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Memoria e sensi di colpa dall’Ungheria. Intervista allo scrittore Tamás Gyurkovics

Ricordare è importante. Ce lo insegnano la Storia e la ricorrenza che si celebra ogni anno il 27 gennaio per commemorare non solo le vittime dell’Olocausto, ma anche la deportazione e la persecuzione di milioni di persone (non solo ebrei) vittime delle leggi razziali approvate dai regimi nazista e fascista.

La scelta di questa data da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite per celebrare il Giorno della Memoria non è, come sappiamo, affatto casuale: in quel giorno del 1945 le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento, di lavoro e di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Da quando è stato istituito, nel 2005, il Giorno della Memoria viene celebrato in Italia e in diversi paesi dell’Europa occidentale e orientale per far sì che eventi simili non si ripetano mai più – anche se, purtroppo, sembra che la Storia si ripeta e che la memoria svanisca più in fretta di quello che crediamo.

Alcuni paesi dedicano alla memoria e al ricordo diverse giornate al fine di sensibilizzare ed educare i cittadini sul tema: è il caso dell’Ungheria, di cui ci parla oggi lo scrittore Tamás Gyurkovics, autore del romanzo Emicrania. Storia di un senso di colpa (Bottega Errante, 2022).

Per scoprire Emicrania. Storia di un senso di colpa, leggi la nostra recensione

Questo è il tuo secondo romanzo che prende forma sullo sfondo della storia dell’Olocausto. Il primo, La valigia di Mengele (Mengele bőröndje) è uscito in Ungheria nel 2017 ed è stato finalista del premio Margin Book Award. Il secondo, Emicrania. Storia di un senso di colpa, è approdato in Italia grazie alla traduzione di Andrea Renyj per Bottega Errante nel 2022. Che tipo di riscontro hai avuto da parte dei tuoi lettori? Come è stato accolto dalla critica questo libro che non parla solo di Olocausto, ma anche di eroi, colpe, rimorsi ed espiazioni?

Il mio primo romanzo, La valigia di Mengele, è stato letto da un pubblico più vasto, mentre il secondo, Emicrania, ha avuto una risposta professionale più forte. E forse, conoscendo i protagonisti di entrambi i libri, non è un risultato così sorprendente. D’altronde, il narratore del romanzo di Mengele è l’Angelo della Morte che racconta in prima persona la vera storia dei suoi tre decenni di clandestinità in Sud America. Inoltre, si tratta di un romanzo speculare, nel senso che nella seconda parte gioco con la finzione di ciò che sarebbe potuto accadere se Mengele fosse stato catturato dagli agenti dei servizi segreti israeliani in Argentina e processato a Gerusalemme. Insomma, ho narrato le due morti di Josef Mengele: quella reale e quella fittizia. Tutto ciò ovviamente si è meritato l’attenzione di un numero maggiore di lettori rispetto alla storia di Ernő Spiegel, precedentemente sconosciuto in Ungheria e che divenne il personaggio principale di Emicrania.

Sono orgoglioso di sapere che entrambi i libri siano piaciuti molto ai lettori: c’è una piattaforma di social media in lingua ungherese per persone appassionate di letteratura (simile al social network internazionale Goodreads) che ha scoperto entrambi i libri e il pubblico dei due romanzi è cresciuto costantemente da quando sono stati pubblicati. La terza edizione del romanzo di Mengele e la seconda di Emicrania sono andate esaurite nel periodo di Natale. Ma forse per me quello che conta più dei numeri è il fatto che entrambi i libri siano stati accolti non solo come letteratura sull’Olocausto, ma come romanzi psicologici. La maggior parte delle persone ha notato ciò che volevo effettivamente mostrare, ovvero che il romanzo di Mengele è la storia di un uomo colpevole che ha vissuto senza sensi di colpa, mentre Emicrania è il romanzo di un uomo innocente ma che ha sofferto di sensi di colpa. Ed era questa la contraddizione che mi affascinava di più.

