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Quando i circoli culturali diventano strumento di propaganda

Le polemiche sulla recente inaugurazione di due circoli culturali bulgari in Macedonia del Nord, intestati a dei personaggi storici macchiatisi di collaborazionismo con il regime nazista, hanno radici profonde, almeno quanto la questione macedone stessa. Così la politicizzazione di argomenti storiografici espone il fianco a inquietanti esplosioni di violenza e nazionalismo.

Se sabato 16 aprile vi fosse capitato di passare per Bitola – terza città per numero di abitanti della Macedonia del Nord, nella regione statistica di Pelagonia – vi sareste probabilmente imbattuti in un insolito fermento per le strade cittadine. Le ragioni, molteplici. Innanzitutto per l’inusuale presenza di un cospicuo quanto illustre raggruppamento di politici bulgari, che spaziavano dall’allora primo ministro Kiril Petkov alla vice presidente Iliyana Yotova, alla ministra degli Esteri Teodora Genchovska. E poi ancora ex ministri della Difesa, ex ministri degli Esteri, parlamentari.

Sebbene nessuno di loro fosse in Macedonia del Nord in veste ufficiale, non si può certo dire che la ragione della loro visita fosse di natura meramente turistica. È evidente che i presenti si siano presi la briga di percorrere qualche centinaio di chilometri per altre ragioni oltre che per concedersi una passeggiata lungo la Širok Sokak, la lunga via pedonale per la quale è famosa la città. Ragioni che ci conducono al secondo elemento dell’equazione, indispensabile per comprendere il fermento cittadino di quel sabato d’aprile: l’apertura di un circolo culturale bulgaro a Bitola.

In circostanze normali, l’apertura di un circolo culturale non dovrebbe essere motivo di particolare tensione. Le relazioni tra Macedonia del Nord e Bulgaria, però, sono ai minimi storici già da qualche tempo. Almeno da quando, nel 2020, Sofia ha posto il veto sull’apertura delle negoziazioni per l’ingresso di Skopje all’Ue, subordinando di fatto questo traguardo alla risoluzione di tutta una serie di diatribe bilaterali. Tra queste, spiccano le richieste di riconoscimento della minoranza bulgara in quanto popolo costituente della Macedonia del Nord, di considerare il macedone alla stregua di una variante del bulgaro e di conformarsi alla propria interpretazione di alcune vicende e personaggi storici contesi.

Proprio la figura storica alla quale si è deciso di dedicare il circolo culturale di Bitola getta benzina su un clima già incandescente. Ivan Mihailov, infatti, non è noto solo per essere stato l’ultimo leader dell’Organizzazione rivoluzionaria interna macedone (Vmro), ma anche e soprattutto un collaborazionista delle forze nazifasciste durante l’occupazione della Jugoslavia.

Un passo indietro: Tito e la questione macedone

Le forze dell’Asse invasero la prima Jugoslavia il 6 aprile 1941, sbaragliando ogni resistenza nel giro di pochi giorni. Il paese venne rapidamente suddiviso tra potenze occupanti, e alla Bulgaria – che peraltro ebbe un ruolo abbastanza passivo nelle operazioni militari – fu assegnata gran parte dell’odierna Macedonia del Nord. Inizialmente la maggior parte della popolazione accolse di buon grado gli occupanti: la coscienza nazionale macedone, in netto ritardo rispetto ai nazionalismi limitrofi, non era ancora abbastanza evoluta per considerarsi indipendente e autonoma rispetto alle altre identità regionali. Anzi, all’epoca dei fatti la maggioranza degli slavi dell’odierna Macedonia si considerava, per l’appunto, etnicamente bulgara.

