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La strada per arrivare a Biškek è un susseguirsi di colline basse e brulle. Hanno i colori caldi del giallo, dell’ocra e dell’arancione. In prossimità di piccoli torrenti si sviluppano oasi di verde e tutto attorno il nulla per ore e ore di autobus, un paesaggio spopolato e infinito. Ogni tanto gruppi di cavalli e bovini al pascolo. Il cielo è lattiginoso e tremolante dal caldo, solo i pali dell’elettrificazione interrompono l’andamento orizzontale del panorama.
Condividiamo l’autobus con un gruppo di danze tradizionali che si sta recando a Biškek per una competizione. Sono tutte donne sulla sessantina smaniose di esibirsi. Ci fanno vedere i loro video dal cellulare, le danze, gli abiti, la musica che definiscono tzigana. Ci offrono il boorsok (molto simile allo gnocco fritto reggiano, e per questo le amerò per sempre)cucinato appositamente per la festa del sacrificio (Eid al-Adha). Sono donne che vanno a divertirsi, aperte al mondo, curiose, espansive. Fanno anche un gran baccano, e questo ovviamente ci piace parecchio.
Prima di arrivare al confine tra Kazakhstan e Kirghizistan, la strada si impenna e in un paio di tornanti ci ritroviamo su un altopiano, un manto di fiori viola ricopre le colline fino a poco prima brulle e arse dalla siccità. Il paesaggio diventa un incanto, mentre all’orizzonte si iniziano a intravedere le montagne kirghise colme di neve.
Quando arriviamo a Biškek l’Eid al-Adha rende l’aria euforica. Famiglie per strada a festeggiare con musica tamarra e banchetti che vendono cibo e bevande zuccherate. Ragazzine velate di bianco sfrecciano su monopattini elettrici, bambini mangiano zucchero filato più grande della loro testa, mentre gruppi di famiglie si fanno selfie al parco Panfilov e dalla fontana in piazza Ala-Too.
L’euforia è estesa e generalizzata, nonostante ci siano 37 gradi e il cielo nuvoloso nessuno sembra sudare. Una folla si raduna al cambio di guardia della bandiera, bimbi giocano rincorrendosi tra loro in mezzo ad altra gente, cadendo e rialzandosi, nessun adulto sembra occuparsene o preoccuparsene.
Al di fuori di questa bolla la città però rimane silenziosa e discreta, sembra una qualsiasi normale giornata festiva. Tutto attorno, anche qui, le montagne del Tian Shan coperte di neve.
Biškek e il monumentalismo asiatico
Anche Biškek, come la kazaka Almaty, è stata fondata dai russi, nel 1868 a seguito della disgregazione del khanato uzbeko di Kokand. Una statua enorme ricorda l’eroe che ha liberato i kirghisi dall’oppressione del khanato, il suo nome è Bajtik Kanaj (Biškek baatyr, eroe di Biškek), che con 200 cavalieri a cavallo e con l’appoggio determinante dell’Impero zarista distrusse il khanato uzbeko per poi assoggettarsi al dominio russo.
A tutt’oggi permane una forte discriminazione nei confronti della minoranza uzbeka del paese, tant’è che la città di Oš (seconda città del paese e a maggioranza uzbeka) nel 2010 è stata teatro di violenti scontri tra kirghisi e uzbeki, con almeno 400 morti tra le file di questi ultimi.
L’altra frattura del Kirghizistan è tra nord e sud, ed è una frammentazione su base clanica per la conquista del potere parlamentare. Per queste ragioni si sono susseguiti vari scontri tra manifestanti e polizia nel 2005 (rivoluzione dei garofani) e nel 2022, quando i manifestanti hanno liberato alcuni prigionieri politici dal carcere, tra cui l’ex presidente Almazbek Atambaev, esponente del Partito Socialdemocratico.
Ci sono però anche altre due statue molto interessanti, sempre nella zona centrale. Una è quella di Lenin, alta una ventina di metri ci indica la via verso il socialismo, l’altra è quella del grandissimo scrittore kirghiso Čyngyz Ajtmatov, più contenuta e riflessiva.
Cubature di cemento e di vuoto allo stesso momento, monumenti giganti che a stento riescono a riempire le dimensioni enormi del contesto in cui si trovano. Sono spazi cittadini davvero devastanti che rispecchiano lo spazio che c’è attorno alla città, sterminato e intangibile.