In Emicrania. Storia di un senso di colpa racconti la storia vera di Zvi Spiegel, ebreo deportato ad Auschwitz e diventato kapò del reparto “gemelli” sotto la guida del dottor Josef Mengele. Si tratta di un romanzo che ci invita a (ri)leggere la storia dell’Olocausto partendo dall’esperienza psicologica del protagonista, che non riesce a liberarsi del suo passato. Cosa ti ha spinto a studiare in profondità questo capitolo buio della Storia europea con gli occhi di Ernő/Zvi Spielmann, ebreo di origini ungheresi che cerca di rifarsi una vita in Israele?

Probabilmente la maggior parte dei lettori italiani non sa che una vittima dell’Olocausto su dieci era ungherese. Almeno 600 mila miei connazionali furono vittime di omicidi e persecuzioni. Per me, quindi, la Shoah, l’Olocausto, non è una “storia ebraica”, ma una tragedia nazionale. Tanto più che non solo le vittime, ma anche gran parte degli esecutori e dei complici erano ungheresi. Basti pensare allo stato ungherese di quell’epoca, che prima passivamente e poi attivamente si schierò portando con sé idee disumane, non cristiane, non europee e non patriottiche. Questa è una parte della mia risposta – una più generale, se vogliamo – e l’altra è una coincidenza… Perché quando stavo lavorando alla seconda parte, quella di fantasia, del romanzo su Mengele di cui sopra, ho raccolto le storie di vittime e testimoni reali per la scena del processo di Gerusalemme. È stato allora che mi sono imbattuto nella storia di Ernő Spiegel. La storia del “padre dei gemelli” (Zwillingsvater), che fu costretto a diventare il kapò di Mengele e che poi, dopo la liberazione del campo, accompagnò quasi quaranta ragazzi gemelli a casa, in Ungheria, in circostanze avventurose.

Nel romanzo di Mengele Ernő Spiegel viene menzionato brevemente, tanto che solo dopo aver terminato il romanzo mi sono imbattuto nelle fonti e nei testimoni oculari che mi hanno permesso di saperne di più sulla sua vita, soprattutto sulla sua “seconda vita”, quella che alla fine ha ricominciato da zero in Israele. Era anche questo il mio obiettivo con Emicrania: mostrare come il destino dei sopravvissuti variasse a seconda del luogo in cui iniziavano la loro nuova vita, in America, in Israele o nell’Europa centrale e orientale comunista, nello specifico in Ungheria. Tutte e tre le “alternative” compaiono nel romanzo, anche se non nella stessa misura.

Emicrania parla, come si evince dal sottotitolo, di sensi di colpa. In particolare, il senso di colpa che affligge il protagonista sopravvissuto (che soffre di emicrania) diventa il filo rosso del romanzo. L’uomo si confronta continuamente con l’idea che ogni sopravvissuto sia in qualche modo un colpevole perché, come scrivi, “non si può essere innocenti di fronte a un crimine. Il testimone è già un traditore, prima tradisce la vittima quando assiste al compimento del crimine a suo danno, poi tradisce l’imputato quando con la sua testimonianza tenta di ascrivere il crimine a suo carico esclusivo; dunque il testimone è doppiamente colpevole, prima dell’inattività, poi dell’attività ritardata”. Il messaggio che dai è più che mai attuale per l’epoca che stiamo attraversando: quanto è importante rivangare il passato per fare giustizia e prendere le distanze dalla Storia?

Gli psicologi conoscono bene la cosiddetta sindrome del “senso di colpa del sopravvissuto”, di cui la maggior parte dei sopravvissuti alla Shoah ha sofferto per tutta la vita. Perché loro sono sopravvissuti e gli altri no? Non è peccato vivere dopo tutto quello di cui si è stati testimoni? Si ha diritto alla gioia, a un futuro, alla vita? Questi e altri interrogativi li affliggevano e alcuni di questi dilemmi e ansie sono stati ereditati dalla seconda e dalla terza generazione e hanno quindi un impatto sul presente. Hai ragione quando dici che le divisioni in Europa oggi sono legate anche al nostro atteggiamento nei confronti della questione della complicità: noi, i sopravvissuti, dovremmo sentirci personalmente responsabili della morte degli ucraini mentre, per esempio, usiamo il gas naturale russo per tenere le nostre case al caldo? Ho la tendenza a essere pessimista, ma penso che si stia facendo un passo avanti per come la questione della coscienza viene adesso sollevata in modo così netto in Europa.