Non c’è da stupirsi, dunque, se molte unità macedoni (ma la stessa situazione venne a verificarsi con tutte le nazionalità subordinate alla Jugoslavia serbo-centrica del tempo) arruolate nell’esercito rifiutarono di combattere le forze dell’Asse nei giorni dell’invasione: dopo anni di serbizzazione forzata della popolazione, l’invasore era quasi visto alla stregua di un liberatore, e in molte città venne effettivamente accolto come tale, con tanto di sventolio di bandiere bulgare. Il Comitato regionale dei comunisti di Macedonia, soppresso nel 1943 e capeggiato da Metodi Shatorov, rifiutò inizialmente di eseguire gli ordini del Comitato centrale del partito comunista di Jugoslavia, che ordinava di organizzare una resistenza armata contro gli occupanti. Egli respinse addirittura la visione dei bulgari come invasori, proponendo l’unione dei comunisti di Macedonia con il Partito comunista bulgaro e opponendosi alla visione di uno stato macedone all’interno di una federazione jugoslava.

La situazione iniziò a cambiare dal 1943, quando Tito inviò in Macedonia Svetozar Vukmanović. Venne costituito l’Esercito di liberazione popolare della Macedonia e il Partito comunista di Macedonia prese il posto del Comitato regionale. Una chiara identità macedone, distinta da quella bulgara, venne volutamente incentivata: gli elementi pro-bulgari all’interno del movimento vennero messi in minoranza e isolati, come anche i sostenitori dell’idea di una riunificazione dell’intera regione macedone sotto la stessa bandiera, indipendente dalla futura Jugoslavia socialista. Per guadagnarsi il consenso della popolazione, il partito promise di fare da argine alla politica serbocentrica degli anni precedenti, ma allo stesso tempo si oppose con forza alla visione – all’epoca prevalente – che considerava gli slavi macedoni come etnicamente bulgari. Questa decisa scelta di campo era determinata da precisi calcoli strategici, dal momento che l’emergere di una nuova nazione autoctona in Macedonia avrebbe mutato gli equilibri postbellici, disinnescando eventuali aspirazioni bulgare sulla regione.

Questo scontro di vedute sul futuro della Macedonia creò delle spaccature interne al movimento stesso di liberazione, come quelle che condussero, sul finire del 1944 e l’inizio del 1945, a un vero e proprio ammutinamento da parte di una fazione dell’esercito partigiano, restia ad inviare le proprie forze sul fronte dello Srem. I dissidenti, arroccatisi nella fortezza di Skopje, sostenevano la necessità di muovere verso sud per la liberazione della Macedonia greca, concretizzando così l’unificazione dell’intera regione macedone, piuttosto che accorrere verso nord per sfondare le ultime linee di difesa naziste in Jugoslavia. Al rifiuto di deporre le armi, la ribellione fu repressa con durezza, sfociando in quello che è passato alla storia come il “Natale di sangue”: tra il 7 e il 9 gennaio 1945 un numero indefinito di bulgari macedoni furono giustiziati con l’accusa di collaborazionismo con le autorità occupanti, mentre molti altri subirono una dura repressione a causa delle loro posizioni filobulgare.

Come si evince da queste divergenze, nella Macedonia di quegli anni si sovrapponevano più conflitti: tra partigiani e forze di occupazione, tra indipendentisti e “jugoslavisti”, ma anche tra elementi pro e anti-bulgari. La vittoria dei partigiani di Tito segnerà l’affermazione dell’idea di una Macedonia separata dalla Bulgaria e facente parte di una Jugoslavia federale e socialista. Fu così sancita la nascita di una nazione macedone distintamente autonoma rispetto a quella bulgara, nella quale il contributo fondamentale dei soldati bulgari nella liberazione della Macedonia e della Jugoslavia (il 9 settembre 1944 un colpo di stato destituì il governo di Sofia e la Bulgaria dichiarò guerra alla Germania) verrà sminuito, quando non obliato, dalle nuove autorità al potere.

