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Cosa ostacola la decolonizzazione della Russia?

di Tomasz Kamusella*

Questo articolo è stato originariamente pubblicato da New Eastern Europe, rivista bimestrale dedicata all’Europa centrale e orientale. La traduzione dall’inglese è a cura di Claudia Bettiol.

La possibile futura decolonizzazione della Federazione Russa ha, di recente, risvegliato il dibattito sulla questione. Ciò che, tuttavia, è importante ricordare è quanto l’attuale sistema russo sia strettamente legato all’idea di impero. Questo modello, che perdura da secoli, continua ad arricchire l’élite a discapito della popolazione.

Cosa ostacola la decolonizzazione della Russia? Perché agli occhi dell’élite e dell’opinione pubblica russa mantenere delle colonie e persino espandere ulteriormente l’impero russo sembra una buona idea? L’ingiustificata invasione coloniale su larga scala della pacifica Ucraina da parte del Cremlino non può essere analizzata con chiarezza senza rispondere a queste impellenti domande; quesiti che sia l’Occidente che i russi sono ancora restii a porre.

Imperi di terra e imperi marittimi

Il carattere coloniale della Federazione Russa e dell’Unione Sovietica è stato caparbiamente negato dai leader, dalle élite e dai ricercatori di entrambi i paesi, nonostante il fatto che l’attuale Russia e gli altri quattordici Stati nazionali post-sovietici siano (ri)emersi nel 1991 proprio grazie alla decolonizzazione dell’Unione Sovietica. Eppure, questo processo epocale di decolonizzazione, avvenuto su un sesto della superficie del pianeta, viene celato attraverso l’uso vago del termine “dissoluzione”, che non rivela assolutamente nulla sulla natura di questo processo. Secondo questa visione, l’Unione Sovietica non è stata decolonizzata, ma “semplicemente” si è divisa, frammentata o disgregata, per ragioni poco chiare.

Colleghi e studiosi occidentali, senza riflettere, si sono attenuti all’opinione propagandistica e sostanzialmente mendace di Mosca su questa spinosa questione politica e storica. Hanno anche concordato con i loro omologhi russi sul fatto che l’Impero russo, che ha preceduto l’Unione Sovietica, non fosse affatto un impero: dopotutto, la burocrazia zarista non ha mai istituito uffici imperiali e non ha mai usato il termine “colonia” per riferirsi alle aree remote dell’impero abitate da centinaia di popoli colonizzati. Questi molteplici gruppi etnici parlavano (e talvolta scrivevano) un’enorme varietà di lingue e professavano numerose religioni.

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Gli osservatori occidentali sono legati all’idea degli imperi marittimi, costruiti e mantenuti nell’ultimo mezzo millennio dalle metropoli coloniali dell’Europa occidentale: Spagna, Portogallo, Francia o Gran Bretagna. Non riescono a vedere gli imperi di terra come “imperi veri e propri”. Eppure, la vastità territoriale dell’Eurasia, del Medio Oriente e dell’Africa ha prodotto più volte estesi imperi di terra fin dall’antichità. È stato così per l’Egitto, l’Assiria e, un po’ più tardi, per gli imperi cinese e romano. Il Medioevo in questa “Africa-Eurasia” è stato segnato dalla successiva ascesa degli imperi islamico, mongolo e ottomano.

Solo con l’inizio dell’età moderna le potenze europee occidentali si lanciarono alla conquista di imperi marittimi. Dall’estrema penisola occidentale dell’Eurasia non avevano alcun luogo dove espandersi via terra e il loro accesso al resto dell’Africa-Eurasia era di fatto ostacolato dagli imperi ottomano e russo. Le nascenti potenze imperiali dell’Europa occidentale superarono l’impedimento terrestre conquistando gli oceani e i mari del mondo. Accaparrarsi delle aree costiere di importanza economica o strategica pre-individuate si rivelò più economico ed efficace che controllare e mantenere imperi di terra che si presentavano come un unico “blocco” di territorio contiguo.

In Europa, la Russia rappresenta un’eccezione moderna al principio marittimo. Con l’impiego delle tecnologie coloniali dell’Europa occidentale, Mosca ha infatti perseguito la conquista e la costruzione di un impero che si estende su tutta la terraferma eurasiatica. Le metropoli coloniali dell’Europa occidentale hanno emulato gli antichi greci nei loro sforzi marittimi, mentre i russi hanno seguito le orme dei romani, dell’impero islamico, dei mongoli o dei cinesi. Sono stati questi quattro esempi imperiali a ispirare in modo decisivo l’idea russa di cosa debba essere un “vero impero” in termini territoriali.