Lo sterminio degli ebrei è un capitolo della Storia europea che molti paesi vogliono dimenticare, ma che bisogna ricordare al fine di evitare di ripetere certi errori. Come vengono studiati la Seconda guerra mondiale e, in particolare, l’Olocausto in Ungheria?

È una questione complessa perché vedo due processi opposti che potrebbero non essere indipendenti l’uno dall’altro: in un certo senso, l’una è la risposta dell’altra. Purtroppo, l’atteggiamento principale dello Stato, della politica ufficiale sulla memoria, è ancora una volta la memoria selettiva o, se vogliamo, l’oblio. Dico “ancora una volta” perché non è la prima volta che questo accade nella storia ungherese dopo la Seconda guerra mondiale.

Nel frattempo, nella stampa libera o nella letteratura o nell’arte più in generale, stiamo assistendo a una grande ondata di confronto con il passato, incentrata non solo sul ruolo della responsabilità nazionale nell’Olocausto, ma anche sul periodo precedente e successivo alla guerra.

Il film ungherese vincitore del premio Oscar “Il figlio di Saul”, le opere di diversi scrittori contemporanei, tra cui la raccolta di racconti 1945 e altre storie di Gábor T. Szántó (tradotta recentemente anche in italiano – da Richárd Janczer e Mónika Szilágyi per Anfora Edizioni, ndr) e – non per peccare di immodestia – i miei due libri: sono tutti parte di questo confronto con la responsabilità, sia individuale che nazionale.

Purtroppo, la politica nazionale della memoria si basa nuovamente sull’oblio, come avveniva sotto il regime di Kádár. All’epoca, l’accordo era che gli ungheresi avrebbero dimenticato reciprocamente tutto – deportazioni e appartenenza al partito delle Croci Frecciate (le Croci Frecciate erano il partito filonazista ungherese), i due lati della barricata del 1956 – in cambio sarebbero stati felici e avrebbero vissuto in relativa prosperità all’interno del mondo comunista. Ora, l’accordo è di dimenticare, in cambio dell’idea di orgoglio e grandezza nazionale, la responsabilità nazionale che noi stessi abbiamo avuto nelle persecuzioni degli ebrei e nell’Olocausto (o anche nel trattato di pace di Trianon, se è per questo), dando la colpa a qualcun altro. Intendo dire esclusivamente a qualcun altro, ma non a noi stessi. Questo espediente politico della memoria ha ora una sua statua a Budapest: il cosiddetto Memoriale dell’occupazione tedesca, che racconta la storia dell’Olocausto ungherese come se fosse iniziata e finita con i nazisti tedeschi… È un monumento esteticamente brutto e storicamente disonesto. Allo stesso tempo, però, nell’arte contemporanea un numero crescente di opere completa e sovrascrive il falso messaggio che trasmette.

Il 27 gennaio di ogni anno si celebra il Giorno della Memoria, una ricorrenza internazionale volta a commemorare le vittime dell’Olocausto. Come viene vista e vissuta questa giornata in Ungheria? Qual è il ruolo della comunità ebraica nel tuo paese oggi?

