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Lana Bastašić: “La Bosnia è un luogo silenzioso, intriso di sangue. Mai avrei pensato di sentire lo stesso silenzio in Germania”

Il 15 gennaio scorso, la scrittrice bosniaca Lana Bastašić ha comunicato con un post sul proprio profilo Instagram la sua decisione di rescindere il contratto con il suo editore tedesco, S. Fischer Verlag. Nata nel 1986 a Zagabria in una famiglia serba, cresciuta tra Slovenia e Bosnia ed Erzegovina, nel 2020 ha vinto il Premio letterario dell’Unione europea con il suo romanzo Afferra il coniglio (Uhvati zeca, trad. it. Elisa Copetti, Nutrimenti). Nel 2022 è apparsa anche la sua raccolta di racconti Denti da latte (Mliječni zubi, trad. it. Elisa Copetti, Nutrimenti).

Memore della propria infanzia e adolescenza sullo sfondo dei conflitti etnici in ex Jugoslavia, dallo scoppio del conflitto tra Israele e Palestina lo scorso 7 ottobre si è sempre apertamente schierata a favore di un cessate il fuoco, condannando gli attacchi sia di Hamas che di Israele, e partecipando attivamente alle manifestazioni pro-Palestina. Tutto ciò a scapito della propria carriera in Germania, dove risiede da un paio d’anni grazie a una borsa di studio: l’integrità morale è il valore più importante da difendere.

Bastašić ha definito la rescissione dalla grande casa editrice tedesca come un “dovere morale ed etico” contro la “censura sistematica” messa in atto dalla Germania nei confronti degli attacchi di Israele a Gaza. “Onestamente, non posso continuare a essere pubblicata da una casa editrice che sta così spudoratamente deludendo gli ebrei di Germania mentre afferma di lottare contro l’antisemitismo […] È politicamente irresponsabile perché getta soltanto benzina sul fuoco equiparando ogni singolo ebreo all’attuale governo di Israele, rendendo così il mondo molto più pericoloso per le persone che affermano di proteggere”.

Lana Bastašić
La scrittrice Lana Bastašić (Wikimedia Commons)
Con il consenso dell’autrice, pubblichiamo la traduzione dell’articolo apparso originariamente su The Guardian il 23 ottobre 2023

Sono cresciuta in Bosnia, tra paura e odio per i musulmani. Ora vedo gli errori della Germania su Gaza

Da bambina, ho visto ciò che viene dopo la pulizia etnica. Ecco perché alzo la voce sul silenzio della mia nuova casa riguardo le morti palestinesi.

Quando mi sono trasferita a Berlino, ho sviluppato l’abitudine di fermarmi alle pietre d’inciampo e leggere degli ebrei che furono prelevati dalle loro case e trasportati nei campi di concentramento. Lungo la strada che percorro verso la metropolitana c’è un edificio dal quale vennero prelevate 16 persone. Ma è stata la pietra di Lucie a raggelarmi fino al midollo. La sua è l’unica pietra commemorativa davanti a un grande edificio. Una piccola pietra d’inciampo. Tutto ciò che si sa di Lucie è che è stata portata via all’età di 61 anni. Mi ha fatto pensare a tutte le altre persone che vivevano nell’edificio e che potrebbero aver visto accadere tutto quanto. Cosa stavano facendo? Hanno semplicemente guardato dall’altra parte?

La mia famiglia proviene dalla Croazia e, in quanto non croati, abbiamo lasciato il paese durante la frenesia nazionalista dei primi anni Novanta, che la defunta Dubravka Ugrešić ha descritto nelle sue opere come la lotta per una «pura aria croata». Dopo essere stati perseguitati in Croazia fin dai primi anni Quaranta – mio nonno riuscì a lasciare vivo il campo di concentramento di Jasenovac all’età di undici anni – ci siamo ritrovati nel nord della Bosnia ed Erzegovina. Lì la vittima era diversa. I nostri vicini bosniaci, la cui unica differenza rispetto a noi erano i loro nomi musulmani, venivano allora diffamati pubblicamente da quasi tutti i media serbi. Persone che vivevano accanto a noi, mandavano i loro figli nelle stesse scuole, parlavano la stessa lingua, venivano così ritratte come non umane, come jihadisti che ci avrebbero ucciso nel sonno, come animali che ci avrebbero strappato i denti e che avrebbero violentato le nostre donne. Di tutte queste storie sentivo parlare all’età di sei anni. Conoscevo la parola mujahedin prima ancora di aver imparato l’alfabeto.