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Chi è Ivan Mihailov

In questo contesto il ruolo di Ivan Mihailov è quantomeno ambiguo. Anticomunista di ferro, sotto la sua direzione la Vmro si epurerà degli elementi più a sinistra dell’organizzazione – molti dei quali finiranno ad ingrossare proprio le fila dei comunisti – e degli oppositori al nazionalismo bulgaro. La sua idea non era tanto quella di annettere la Macedonia alla Bulgaria, quanto di creare uno stato unitario, indipendente ma in stretti rapporti con Sofia. Il fatto che per Mihailov i macedoni rappresentassero una popolazione etnicamente bulgara non stava a significare che non avessero diritto ad uno stato autonomo. Sarà sotto il suo comando che la Vmro porterà a compimento gli attacchi più sensazionali contro i rappresentanti del regno di Jugoslavia, tra i quali l’assassinio del re Alexander I a Marsiglia, organizzato assieme agli ustascia di Ante Pavelić.

È proprio da Pavelić che troverà rifugio durante il conflitto bellico, collaborando con nazisti e fascisti per l’organizzazione di alcuni distaccamenti militari nella Grecia occupata. Tra il 1943 e il 1944, assecondando i piani di Hitler e Himmler in persona, cercherà anche di creare il corrispettivo macedone dello Stato indipendente di Croazia – uno stato fantoccio collaborazionista dell’Italia fascista e della Germania nazista: piano destinato a fallire miseramente per il ritiro delle forze tedesche dalla penisola balcanica e la piega inevitabile che il conflitto prese nell’ultimo periodo. Dopo la Seconda guerra mondiale riparerà in Italia, dove diverrà presto il punto di riferimento per  l’Organizzazione patriottica macedone (Mpo) e da dove denuncerà fino alla sua morte le politiche anti-bulgare del governo di Belgrado e la necessità di riunire la Macedonia in uno stato multietnico indipendente a trazione bulgara.

Prima della dissoluzione della Jugoslavia e della caduta del regime di Sofia, entrambi i paesi (ma anche la Grecia) consideravano Mihailov alla stregua di un traditore, fascista e collaborazionista. Questo sentimento iniziò a mutare dopo la fine della guerra fredda, con il violento riemergere dei nazionalismi  lungo tutta la penisola balcanica: come accade di continuo, la rilettura faziosa del passato funge da perno attorno al quale costruire una specifica retorica. Mentre la Macedonia del Nord continua a considerare Mihailov come un traditore della causa macedone, reo di avere negato l’esistenza di un’etnia macedone a se stante, la Bulgaria lo celebra apertamente quale eroe nazionale, quale combattente per l’indipendenza dei bulgari di Macedonia tanto dal dominio serbo che dal dominio greco, facendo proprie le sue teorie sull’origine bulgara dei macedoni. Mentre i primi bandiscono il suo nome dalle istituzioni culturali del paese, i secondi gli dedicano vie e monumenti.

Ancora circoli culturali e proteste

Non è un caso, quindi, che il dibattito attorno a queste figure storiche divisive si acutizzi nei momenti di tensione bilaterale, come il presente. Quello che si fatica a non considerare apertamente provocatorio, tuttavia, è la partecipazione di diversi esponenti pubblici di rilievo all’apertura di un circolo culturale intestato a un collaborazionista, che nel paese ospitante è considerato alla stregua di un traditore. Soprattutto perché non si tratta di un caso isolato. A seguito dell’inaugurazione e delle inevitabili polemiche che ne sono scaturite, difatti, a Ohrid ha visto la luce un secondo, controverso, circolo culturale bulgaro, questa volta titolato allo zar Boris III. Sebbene in patria sia commemorato come il regnante che, durante la Seconda guerra mondiale, salvò da morte certa la comunità ebraica di Bulgaria, all’estero è invece ricordato per avere avallato la deportazione degli ebrei dalle zone occupate: nel marzo del 1943 circa 8mila ebrei macedoni saranno rastrellati dai militari bulgari e inviati nei campi di concentramento e sterminio a causa della sua ignavia.