Le colonie russe

Nel caso degli imperi marittimi dell’Europa occidentale, la distinzione tra la metropoli e le sue colonie era facile da stabilire. La prima si trovava in Europa occidentale, dove esisteva anche come “ordinario paese europeo”, uno tra i tanti, sebbene la maggior parte fosse privo di un impero d’oltremare. Austria, Boemia, Ungheria, Granducato di Lituania, Regno delle Due Sicilie, Prussia o Serbia appartenevano a questa categoria perché non fondarono imperi marittimi (o non ci riuscirono). D’altro canto, se non per i loro fiorenti imperi marittimi, Gran Bretagna, Danimarca, Francia, Portogallo o Spagna non si distinguevano molto dalle altre entità statali europee dell’età moderna.

Erano gli oceani a separare le metropoli imperiali dell’Europa occidentale dalle loro colonie d’oltremare, possedimenti di regola situati fuori dall’Europa. La situazione delle colonie russe è invece diversa poiché, nella maggior parte dei casi, nessun vasto specchio d’acqua le isola dalla metropoli europea, la cui capitale è Mosca. Ciò che ha separato la metropoli imperiale russa dalle sue colonie sono le differenze etniche e religiose e le terre disabitate o scarsamente popolate, che in ultima analisi agiscono per loro natura come oceani.

La fondazione della Moscovia al volgere del XIV secolo fu un tentativo semicoloniale effettuato sotto la stretta sorveglianza dei signori mongoli nel remoto angolo nord-occidentale del loro impero eurasiatico. I cristiani ortodossi slavofoni della Moscovia, a est e a nord dei loro insediamenti, sottomisero gradualmente i gruppi etnici baltici e ugro-finnici circostanti. I colonizzatori cristiani (ortodossi) legittimarono questa conquista percependola come “necessità” di “cristianizzare i pagani”. Una linea d’azione simile fu perseguita dai Cavalieri Teutonici lungo il litorale baltico sud-orientale o dalla Repubblica di Novgorod nelle aree settentrionali che si estendevano tra la Scandinavia e l’Impero mongolo (Moscovia compresa).

A quell’epoca, la Moscovia non era molto diversa da altre entità statali tipiche dell’Europa orientale, come il Principato di Galizia-Volynia, il Granducato di Lituania o il Principato di Moldavia. La svolta imperiale arrivò alla fine del XV secolo. Nel 1478 la Moscovia saccheggiò Novgorod e si impadronì dei vasti territori settentrionali della repubblica. In termini territoriali, l’area della repubblica era tre volte più grande di quella della Moscovia. A seguito di questa conquista, la Moscovia si estendeva dalla Scandinavia orientale fino agli Urali e dal Mar Glaciale Artico a Mosca.

Due anni dopo, nel 1480, la Moscovia, fiduciosa della sua forza, riconfermò la sua indipendenza in una vittoriosa battaglia contro gli eserciti dell’Orda d’Oro. In seguito, gli abitanti della Moscovia smisero di pagare tributi a questo successore locale dell’Impero mongolo. Nel frattempo, l’élite di mercanti della Repubblica di Novgorod fu sterminata e le sue istituzioni vennero smantellate: la biblioteca e l’archivio di Novgorod furono bruciati e rasi al suolo. In questo modo la storia stessa della repubblica venne cancellata. Nacque così la prima colonia della Moscovia. I boiardi (nobili) sostituirono le istituzioni proto-democratiche della repubblica con l’autocrazia. La lingua slava trascritta in alfabeto cirillico e la religione ortodossa, entrambe condivise, facilitarono l’assimilazione di Novgorod da parte della Moscovia.

