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Memoria corta. I bombardamenti della Nato sulla Jugoslavia

Se siete stati a Belgrado, vi sarà sicuramente capitato di vedere tra via Kneza Miloša e Nemanija, due delle arterie principali del centro in cui hanno sede numerose ambasciate ed edifici istituzionali, un palazzo sventrato, come se fosse stato appena bombardato. Quel palazzo è il Generalštab e fino al 1999 era sede del ministero della Difesa jugoslavo e quartier generale dell’esercito. Oggi, di quell’edificio rimane poco più che lo scheletro da una parte ed enormi cartelloni che invitano ad arruolarsi nell’esercito serbo o che pubblicizzano aziende produttrici di armi, dall’altro.

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Ma cosa ci fa un palazzo bombardato nel centro di una capitale europea? Il Generalštab è uno dei tanti edifici distrutti dai bombardamenti della Nato su ciò che rimaneva della Jugoslavia, iniziati il 24 marzo del 1999 e conclusi il 10 giugno dello stesso anno. L’Operazione Allied Force, guidata dall’Alleanza Atlantica, rappresentò uno degli ultimi atti del decennio di guerre e distruzione che aveva caratterizzato lo spazio jugoslavo.

Ciò che rimane del Generalštab a Belgrado (Fotostrasse)

L’antefatto: la guerra in Kosovo

Se per qualcuno la caduta del muro di Berlino rappresentava la “fine della Storia”, per milioni di persone dell’allora Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia i primi anni Novanta hanno invece rappresentato il “ritorno della Storia”. Quella più critica e violenta, fatta di guerre fratricide e scontri etnici, distruzioni e massacri indiscriminati. Tra il 1990 e il 1995, infatti, l’Europa ha vissuto il primo conflitto armato dalla fine della Seconda guerra mondiale sul proprio territorio. Le cosiddette “guerre jugoslave” videro contrapposte soprattutto Serbia e Croazia, con la Bosnia ed Erzegovina come terreno di scontro privilegiato.

Anche se non direttamente coinvolto dal conflitto, anche il Kosovo, allora provincia serba, ha vissuto in quegli anni una fase fondamentale della sua storia recente. Dopo l’abolizione dell’autonomia del Kosovo nel 1989, il governo serbo guidato da Slobodan Milošević diede avvio a un ampio processo di “serbizzazione” che riguardò la toponomastica, con il cambio del nome delle vie di Pristina prima intitolati a eroi albanesi, e la pubblica amministrazione, con il licenziamento di oltre 150mila kosovari albanesi tra il 1990 e il 1995. In risposta all’azione unilaterale di Belgrado, i deputati albanesi del parlamento del Kosovo convocarono un referendum che portò, il 19 ottobre 1991, alla prima dichiarazione di indipendenza priva però di qualsiasi effetto pratico. L’Europa stessa non sostenne tali rivendicazioni.

Gli eventi bellici nel resto della Jugoslavia avevano fatto calare un velo di silenzio sulle vicende kosovare, almeno fino al 1996. In quell’anno cominciò ad organizzarsi un gruppo armato riunito nell’Esercito di Liberazione del Kosovo, noto come UCK (Ushtria Clirimtare e Kosoves), che iniziò a operare attraverso attentati nei confronti della popolazione e della polizia serba. Alla fine del 1998 l’UCK poteva contare su oltre 40mila uomini e il controllo di circa il 40% di tutto il territorio kosovaro. Nello stesso anno, l’Onu inseriva l’UCK nella lista delle organizzazioni terroristiche. L’esercito federale rispose in maniera durissima, non solo nei confronti dei guerriglieri kosovaro-albanesi ma anche dei civili costretti a migliaia a spostarsi nelle vicine Albania e Macedonia del Nord.

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I negoziati di Rambouillet

All’inizio del 1999, gli scontri tra esercito serbo e UCK si fecero sempre più aspri, come dimostrato dal massacro di Račak (45 morti) condotto dall’esercito federale verso contadini kosovari albanesi. L’ennesima strage di civili spinse la Nato, e soprattutto l’allora segretario di stato Usa Madeleine Albright e il premier inglese Tony Blair, a minacciare un intervento armato per porre fine al conflitto.

Davanti a queste minacce, Milošević decise di partecipare ai negoziati di pace convocati a Rambouillet (Francia) nel gennaio 1999. Pochi giorni prima, il leader serbo rilasciò un’intervista al Washington Post in cui accusava i politici albanesi di essere nazisti “con l’obiettivo dichiarato di creare uno Stato etnicamente puro”.