Vagando a caso e perdendoci ci siamo imbattuti nella Fontana del pesce solare, opera di Vladimir Krugman. Costruita nel 1982, la fontana è realizzata in vetro colorato con cui furono realizzati i mosaici che la decorano. Inquadrando il QRcode in prossimità della fontana si può leggere:
si dice attraverso le spine verso le stelle e, nel nostro caso, attraverso le spine verso la fontana. La città vedeva ancora pesci splendenti e soleggiati nuotare al sole all’incrocio tra le vie Abdrachmanov e Toktogul.
Non è solo appunto in quell’idealtipo asiatico fatto di scadente cemento sovietico e luce diagonale, qua c’è qualcosa di legato alla tradizione nomade che permane, la rappresentazione fantastica e mitica che per millenni è stata l’unica strada possibile per elaborare la precarietà della vita nomade. Questo approccio ci ricorda i racconti e i romanzi di Ajtmatov, quando l’elemento fantastico entra nella narrazione per alleviare le pene del protagonista.
Mentre contempliamo questa meravigliosa fontana, la sua fantasia e la sua storia, un manutentore prova a farla funzionare senza riuscirci. Poco distante due persone accovacciate sono intente a fumare. A Biškek tutti fumano così, accovacciati, come nei film orientali, ai bordi della strada, sui marciapiedi, nei cantieri, sopra ai fossati di cemento e ai bordi delle strade ad alta percorrenza.
Museo Frunze, Biškek (Meridiano 13/Matteo Pioppi)
Bazar
L’Oš bazar è il bazar definitivo.
Una struttura informale, cunicolare e spontanea, organizzata come un tipico bazar asiatico ma più grande e più articolato. La verdura, ad esempio, oltre ad avere svariati ed appositi spazi dedicati, nel suo reparto è suddivisa tra quella di terra (patate, carote, cipolle, radici) e il resto. Profumi di orto in estate, di aneto, di meloni e albicocche.
Ad un banchetto informale una signora di una certa età, curata e ben vestita, sta comprando un canarino. Il venditore lo prende dalla gabbia e lo ripone in una scatola di scarpe forata, rosa. Chissà come sarà la casa in cui continuerà a vivere ingabbiato.
Nel reparto vestiti che precede il reparto ferramenta, una ragazza fa la commessa nel negozio della madre, parla un ottimo inglese, ci fermiamo a chiacchierare. Dice che ha studiato da infermiera a Dubai mantenendosi gli studi lavorando da Oysho. È stata lì 5 anni poi è tornata a Biškek. Dice che in Kirghizistan ci sono stipendi bassi e che tra affitto, qualche uscita serale e le bollette i soldi finiscono subito. Vorrebbe fare un’altra esperienza all’estero, ma da sola e senza un compagno che si prende cura di lei non se la sente.
Ci chiede cosa ci piace del suo paese, le rispondiamo che, dal poco che abbiamo visto, ci sembra che l’infanzia venga gestita in modo diverso, più libera e meno protocollata, meno schematica, i bambini sono in giro ovunque, da soli e in gruppo, a tutte le ore.
Ci conferma che in effetti i bimbi crescono liberi, e se c’è una cosa che funziona è proprio questa. Le diciamo che da noi c’è molta ansia sociale sull’infanzia, molte pressioni sui doveri. Lei non riesce a capire questo passaggio, ci chiede se per caso è lo Stato che impone questa disciplina. Rispondiamo di no, nessuna imposizione, fa parte del nostro modo di vivere. Fa un sorriso di circostanza ma sembra non aver capito.
Oltrepassiamo il settore abbigliamento e ci dirigiamo dentro la struttura del mercato vero e proprio. Nel reparto carni, alcune donne stanno preparando i budelli per il bešbarmak, li riempiono di carne di cavallo, grasso giallo, spezie e sale.
In un altro banco un signore ci dice Berlusconi, Putin, vodka, Mussolini, ed elenca le altre cose che conosce del nostro paese: Buffon, Celentano, Toto Cotugno, Totti e la formazione della nazionale di calcio vincitrice del mondiale 1982. Ci chiede di farci una foto con lui. Nel reparto carne di maiale, solo donne di origine slava, senza velo, lavorano la carne.
Scendiamo le scale, sono unte di grasso animale, mi viene in mente l’Assedio di Costantinopoli, quando Mohammed II fece cospargere di grasso animale le navi per portarle via terra sul Corno d’oro. E in effetti funziona, il grasso sulla pietra delle mattonelle le rende scivolosissime.
Reparto miele e latticini, un signore che vende miele invece ha più in simpatia per I ricchi e Poveri. Ci fa ascoltare una canzone che gli ricorda quando aveva sette anni, dice che ogni volta che la ascolta da solo piange perché gli ricorda, tra le tante cose, i tempi dell’Urss.