Nella seconda metà del XVI secolo, la Moscovia conquistò gli stati successori dell’Orda d’Oro, ossia i khanati di Kazan’ e Astrachan’ a sud e il khanato di Sibir a est. Come nel caso di Novgorod, le élite (qui di lingua turcica e musulmane) furono sostituite dai boiardi della Moscovia. La popolazione, per lo più, era slavofona e ortodossa o musulmana di lingua turcica. Nel secondo caso, fu spinta a convertirsi all’ortodossia, cosa che in seguito portò spesso alla slavizzazione. Dalla metropoli della Moscovia arrivarono inoltre coloni ortodossi slavofoni; saranno noti in seguito come cosacchi. Così, la vasta area che si estende dal fiume siberiano Ob’ a nord-est, fino ai fiumi Don e Volga a sud-ovest che sfociano rispettivamente nel mar Nero e nel mar Caspio, fu in parte trasformata in un’altra colonia della Moscovia. Sottolineo la parola in parte perché ancora oggi i komi, i mari, i mordvini e gli udmurti di lingua ugro-finnica, insieme ai ciuvasci e ai tatari (di Kazan’) di lingua turcica e ai calmucchi di lingua mongolica, hanno conservato le loro identità etniche, le loro lingue e (in una certa misura) le loro religioni originarie. Inoltre, vantano proprie repubbliche etniche (formalmente) autonome all’interno dell’odierna Russia.

Al contrario, la conquista a est della Siberia tra la fine del XVI e la fine del XVIII secolo (seguita dall’Alaska alla fine del XVIII secolo) fu una netta impresa coloniale. Per molti versi emulava la colonizzazione di tipo marittimo portata avanti dalle metropoli imperiali dell’Europa occidentale, includendo i numerosi genocidi coloniali perpetrati contro i gruppi etnici nativi che osavano opporsi ai conquistadores della Moscovia. Le aree scarsamente popolate dell’inospitale Asia settentrionale non erano separate tra loro da specchi d’acqua ma da enormi tratti disabitati di tundra, taiga e permafrost. A suon di fucili e polvere da sparo, allora sconosciuti in queste zone, i colonizzatori russi riuscirono facilmente a sopraffare i gruppi etnici locali, soprannominati in modo dispregiativo inorodcy (инородцы – “pagani selvaggi” o “nativi”). La vastità di questo territorio vuoto e inospitale rendeva gli spostamenti o qualsiasi proiezione di potere dipendente dal tempo e dalle risorse. Un semplice viaggio attraverso le terre conquistate dalla capitale imperiale di San Pietroburgo alla Kamčatka richiedeva dai due ai tre anni; per fare un paragone, all’inizio del XVI secolo, la prima circumnavigazione documentata della Terra richiese tre anni alla missione del navigatore portoghese Ferdinando Magellano.

Dopo aver sconfitto la Svezia nella Grande Guerra del Nord, nel 1721 la Moscovia si trasformò in Imperium Russicum (“Impero russo” in latino) su modello europeo. A quel punto, l’ultimo territorio conquistato in Europa fu trasformato con successo in una colonia della Moscovia. L’Ingria svedese, scarsamente popolata e di lingua ugro-finnica, fu convertita nella nuova capitale imperiale russa, San Pietroburgo. Nel corso del XVIII e del XIX secolo, la Russia espansionista si trasformò in una potenza imperiale avida e potente. San Pietroburgo conquistò vasti territori in Asia centrale e in Europa centrale. Tuttavia, nessuno di questi fu trasformato in una nuova colonia, con l’eccezione della Circassia o della regione litoranea sul Mar Nero oggi Territorio di Krasnodar. Tutte le aree neo-colonizzate erano più densamente popolate rispetto alla metropoli e spesso più sviluppate dal punto di vista tecnologico e della forma di governo. Di conseguenza, nella maggior parte dei casi, i popoli colonizzati dalla Moscovia (ovvero, dai russi) riuscirono a conservare le proprie culture, lingue, religioni e storia.

Nel 1864, però, l’esercito russo sterminò i circassi musulmani e di lingua caucasica, mentre i sopravvissuti fuggirono attraverso il Mar Nero verso l’Impero ottomano. Lo sterminio di massa dei circassi fu il più grande genocidio coloniale mai perpetrato da una potenza coloniale europea. Solo quattro decenni dopo il Belgio superò questo “record” russo dimezzando la popolazione indigena del Congo.

I coloni ortodossi slavofoni che conquistarono la Circassia, compresi i loro discendenti, preferiscono non ricordare il genocidio circasso.