A Rambouillet furono invitati per il Kosovo sia il premier Ibrahim Rugova che Hashim Thaci allora leader dell’UCK. Il coinvolgimento dell’UCK al tavolo delle trattative rappresentava il definitivo riconoscimento del gruppo armato non più come un’organizzazione terroristica ma come una delle parti in causa.

I leader kosovari al tavolo di Rambouillet. Da sinistra a destra: Veton Surroi, politico e giornalista, Ibrahim Rugova, primo presidente del Kosovo dal 1992 al 2006, Hashim Thaci, comandante dell’UCK e presidente del Kosovo dal 2016 al 2020 (Prishtina Insight)

Questa scelta fu uno dei motivi del mancato sostegno di Belgrado agli accordi di pace. Il piano proposto prevedeva inoltre la presenza di una missione militare guidata dalla Nato, la KFOR, per il mantenimento della pace, la possibilità per i militari dell’Alleanza di muoversi liberamente in tutto il territorio della Federazione jugoslava, la loro immunità e il ritiro dell’esercito federale dal Kosovo. Per Belgrado si trattava di proposte irricevibili: non avrebbe mai potuto accettare la presenza di truppe Nato sul proprio territorio. Anche Henry Kissinger, ex segretario di Stato Usa e noto diplomatico, riconobbe che la proposta rappresentava una vera e propria “provocazione, una scusa per dare inizio ai bombardamenti”.

I bombardamenti della Nato

Il rifiuto serbo alle richieste della comunità internazionale aprì la strada a un intervento diretto dell’Alleanza Atlantica. Il 24 marzo 1999, il segretario generale della Nato, il socialista spagnolo Javier Solana, diede il via libera all’operazione Allied Force. I bombardamenti, che coinvolsero la Serbia ma anche alcune aree del Kosovo, andarono avanti per ben 78 giorni, provocando centinaia di vittime anche tra i civili (500 secondo Humans Rights Watch, 2.500 secondo Boris Tadić, presidente serbo dal 2004 al 2012). Le bombe della Nato, giustificate come “intervento umanitario”, danneggiarono oltre 300 scuole e ospedali, distrussero più di 60 ponti e misero in ginocchio il sistema infrastrutturale e industriale della Serbia causando danni per oltre 30 miliardi di euro.

I bersagli principali delle operazioni furono infatti le industrie chimiche, come quelle di Pančevo alle porte di Belgrado, quella automobilistica come la Zastava, le centrali elettriche, le arterie di collegamento come le strade e i ponti. Non mancarono le stragi di civili, considerati freddamente “danni collaterali”. Il 12 aprile 1999 una bomba Nato provocò 55 vittime civili. Due giorni dopo, un’altra “bomba intelligente”, cadde per sbaglio sui civili kosovari: 75 morti. Danni collaterali si verificarono molte altre volte: il 1 maggio, un ordigno colpì un bus di civili causando 47 morti; il 13 maggio le vittime di un bombardamento nel piccolo comune di Korisa (Kosovo) furono circa sessanta; un centinaio invece i detenuti che persero la vita all’interno di un carcere di Pristina il 21 maggio.

Strage di civili colpiti da un bombardamento della Nato a Grdelica (Balkan Insight)

Alcuni “errori” rischiarono di provocare una crisi diplomatica internazionale. L’8 maggio infatti, una bomba cadde sull’ambasciata cinese a Belgrado (3 morti). A essere colpito fu anche il palazzo che ospitava la RTS, la televisione serba. Un attacco militarmente inutile ma dal forte valore simbolico volto a dimostrare come le guerre contemporanee si combattono anche sugli schermi televisivi. L’obiettivo della missione era quello di paralizzare il paese e spingere il popolo serbo a ribellarsi contro Milošević con cui era ormai impossibile una pacifica risoluzione del conflitto. Il sistema di difesa serbo non era certo in grado di reggere l’offensiva ma l’abbattimento di un aereo Nato, i cui resti sono ancora oggi conservati nel Museo di storia militare di Belgrado, fu usato come strumento propagandistico dal regime per sottolineare l’eroismo e la strenua resistenza del popolo serbo.