Mentre usciamo, un ragazzo cieco poco più che ventenne canta e suona la fisarmonica tra le vie interne del bazar. In questo suo percorso itinerante tra i banchi è guidato da un bambino con cappello e maglia a righe che svogliato tocca per gioco tutte le merci in vendita.
Il ragazzo cieco ha una voce potente, profonda, sentita. Suona una canzone malinconica e struggente. È qualcosa di incredibile, l’insieme ha una potenza evocativa che ti arriva addosso con una forza inaudita. La sua condizione di indigenza unita alla sua disabilità escono completamente in modo esplosivo attraverso il suo canto, la sua voce irrompe nello spazio colmandolo.
Le persone si fermano ad ascoltarlo, donano qualche spicciolo, lui cammina scortato e continua a suonare sempre più intensamente, accorciando lo spazio tra noi e l’assoluto.
Museo per un popolo nomade
Biškek è una città unica, che unisce l’eredità nomade-musulmana a quella sovietica. Al Museo nazionale di storia del Kirghizistan, la storia dei nomadi fino al 1700 viene descritta attraverso i manufatti, come se fosse una lunga preistoria. Poi, con l’arrivo dell’Impero zarista iniziano le prime fonti scritte d’archivio.
Come si fa a fare un museo per un popolo nomade? Un popolo che non ha mai avuto nulla di scritto, nessun palazzo in cui archiviare un qualsiasi documento che di fatto non ha mai prodotto. Un popolo senza testi scritti da tramandare, senza edifici in pietra in cui dimorare.
In una foto in bianco e nero si vede che all’interno di una yurta abitava Kurmanjan Datka, la Regina degli Alai. Nella foto viene ritratta con suo nipote assieme all’orientalista francese Paul Pello e Karl Gustav Mannerheim, allora agente segreto russo, successivamente presidente della Finlandia. Kurmanjan Datka nella foto aveva 94 anni e continuava a vivere da nomade, nella precarietà della vita sui monti Alai. Ed era la Regina del suo popolo.
Laghi e yurte
Al lago Songköl ci si arriva con una comoda strada sterrata che si inerpica fino a 3.346 metri. Il lago è qualcosa di incredibile, attorno vette a cinquemila metri ancora innevate, il sole è potente, gli occhi sono tesi dietro gli occhiali da sole. Animali al pascolo, mandrie di cavalli al galoppo, qualcosa di ancestrale che ci riguarda. Il paesaggio è completamente privo di alberi per chilometri, tutto è ricoperto di erba verde e da distese infinite di stelle alpine.
Il nostro accampamento di yurte è dietro a un piccolo promontorio, leggermente nascosto, quando la strada curva aprendosi la meraviglia del lago ci invade.
Cavalli al pascolo presso il lago Songköl (Meridiano 13/Matteo Pioppi)
La famiglia di pastori che ci ospita è gentile e premurosa, qualcuno che si prende cura di noi. La yurta è spartana ma ha tutto quello che serve: un letto per dormire, una stufa per riscaldare, una luce per leggere. Appena appoggiato lo zaino i bambini del campo mi lanciano il pallone tra i piedi. Gioco a calcio con loro, ridiamo per la mia goffaggine, mi fanno correre, il fiato a tremila metri è pesante, ma il divertimento è massimo.
Tutto attorno è un incanto. Questo pascolo verticale fa parte della storia del Manas, al Songköl è infatti presente un sito archeologico (Taš-Tulga) risalente al I sec a.C.. Il Manas è una sorta di Iliade kirghisa, un complesso di poemi epici che rappresenta le peripezie della Grande Marcia del popolo kirghiso e le sue guerre contro turchi, mongoli e cinesi.
Nel 1856, l’etnografo kazako Şoqan Valichanov, formatosi nella scuola militare russa a Omsk (dove diventerà amico di Dostoevskij), compie la prima registrazione scritta del Manas. Nel poema, il sito di Taš-Tulga viene menzionato come il luogo in cui si è svolta una commemorazione in onore di un compagno d’armi dell’eroe Manas.
Il sito è costituito da cerchi di pietre allineati da sud a nord, con un monolite che si erge in testa alla linea. I cerchi sono chiamati chiamati kereksur, che in mongolo significa nidi del Kirghizistan, sono un esempio della cultura spirituale delle antiche tribù nomadi.
La camminata di un paio di ore sulle rive del lago Songköl ci proietta nel vuoto di questi spazi immensi, di queste cubature di suolo e di rocce che ci annientano, di un tempo dilatato che segue le stagioni e gli animali, in questo spazio di privazione e di assenze che ci attraversa e ci disintegra.