La moschea del XVI secolo di Banja Luka è stata rasa al suolo. Alcuni dei miei compagni di scuola erano spariti da un giorno all’altro e non si diceva niente di loro l’indomani in classe. Alcuni avevano cambiato i loro nomi in varianti cristianizzate, ma erano comunque quotidianamente vittime di bullismo. Una volta raggiunti gli otto anni, ho imparato a distinguere noi e loro. Un’insegnante non era più un’insegnante, era una serba. Un compagno di classe non era più un compagno di classe. Era un musulmano. Un medico non era più un medico. Oramai era un croato.

Perché scrivere della Bosnia 28 anni dopo gli accordi di pace di Dayton? La verità è che non esiste alcun tipo di pace dopo una pulizia etnica. La Bosnia è ancora profondamente divisa. Le persone non riescono ad accordarsi su come chiamare la lingua che parlano. I criminali di guerra vengono venerati da ogni lato. La fuga di cervelli dalla Bosnia aumenta ogni anno. I bambini traumatizzati sono diventati adulti traumatizzati, incapaci di trovare un lavoro o di accedere a un’assistenza sanitaria dignitosa.

Ho scritto un romanzo ispirato ai miei ricordi a Banja Luka che è stato tradotto in varie lingue, tra cui il tedesco, il che mi ha portato a ricevere una borsa di studio culturale tedesca. La mia vita negli ultimi due anni è trascorsa viaggiando per la Germania a parlare del mio libro e della paralisi che la Bosnia sta ancora affrontando. Ovunque ho incontrato ascoltatori comprensivi, persone desiderose di leggere le storie, di spargere la voce, di aiutare. Io ero la ragazza bosniaca designata. Bianchi europei se ne stavano comodamente seduti agli eventi letterari e scuotevano increduli la testa mentre raccontavo loro della pulizia etnica. Mai più, dicevano, ogni volta che qualche anniversario bosniaco o altro appariva nei loro feed.

Però mai più è una frase debole. Il mondo dimentica, proprio come ha dimenticato la Bosnia. I mai sono stati consumati e abbandonati; i più continuano a tornare in numeri più grandi e storie più oscure.

La Striscia di Gaza, già impoverita dall’occupazione e da un blocco illegale di sedici anni, la cui popolazione è composta per il 47% da bambini, viene bombardata a tappeto dall’esercito più potente del Medio Oriente con l’aiuto dei più potenti alleati del mondo. Più di 4.600 palestinesi giacciono morti [ora la cifra ha superato i 25.000; NdT] e molti altri rischiano la morte in assenza di un cessate il fuoco, perché non possono sfuggire ai bombardamenti o non hanno accesso ad acqua, cibo o elettricità. L’esercito israeliano afferma che la sua offensiva, ora intensificata, è una “guerra al terrore”; gli esperti delle Nazioni Unite affermano che equivale a una punizione collettiva.

Questi sono tutti fatti. Eppure anche menzionare la parola “Palestina” in Germania rischia di farti accusare di antisemitismo. Qualsiasi tentativo di fornire un contesto e condividere fatti sul contesto storico del conflitto è visto come una rozza giustificazione del terrore di Hamas.

Non solo le manifestazioni pro-Palestina sono state fermate o interrotte dalla polizia, ma la senatrice dell’istruzione di Berlino Katharina Günther-Wünsch ha anche inviato una mail alle scuole dicendo che “qualsiasi comportamento dimostrativo o espressione di opinione che possa essere inteso (il corsivo è mio) come approvazione degli attacchi contro Israele o sostegno alle organizzazioni terroristiche che li effettuano, ad esempio Hamas o Hezbollah, rappresenta una minaccia alla pace scolastica nella situazione attuale ed è proibito”. Oltre a vietare i simboli legati ad Hamas, le scuole sono ora libere di vietare anche “simboli, gesti ed espressioni di opinione che non oltrepassano il limite della responsabilità penale”, includendo la kefiah, la bandiera palestinese e adesivi e distintivi con la scritta “Palestina libera”.