Le riluttanti decolonizzazioni della Russia

Sulla scia della semi-decolonizzazione del 1917 a seguito del crollo dell’Impero russo trasformato in Unione Sovietica, estoni, finlandesi, lettoni, lituani, moldavi (rumeni) e polacchi riuscirono a riconquistare la loro libertà. Ciò fu possibile grazie al fatto che avevano conservato la loro identità e la loro storia, impedendo la russificazione. La decolonizzazione dell’Unione Sovietica, avvenuta nel 1991, restituì alle nazioni baltiche di Estonia, Lettonia e Lituania la libertà e la propria entità statale. Lo stesso valse per i moldavi, che erano stati ricolonizzati dai sovietici durante la Seconda guerra mondiale. Inoltre, la scomparsa dell’Unione Sovietica concesse l’indipendenza ad armeni, azeri, bielorussi, georgiani, kazaki, kirghisi, tagiki, turkmeni, ucraini e uzbeki.

decolonizzazione in Russia
Kazan’, capitale della Repubblica del Tatarstan (Meridiano 13/Martina Napolitano)

Tuttavia, nel corso di questa inaspettata e indesiderata decolonizzazione post-sovietica, il Cremlino  tracciò una linea di demarcazione quando si trattò dei tatari (di Kazan’) e dei ceceni, anch’essi in lotta per l’indipendenza. Il secondo gruppo venne nuovamente sottomesso nelle due guerre genocide combattute tra il 1994 e il 2001, mentre il primo è stato gradualmente privato dei suoi poteri di autonomia: il Tatarstan è stato trasformato de facto in un’ordinaria provincia russa.

Tutto ciò è servito da lezione per tutti gli altri gruppi etnici non russi dell’odierna Federazione Russa: non osate chiedere la libertà o una qualche forma – per quanto graduale – di decolonizzazione.

Secondo la visione ufficiale di Mosca, la Russia è uno Stato unitario in quanto non è un impero coloniale; di conseguenza, non serve alcuna decolonizzazione. Qualsiasi tentativo, quindi, da parte di un gruppo etnico di separarsi dalla Russia viene considerato a priori illegale.

Per esempio, dal punto di vista storico, la situazione dei tuvani è più simile a quella delle nazioni baltiche che a quella della Cecenia. I sovietici conquistarono lo Stato nazionale indipendente di Tuva solo nel 1944, quando l’Occidente scelse di non farci caso, essendo impegnato a combattere la Seconda guerra mondiale. Come gli estoni o i lituani, i tuvani intendevano riconquistare la propria indipendenza (forti della loro soggettività statale nel periodo interbellico e bellico), ma il Cremlino si rifiutò di ascoltare e nessuno in Occidente accorse in aiuto dei tuvani. Dopotutto, nessuno si preoccupò nemmeno di aiutare i ceceni mentre l’esercito russo conduceva un genocidio di questa nazione con il fine di assicurarsi che la Cecenia non si separasse dalla Russia.

Impero über alles!

Perché Mosca è così riluttante nei confronti della decolonizzazione? Perché l’impero rimane una prospettiva così allettante per l’élite e la popolazione russa in generale? A livello strutturale, la metropoli imperiale russa tendeva a essere più povera di molte delle sue colonie, soprattutto quelle situate in Europa centrale, nel Caucaso e in Asia centrale. Perdere queste colonie per le élite imperiali significò impoverirsi. La decolonizzazione avrebbe comportato la perdita di ingenti entrate derivanti dalla tassazione e dallo sfruttamento delle risorse economiche. Inoltre, queste colonie assicuravano specialisti e tecnologie fondamentali, non disponibili nella metropoli imperiale.

Il dilemma era simile a quello del tardo Impero portoghese, entro il quale a metà Novecento l’Angola e il Mozambico erano più ricchi, tecnologicamente più avanzati e socialmente più liberali dello stesso Portogallo. Per questo, sotto la dittatura fascista di António de Oliveira Salazar, venne proclamato il progetto di uno Stato-nazione portoghese tricontinentale (europeo-africano-asiatico). L’obiettivo era quello di nascondere l’impero alla vista del mondo decolonizzato e di continuare a sfruttarlo per ottenere entrate. Tuttavia, la morte del dittatore e la decisione di democratizzare il Portogallo nel 1974 segnò la fine del progetto imperiale.

La relativa povertà e l’arretratezza della metropoli imperiale spiegano perché durante la Seconda guerra mondiale l’Unione Sovietica abbia cercato di accaparrarsi la Finlandia, sia riuscito a riconquistare le ex colonie zariste di Estonia, Lettonia, Lituania, Moldavia e Polonia e abbia felicemente aggiunto a esse le nuove colonie non dichiarate di Bulgaria, Cecoslovacchia, Germania Est, Ungheria e Romania, sotto la copertura di un ‘blocco sovietico’. La stessa dinamica spiega perché, nei tre decenni post-sovietici, la rinata Federazione Russa si sia accaparrata pezzi di territorio di Georgia, Moldavia e Ucraina, abbia de facto trasformato la Belarus’ in un’altra provincia russa e ora (dall’inizio del 2022) stia cercando di conquistare tutta l’Ucraina.

