzo 1943 (Central Zionist Archives)

A sostegno di questi sviluppi viene fornita un’ampia documentazione fotografica ed audiovisiva, arricchita dalle testimonianze dei superstiti, senza che venga censurata in alcun modo la brutalità delle truppe bulgare nei confronti della minoranza ebraica. Allo stesso modo non si tace l’esperienza degli ebrei bulgari, ma piuttosto che come un “salvataggio”, viene qui presentata come una mancata deportazione.

Infatti poco oltre un altro cartello descrittivo riporta la seguente nota informativa:

Le notizie del destino riservato agli ebrei dei territori occupati innescò una forte reazione pubblica. Una delegazione di bulgari assistita dal vicepresidente del parlamento, Dimitar Peshev, e da 43 parlamentari presentò al governo una decisa protesta. Grazie agli sforzi e all’intervento di personaggi pubblici influenti sul regime, nonché all’opposizione della Chiesa ortodossa bulgara, l’ordine di deportazione fu annullato. 48mila ebrei bulgari originari dei vecchi confini della Bulgaria non furono né deportati né uccisi.

La decisione dello zar Boris III viene qui presentata sotto una luce diversa, in quanto attore più passivo che attivo sulla fatidica decisione che porterà alla sopravvivenza della comunità ebraica bulgara: appare infatti più spinto dall’impegno diretto della società civile del suo stesso paese piuttosto che mosso da sinceri intenti umanitaristici. Ecco però che poco più avanti viene fatta una precisazione: “Solo quando i cittadini ebrei bulgari furono minacciati di deportazione parlamentari, leader ecclesiastici, avvocati e scrittori protestarono e chiesero la protezione dei loro concittadini. Ma per gli ebrei macedoni non è servito a nulla”. Come a dire che la mobilitazione avvenne, ma fu solo quando furono i bulgari ad essere minacciati, mentre nessuno in Bulgaria manifestò in difesa degli ebrei macedoni.

Ebrei macedoni abbandonano il campo di transito Monopol per essere deportati a Treblinka, 22-29 marzo 1943.
Ebrei macedoni abbandonano il campo di transito Monopol per essere deportati a Treblinka, 22-29 marzo 1943 (Central Zionist Archives)

A seguito di questa sezione informativa – che va notato essere colma di riproduzioni e riferimenti nazi-fascisti, dai manifesti propagandistici alle bandiere con la svastica – si discende una seconda scalinata, dopo la quale si è costretti ad attraversare la replica di un carro bestiame delle ferrovie dello stato bulgare utilizzato per la deportazione degli ebrei e l’attuazione dell’Olocausto macedone (la provenienza del carro è palesata dalla sigla delle ferrovie bulgare riportata sulla fiancata esterna).



Dopo aver attraversato il carro, ci si imbatte in una replica in miniatura del campo di sterminio di Treblinka, destinazione finale degli internati. Qui vennero deportati 4.221 ebrei dalla Tracia occidentale e dalla provincia greca della Macedonia, oltre a 7.148 ebrei dalla Vardar Macedonia, spazzando via per sempre la secolare comunità ebraica che vi si era insediata. Di questi, solo 12 fecero ritorno.

La memoria come strumento per politiche identitarie

Nonostante la narrazione ufficiale sull’Olocausto macedone risulti decisamente più accurata e meno fuorviante a Skopje piuttosto che a Sofia, nemmeno la Macedonia del Nord può considerarsi esente da ogni critica rispetto a questo aspetto. Non tanto in termini contenutistici – sicuramente più fedeli alla realtà e completi nell’esposizione dei fatti – quanto nei modi e nei fini. Rispetto ai primi, l’iper-immedesimazione imposta al visitatore nei confronti degli ebrei vittime dell’Olocausto macedone – arrivando a farlo salire su una fedele riproduzione di un carro bestiame utilizzato per la deportazione – può risultare eccessiva, sconfinando dall’esposizione oggettiva degli eventi alla ricerca di un forte coinvolgimento emotivo. Con quale fine?

Questa domanda ci porta al secondo punto e, circolarmente, all’inizio dell’articolo. Se è importante ricordare, infatti, è altrettanto importante interrogarsi su come si ricorda, sul perché si ricorda. L’istituzione del Giorno della memoria a livello internazionale ha un fine ben preciso: ricordare la Shoah e fare in modo che il ricordo impedisca a simili barbarie di riaffacciarsi nuovamente nel corso della storia umana.

Accanto a questo fine, la narrazione sull’Olocausto macedone da parte di Skopje ne definisce però un altro, ben più attuale e politicizzato: la difesa dell’identità macedone, messa recentemente in discussione proprio da Sofia con pressioni e dichiarazioni politiche volte a negare o sminuire l’esistenza di una popolazione macedone con tradizioni, lingua e cultura distinte da quelle bulgare. In questo modo, all’insinuazione proveniente dall’altro lato del confine di un’identità macedone quale “invenzione di Tito”, i macedoni rispondono tracciando un parallelismo tra gli anni Quaranta e il Ventunesimo secolo, tra gli occupatori bulgari alleati dei nazisti e dei fascisti e l’élite politica d’oltreconfine di oggi. Se la Bulgaria di ieri occupò militarmente la Macedonia, oggi cerca di “bulgarizzarla” culturalmente.

A sostegno della narrazione del “bulgaro fascista”, il ricordo dell’Olocausto macedone è utilizzato strumentalmente per rafforzare l’immagine dei bulgari come occupatori, violenti e revanscisti, e per compattare la popolazione a difesa della propria identità nei confronti di aggressive ingerenze esterne. Non si fa del revisionismo storico (tendenza invece ben più marcata all’altro lato del confine, come abbiamo visto), ma la retorica costruita attorno alla memoria non può essere definita esattamente riconciliante, nella misura in cui viene utilizzata per etichettare la Bulgaria di oggi. Bulgaria che, d’altro canto, con le sue posizioni – quando non aperte provocazioni – sulla questione macedone non fa molto per stemperare la situazione.

Lo sciovinismo, potremmo chiosare, genera altro sciovinismo.

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Nicola Zordan
Nicola Zordan

Mosso da un sincero interesse per la storia e la cultura della penisola balcanica, si è laureato in Studi Internazionali all’Università di Trento, per poi specializzarsi in Studi sull’Europa dell’Est all’Università di Bologna. Ha vissuto in Romania, Croazia e Bosnia ed Erzegovina, studiando e impegnandosi in attività di volontariato. Tra il 2021 e il 2022 ha scritto per Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa. Attualmente risiede in Macedonia del Nord, dove lavora presso l’ufficio di ALDA Skopje.