In Ungheria ci sono diverse giornate dedicate alla memoria dell’Olocausto: il Giorno internazionale della Memoria è ovviamente il 27 gennaio, anniversario della liberazione del campo di Auschwitz-Birkenau. Abbiamo anche una giornata di lutto nazionale: il Giorno della Memoria delle Vittime dell’Olocausto in Ungheria, che ricorre il 16 aprile, data in cui vennero creati i ghetti in Ungheria nel 1944. In questo giorno si tiene la Marcia della Vita, alla quale ogni anno partecipano sempre più persone a Budapest. C’è anche il Porrajmos, o Giorno della Memoria dei Rom e dei Sinti. Ricorre il 2 agosto perché in quel giorno del 1944 iniziò la distruzione del campo rom di Birkenau – ne parlo diffusamente nei miei libri. Finora si è prestata meno attenzione alla memoria delle vittime rom, ma vedo che la situazione sta cambiando, grazie al lavoro di Ong, storici e attivisti per i diritti umani. Il numero esatto e la storia delle vittime rom ungheresi sono ancora in gran parte sconosciuti; abbiamo ancora molto lavoro da fare in questo ambito e dobbiamo fare i conti con il nostro passato. Ciò che è incoraggiante è che, oltre alle commemorazioni principali, le Ong, le autorità locali e le scuole stanno organizzando programmi sempre più significativi ed educativi, più espressivi, se posso dire “più attraenti”. Molti eventi letterari vengono organizzati in concomitanza con queste giornate e vengono diffuse delle pubblicazioni a tema. In queste giornate speciali, chiunque non voglia deliberatamente chiudere le orecchie, gli occhi o la mente può imparare molto su questo capitolo della storia nazionale, e quindi anche su se stesso.

Sull’identità culturale e le minoranze, consigliamo la lettura di Mosaico Ucraina. Viaggio tra le molteplici identità di un popolo (Bottega Errante, 2022), che contiene un capitolo dedicato agli ungheresi di Ucraina, nonché l’ascolto della nostra intervista all’autrice Olesja Jaremčuk.
L’apertura del campo di concentramento di Auschwitz il 27 gennaio 1945 segna l’inizio di una nuova epoca storica, dove ci si ripropone di non commettere mai più crimini di questo genere. Eppure, la storia sembra ripetersi e proprio sul suolo europeo. Parlando di minoranze nazionali (etniche, culturali, religiose) – che in Ungheria sono molte – ritieni che ci sia un deterioramento in termini di rispetto di diritti umani e tolleranza nei loro confronti?

Ogni epoca è caratterizzata dalla tentazione della maggioranza di non trovare una soluzione ai problemi, ma di cercare capri espiatori da incolpare. C’è sempre uno “straniero a portata di mano”: per secoli in Europa e in Ungheria sono stati gli ebrei. Nell’Ungheria di oggi sono gli zingari a essere colpiti dall’esclusione quotidiana da parte della maggioranza della società. Gli zingari sono gli ebrei di oggi, come direbbe la stampa. Il che significa che, da un lato, l’ebraismo ungherese non deve temere gli attacchi del “nuovo antisemitismo” che molti ebrei nei paesi dell’Europa occidentale sono costretti a subire di tanto in tanto; dall’altro significa anche che il declino dell’antisemitismo in Ungheria non è dovuto solo alla progressione, ma anche al fatto che la comunità ebraica ungherese, un tempo significativa, è diventata molto meno visibile. Eppure, la terza generazione sembra riuscire a realizzare una sorta di rinascimento ebraico ungherese: sempre più giovani ebrei stanno facendo propria e vivendo con più consapevolezza ed entusiasmo la loro identità culturale, se non addirittura quella religiosa.

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Claudia Bettiol
Claudia Bettiol

Traduttrice e redattrice, la sua passione per l’est è nata ad Astrachan’, alle foci del Volga, grazie all’anno di scambio con Intercultura. Gli studi di slavistica all’Università di Udine e di Tartu l’hanno poi spinta ad approfondire le realtà oltrecortina, in particolare quella russa e quella ucraina. Vive a Kyiv dal 2017, collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso, MicroMega e Valigia Blu. Nel 2022 ha tradotto dall’ucraino il reportage “Mosaico Ucraino” di Olesja Jaremčuk, edito da Bottega Errante.