La “logica” economica degli imperi zarista, sovietico e  russo odierno si è basata su un’economia estrattiva, che ha derubato le colonie senza curarsi delle conseguenze negative subite dai “nativi”. La metropoli imperiale si è arricchita grazie alle ricchezze minerarie e agricole estratte dai vasti e scarsamente popolati territori dell’impero, all’utilizzo di specialisti e tecnologie estratti dalle colonie “ricche” (su modello occidentale). Nella configurazione attuale, dopo la (parziale) decolonizzazione dell’Unione Sovietica, alla metropoli russa manca questo tipo di colonia avanzata, più sviluppata e più densamente popolata della Russia vera e propria (la Moscovia). Ecco perché Mosca è così determinata a “vassallizzare” completamente e rapidamente la Belarus, a conquistare l’Ucraina e a minacciare di riconquistare le repubbliche baltiche di Estonia, Lettonia e Lituania, oltre all’intera Polonia.

La metropoli russa ha sviluppato una dipendenza da questo modello economico imperiale e di sfruttamento fin dal XVIII secolo. La democrazia necessita di una decolonizzazione, la quale costituisce un pericolo letale per l’impero. Per questo motivo, nonostante la loro propaganda progressista, all’inizio del 1918 i bolscevichi misero fine al breve esperimento democratico e sciolsero l’Assemblea costituzionale. In maniera simile, nella Russia post-sovietica un assalto di carri armati alla Duma di Stato (il parlamento) alla fine del 1993 segnò la fine di qualsiasi democrazia significativa nel paese. In entrambi i casi ha vinto l’impero: al posto di un’autentica rappresentanza della volontà popolare, è tornato lo zar, prima come segretario generale (del Partito Comunista dell’Unione Sovietica) e ora come presidente (della Federazione Russa). Recentemente alcuni membri dell’élite russa hanno persino avanzato seriamente la proposta di incoronare zar l’attuale presidente russo.

Se la vita umana è a buon mercato

Affinché la metropoli mantenga la sua posizione al centro indiscusso dell’impero, essa deve detenere il monopolio della violenza sull’intero territorio imperiale e sui suoi abitanti. L’esercito, le forze di sicurezza e tutti i servizi paramilitari, approvati dal presidente, sono lo Stato. Quando sono in funzione e pienamente operativi, la minaccia e l’uso effettivo della violenza mantengono le tre parti vitali dell’impero strettamente legate tra loro e in una sinergia altamente proficua. Naturalmente, s’intende “proficua” per lo zar e la sua élite imperiale di oligarchi e delle loro famiglie: meno di 4mila persone, pari ad appena lo 0,003% dei 145 milioni di abitanti della Russia. Questi dati si traducono in una piramide socioeconomica più sottile rispetto a quella della Russia zarista, dove la nobiltà contava  circa 1,2 milioni di persone, ovvero l’1% degli abitanti. La metropoli di Mosca costituisce il vertice di questo triangolo di potere del neo-impero russo. I due estremi inferiori di questo triangolo sono rappresentati, a ovest, dalle colonie sviluppate e popolose e, a est, dai territori di permafrost poveri e in gran parte disabitati  ricchi di favolose ricchezze minerarie.

Violenza, povertà e instabilità hanno impedito una crescita dinamica della popolazione in tutta la Russia post-sovietica generando, nel secolo scorso, una profonda crisi demografica nelle metropoli russe dell’Unione Sovietica. Un tipo di organizzazione imperiale come quello russo miete vittime. Il sistema sovietico dei campi di concentramento e di sterminio dei gulag illustra bene questa tendenza. Il lavoro forzato, imposto con la repressione e la coercizione, si traduceva nello sviluppo industriale richiesto e pianificato dallo “zar sovietico”, seduto sul trono del partito a Mosca. Il rapido completamento del canale del Mar Bianco o un qualsiasi altro pantagruelico progetto di costruzione determinava la perdita di centinaia di migliaia di vite; allo stesso tempo, un numero simile di cittadini sovietici veniva radunato e giustiziato sommariamente con un colpo alla nuca. Questo assicurava la stabilità del sistema di governo e la “fedeltà incrollabile” della popolazione nei confronti dello zar e dell’impero sovietico. Le persone ideologicamente “salvabili” furono imprigionate a milioni, in modo che questi “comunisti riluttanti” sapessero di dover fare del loro meglio per il sistema in cambio della mera sopravvivenza dopo la liberazione dai campi. La paura e l’anomia si coagularono nella spina dorsale d’acciaio dell’impero sovietico, portando a livelli di atomizzazione sociale senza precedenti.