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Inaugurazione del circolo culturale zar Boris III, Ohrid (foto di Georgi Licovski, reperita su Balkan Insight)

Alla luce del fatto che, assieme alle altre rivendicazioni, la Bulgaria pretende dai vicini anche la modifica dei propri testi scolastici in riferimento alla Seconda guerra mondiale – in modo che non si faccia più riferimento ai tre anni di “occupazione”, bensì a una più edificante “amministrazione bulgara” della Macedonia del Nord – è evidente che queste iniziative hanno il solo effetto di esacerbare una situazione di per sé già abbastanza tesa. Riuscendo nell’intento. Come riportato da diversi media, l’apertura del circolo culturale a Ohrid – appena a qualche giorno di distanza dalla celebrazione della giornata della rivolta macedone, formalmente considerata l’inizio della sollevazione popolare contro l’occupazione nazifascista – è stata molto più contestata rispetto all’evento di Bitola, sfociando in veri e propri scontri con la polizia schierata a difesa dell’edificio. I manifestanti hanno indirizzato ai membri del circolo appellativi quali “fascisti” e “assassini”, mentre è stato intonato lo slogan “Nessuna negoziazione con i fascisti”,  in riferimento alle trattative attualmente in corso con la delegazione bulgara.

Allo stesso tempo, rispondendo alle provocazioni con altre provocazioni, un circolo culturale macedone è stato aperto nella città bulgara di Blagoevgrad, la cui omonima provincia ospita circa un terzo dei macedoni residenti in Bulgaria. L’inaugurazione ha visto la partecipazione di Dimitar Apasiev e Hristijan Mickoski, rispettivamente i leader dei partiti macedoni Vmro Dpmne e Levica. Anche in questo caso il nome sembra essere stato scelto con intento provocatorio: Nikola Vapcarov è infatti un noto poeta bulgaro, condannato a morte per attività sovversiva nel 1942. Ma per alcuni la sua comprovata adesione al circolo letterario macedone è condizione necessaria e sufficiente per essere considerato a tutti gli effetti un poeta e compatriota della Macedonia del Nord. Indignando i vicini bulgari: proteste e azioni legali sono già state avviate contro la registrazione del circolo.

L’ultimo capitolo – per ora – di questa guerra combattuta a suon di provocazioni, centri culturali e revisionismo storico ha visto il parlamento macedone approvare degli emendamenti, sostenuti da maggioranza e opposizione, che obbligano i centri culturali bulgari di recente apertura a cambiare il proprio nome entro tre mesi. In tutta risposta Nikolay Milkov, il ministro degli Affari Esteri della Bulgaria, si è detto preoccupato per la libertà di associazione dei bulgari in Macedonia del Nord, accusando le autorità di Skopje di non aver ancora fatto i conti con l’epoca comunista e di non avere mai riconosciuto le atrocità commesse nei confronti della minoranza bulgara del paese.

Come spesso accade, ad un clima politico artificialmente arroventato seguono delle azioni, dalle parole si passa ai fatti. È così che, in due attacchi consecutivi, rispettivamente il 22 e il 23 novembre, alcuni ignoti hanno prima bersagliato di sassate il circolo culturale bulgaro di Ohrid, causando danni alla struttura, e poi, la notte seguente, hanno esploso dei colpi di arma da fuoco in direzione dell’edificio. Non certo il clima ideale per venire a capo di una trattativa che, anche in assenza di provocazioni reciproche, già si prospettava lunga e in salita. Ma ciò che forse è ancor più grave dell’ulteriore stallo nel processo di allargamento europeo è l’intorbidamento della verità storica, vittima, ancora una volta, del fuoco incrociato tra nazionalismi confinanti, sacrificata sull’altare della propaganda.

Foto di copertina: Nicola Zordan

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Nicola Zordan
Nicola Zordan

Mosso da un sincero interesse per la storia e la cultura della penisola balcanica, si è laureato in Studi Internazionali all’Università di Trento, per poi specializzarsi in Studi sull’Europa dell’Est all’Università di Bologna. Ha vissuto in Romania, Croazia e Bosnia ed Erzegovina, studiando e impegnandosi in attività di volontariato. Tra il 2021 e il 2022 ha scritto per Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa. Attualmente risiede in Macedonia del Nord, dove lavora presso l’ufficio di ALDA Skopje.