Messo alle strette dalle bombe occidentali e dall’opposizione interna, Milošević accettò di firmare un accordo con la Nato, noto come Accordo di Kumanovo, che prevedeva il ritiro delle truppe serbe dal Kosovo. I bombardamenti si conclusero il 10 giugno 1999, giorno in cui il Consiglio di Sicurezza dell’Onu emanò la Risoluzione 1244 con la quale venivano istituite due missioni: una di natura militare, la KFOR, l’altra civile, l’UNMIK. Quest’ultima riconosceva all’Unione Europea la gestione della ricostruzione del Kosovo. In questo modo l’Ue assumeva un ruolo da protagonista nelle scelte politiche, economiche e finanziarie del paese, aumentando considerevolmente il proprio peso nella gestione del periodo post crisi. La decisione di imporre il marco tedesco, e non il dollaro, come moneta ufficiale rappresenta forse l’esempio più lampante di questo nuovo ruolo europeo.

Dubbi di legittimità

L’intervento della Nato in Serbia ha sin da subito sollevato un acceso dibattito su questioni di diritto internazionale, a partire dalla violazione del divieto dell’uso della forza. Allied Force è stata la seconda azione militare nella storia della Nato dopo l’operazione Deliberate Force del 1995 in Bosnia ed Erzegovina, ma la prima in cui è intervenuta senza l’approvazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. L’attacco non era neppure giustificato dal famoso articolo 5 dello statuto Nato, che prevede la difesa immediata di uno stato membro dell’organizzazione in caso di attacco. Il Kosovo, infatti, non era (e non è tuttora) un membro dell’Alleanza Atlantica.

La giustificazione fornita, utilizzata poi anche per altre guerre successive a firma euro-atlantica, era di natura “umanitaria”: fermare il massacro dei kosovari da parte dell’esercito serbo, anche a costo di utilizzare la forza. Tra i sostenitori di una politica militare interventista vanno ricordati soprattutto il presidente statunitense Bill Clinton, il primo ministro britannico Tony Blair, quello italiano Massimo D’Alema, che concesse le basi militari da cui partivano i jet della Nato, e il segretario generale dell’Alleanza Javier Solana. Tutti esponenti di partiti socialdemocratici secondo cui l’intervento militare rappresentava l’unico strumento di pressione efficace per la risoluzione di un problema politico. Un’ammissione indiretta di incapacità nel trovare alternative valide all’uso delle bombe e a una diplomazia capace di prevenire e risolvere i conflitti.

Il presidente statunitense Bill Clinton e l’allora segretario generale della NATO Javeir Solana durante un incontro nel maggio 1999 (NATO)

Oltre ai dubbi di legittimità sul piano del diritto internazionale e a quelli di natura politica sull’uso della forza per porre fine alla guerra, altre dure critiche all’intervento Nato sono scaturite per i già citati “danni collaterali” e per l’alto numero di morti civili e distruzioni causate dai bombardamenti. Proprio durante le operazioni Nato si sono verificati i massacri più efferati e l’esodo di migliaia di persone, a causa della forte polarizzazione del conflitto causato dall’intervento occidentale. A questo si aggiunge anche l’ormai provato utilizzo di armi all’uranio impoverito da parte dell’Alleanza. Tanto da spingere l’ex capo del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia, Carla Del Ponte, ad affermare nel 2001 che l’uso di armi all’uranio impoverito da parte della Nato avrebbe potuto essere considerato un crimine di guerra. In questi anni sono stati tantissimi i militari, anche italiani, che si sono ammalati e che sono morti a causa dell’esposizione a sostanze radioattive come l’uranio impoverito. Praticamente impossibile ricostruire le conseguenze sui civili serbi e kosovari colpiti da queste bombe.

Ventiquattro anni dopo i bombardamenti della Nato sulla Serbia restano una delle pagine più critiche della recente storia europea e dell’Alleanza Atlantica. Un intervento che è riuscito nel suo intento di costringere Milošević a firmare un accordo di pace ma con un costo in termini di vite umane e distruzioni materiali altissimo. Ma l’operazione Allied Force ha avuto anche altre conseguenze: da quel momento in poi l’Onu ha perso parecchio del suo peso come arbitro delle dispute tra gli stati. Sempre meno efficace e utile, l’Onu è stato ormai quasi del tutto escluso dalle questioni politiche internazionali e soprattutto dalla risoluzione dei conflitti armati, come dimostrato anche dall’inazione pressoché totale nell’attuale conflitto in Ucraina.

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Marco Siragusa
Marco Siragusa

Dottore di ricerca in Studi internazionali e giornalista, ha collaborato con diverse testate tra cui East Journal e Nena News Agency occupandosi di attualità nell’area balcanica. Coautore dei libri “Capire i Balcani Occidentali” e “Capire la Rotta Balcanica”, editi da Bottega Errante Editore. Vice-presidente di Meridiano 13 APS.