Il soffocamento dell’opposizione all’uccisione di civili a Gaza si estende anche al popolo ebraico. Una donna ebrea israeliana che teneva un cartello in una piazza di Berlino chiedendo la fine delle violenze è stata avvicinata dalla polizia tedesca in pochi secondi e portata via in un furgone della polizia. In seguito è stata rilasciata. Chiunque mostri solidarietà con i palestinesi è automaticamente sospettato di essere un tacito simpatizzante di Hamas.

La cerimonia di premiazione per Un dettaglio minore della scrittrice palestinese Adania Shibli è stata annullata dalla fiera del libro di Francoforte. Il teatro Gorki di Berlino ha annullato una rappresentazione dell’opera teatrale The Situation dell’austriaco-israeliana Yael Ronen, prevista per il 23 ottobre. E l’editore di un’antologia che include opere di 34 poeti arabi in esilio ha detto che l’evento era stato annullato dalla Haus für Poesie, la Casa per la poesia di Berlino.

Persone benintenzionate mi hanno suggerito che esprimere questa opinione potrebbe portarmi a non essere invitata a eventi e festival letterari e che la mia carriera in Germania – fonte del mio sostentamento negli ultimi due anni – potrebbe finire.

Eppure, mentre artisti e scrittori vengono cancellati per il loro presunto antisemitismo, il vero neonazismo è in aumento, con il partito di estrema destra AfD, Alternativa per la Germania, che vince le elezioni locali e i politici mainstream che paventano l’idea di fare accordi con loro. La stessa fiera del libro che ha cancellato la cerimonia di premiazione di Shibli ha subito critiche in precedenza per aver incluso una casa editrice di estrema destra, Antaios, nel suo programma, con la partecipazione di membri dell’AfD.

L’incrollabile sostegno ufficiale della Germania alle azioni del governo israeliano lascia poco spazio all’umanità. È anche controproducente, serve a diffondere paura, islamofobia e, sì, antisemitismo. Essendo cresciuti all’ombra della colpa collettiva per i crimini di guerra nazisti, molti intellettuali tedeschi sembrano quasi accogliere con favore l’opportunità di espiare peccati ancestrali. L’espiazione, ovviamente, ricadrà sulle spalle dei bambini palestinesi.

Dovrebbe rientrare nella categoria “affermare l’ovvio”, ma va sottolineato ancora: storicamente, l’islamofobia ha portato solo a maggior terrorismo. Essendo cresciuta in Bosnia, posso dire con assoluta certezza che il circolo vizioso è senza fine. C’è sempre un altro cadavere da utilizzare come arma.

L’ipocrisia del white savior a cui stiamo assistendo oggi in Germania, alla lunga, andrà a beneficio dei soli tedeschi bianchi. O sei contro il fascismo in tutte le sue forme, o sei un ipocrita. Se condanni un’organizzazione terroristica, devi anche condannare il terrorismo commesso da un governo.

Sono sconvolta dalle azioni di Hamas e i miei pensieri sono per le loro vittime, ma non ho voce in capitolo su ciò che fanno. Nessuna delle mie tasse va a finanziamento di Hamas. Alcune delle mie tasse, tuttavia, sì che finanziano il bombardamento di Gaza. Nel periodo tra il 2018 e il 2022, Israele ha importato armi per un valore di 2,7 miliardi di dollari dagli Stati Uniti e dalla Germania.

Vivendo in Germania, considero mia responsabilità umana alzare la voce sulla sua parzialità, sulla sua ipocrisia e sulla sua accettazione circa la pulizia etnica di Gaza. Passando accanto alla pietra di Lucie ogni giorno, mi viene ricordata questa responsabilità. Mi viene ricordato cosa può fare il silenzio e per quanto tempo può infestare un luogo e un popolo. Io vengo da un luogo silenzioso intriso di sangue. Non avrei mai pensato di sentire lo stesso silenzio in Germania.


Traduzione dall’inglese di Giorgia Spadoni. Si ringrazia Elisa Copetti per l’aiuto alla pubblicazione della traduzione.

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Redazione
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