Nell’impero russo non c’è posto o pazienza per gli individui, le loro opinioni, le loro esigenze personali o le loro peculiarità caratteriali. Gli organizzatori statali e gli statisti li etichettano come una “popolazione” malleabile o, detto in termini più disumani, come “biomassa umana”. Diventano un semplice “oggetto”, parte di un fertile concime politico ed economico su cui la ricchezza dell’élite imperiale cresce e prospera. L’Unione Sovietica ha vinto la Seconda guerra mondiale lanciando milioni di truppe impreparate contro le armate tedesche e giustiziando sommariamente coloro che osavano ritirarsi e cercare di sfuggire alla morte sicura per mano del nemico. Nella maggior parte dei casi non furono la tecnologia o le tattiche a consegnare ai sovietici le loro vittorie militari, ma l’impiego di una biomassa umana numericamente schiacciante, nota in Occidente anche come “carne da cannone”.

Attualmente, il Cremlino utilizza lo stesso “approccio” nella guerra in corso contro l’Ucraina. Ondate di biomassa umana apparentemente “inesauribile” vengono scagliate di volta in volta contro individui motivati e ben addestrati, ovvero gli ucraini che difendono la loro patria. I russi vedono i combattimenti in corso come un “tritacarne” (мясорубка, mjasorubka) dove vengono gettate le “reclute” (чмобики čmobiki, ovvero “le reclute arruolate attraverso la mobilitazione parziale”). Terrore e annientamento dei diritti umani e della democrazia. Paura e timore preferite allo Stato di diritto. Prosperità inimmaginabile per pochi, propaganda e bugie sul “patriottismo” per tutti gli altri. Questa è la realtà di un paese a tal punto legato all’idea di una biomassa che si autoriproduce.

Un impero così organizzato deve costantemente conquistare nuovi territori densamente popolati al fine di assicurarsi più persone. Saranno queste persone ad alimentare poi la macchina imperiale, così che non si blocchi. Non è un perpetuum mobile. Le vite umane sono l’unico carburante dell’impero russo.

Quale futuro?

L’impero russo garantisce un tenore di vita eccellente e consumi sfarzosi a una élite imperiale che non è mai stata così poco numerosa e che si gode questa vita esclusiva il più rapidamente possibile perché un nuovo zar al vertice potrebbe porre fine a tutto da un giorno all’altro. Non c’è tempo per fermarsi a riflettere o per cambiare marcia come fecero i loro omologhi nel 1974 nel Portogallo tricontinentale. Una vera democratizzazione farebbe crollare il triangolo di potere imperiale della Russia. Le colonie prenderebbero le loro strade indipendenti. Sulla scia della decolonizzazione, la metropoli non avrebbe altra scelta che diventare un “paese normale”, con ricchezza e opportunità distribuite in modo più equo e responsabile. Forse una Russia decolonizzata sarebbe più povera e meno affermata delle sue ex colonie occidentali. Perfino alcune delle colonie siberiane, se ben governate, potrebbero garantire ai loro abitanti una vita migliore di quella di Mosca o San Pietroburgo; in una Russia normalizzata e ridimensionata, la classe dirigente sarebbe costretta ad ascoltare i desideri dei cittadini.

Ma chi tra gli ambiziosi funzionari imperiali sarebbe disposto ad ascoltare la biomassa? “Lunga vita all’impero!” è la risposta avida della Russia odierna. La Russia dello zar e dei suoi oligarchi “must go on”.

*Tomasz Kamusella è professore (Professor Extraordinarius) in Storia moderna dell’Europa centrale e orientale presso l’Università di St Andrews in Scozia. Tra le sue recenti monografie ci sono Ethnic Cleansing during the Cold War (Routledge 2018), Politics and Slavic Languages (Routledge 2021) e Eurasian Empires as Blueprints for Ethiopia (Routledge 2021). Il suo lavoro Words in Space and Time: A Historical Atlas of Language Politics in Modern Central Europe è disponibile come pubblicazione ad accesso libero.

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