Mentre rientriamo per l’arrivo di un temporale, la matrona è intenta a mungere una cavalla, il marito è impegnato a raggruppare i cavalli per la notte mentre i bambini fanno rientrare i vitelli nella stalla di mattoni e lamiera. Vento freddo e tuoni che rimbombano sull’altipiano.
La cena con loro è frugale, una zuppa di lenticchie con un po’ di carne di montone, riso pilaf con le verdure, pane e kaymak fresco. La donna, utilizzando inaspettatamente alcune parole in inglese, ci racconta come due dei loro figli abitino a Biškek mentre uno abita in Polonia. Quelli che sono lì con loro sono i figli di sua sorella.
Fuori infuria la bufera, vento freddo e pioggia sferzano l’altipiano. Quando rientriamo per dormire il pastore passa ad accendere la stufa: letame secco, legno e benzina. Un piacevole tepore soporifero riscalda la yurta mentre il fragore della pioggia battente prepara lo spazio al nostro riposo.
La Cina è vicina
Il paesaggio della strada per la Cina è mozzafiato, montagne fin quante ne vuoi. Un susseguirsi di pascoli, yurte e ruscelli. Passi a più di tremila metri, fiumi selvaggi, aquile nel cielo. Un paesaggio che pare disegnato, una luce perfetta mette in risalto gli avvallamenti delle montagne e delle colline, colori pastello verde e ocra colorano il paesaggio. Nessuna antropizzazione a parte la strada asfaltata, solo natura e basta.
Passiamo dalla città di Naryn che è il posto della polvere, un paese sgretolato sulla via che collega al confine cinese presso il passo di Torugat. Dopo Naryn aumenta sulla strada la presenza di camion cinesi carichi di merce di vario genere, ma soprattutto carichi di macchine, autobus e container. Entrano pieni in Kirghizistan ed escono senza alcun carico in direzione Cina. Il dominio del capitalismo di stato cinese è palese e, come tutti i capitalismi, non lascia scampo.
Sulla via per la Cina ci fermiamo a Taš Rabat, un caravanserraglio in pietra del XV secolo.
Caravanserraglio di Taš Rabat (Meridiano 13/Matteo Pioppi)
Situato a 3.200 metri nel canyon di Kara-Koyun, è stato per secoli una locanda per mercanti e viaggiatori. La sua presenza muta si staglia nei secoli, immutabile nella storia, incastonato in una valle stretta di rocce e alte vette innevate.
Da qui si sono fermate le carovane in marcia provenienti da oriente e occidente, vi hanno trovato rifugio dalle intemperie, acqua nei giorni di sole, lo spazio necessario all’intimità nella preghiera. Dalla Cina al Mediterraneo, dagli imperi d’oriente fino a Costantinopoli e alle repubbliche marinare di Genova e Venezia, tutto questo passando anche da Taš Rabat. La potenza dei corridoi commerciali e delle carovane nella steppa.
Ci siamo spinti oltre, abbiamo continuato la strada verso la Cina finché potevamo permettercelo, poi i controlli hanno fatto il resto. Ad un certo punto, a una quarantina di chilometri dal passo del Torugat una cancellata bordeaux irrompeva sulla strada, segnando di fatto l’inizio dei controlli per il confine cinese. Era giunto il tempo, per noi, di tornare verso casa.
Città di Naryn, sulla via per la Cina (Meridiano 13/Matteo Pioppi)
Breve bibliogafia
Il battello bianco, Čingiz Ajtmatov, Marcos y Marcos, 2007
Occhio di cammello, Čingiz Ajtmatov, Besa Muci, 2020
Popoli della yurta. Kazakhstan, tra le origini e la modernità, Fiorenzo Facchini (a cura di), Jaca Book, 2008
Russia. Storia di un impero euroasiatico, Aldo Ferrari, Mondadori, 2024
Kazakhstan, Centro dell’Eurasia, Fabio Indea, Sandro Teti, 2014
Est/Ovest, Edigio Ivetic, Il Mulino, 2022
Tra i kirghisi del Pamir Alaj. Alle periferie dell’eurasia e nelle derive della modernità, Iogr Jelen, Forum – Editrice Universitaria Udinese, 2002
Classe 1983, attualmente faccio il libraio e vivo a Genova. Nel 2012 a Bologna ho fondato Bébert Edizioni. Successivamente ho fatto parte della redazione di Qcode Magazine. Con la raccolta di racconti "Geografie" nel 2020 ho vinto il Premio Navile – Città di Bologna. In passato ho collaborato con Fatto Quotidiano e Osservatorio Balcani Caucaso.