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Conversazioni sulla guerra a ritmo di rakija

“Lo vuoi un bicchiere di grappa?”

Ivan sa da dove vengo e quindi usa la parola italiana per farmi capire cosa vuole offrirmi, buttandola dentro il suo inglese imparato a orecchio in tanti anni da albergatore. Rakija, l’acquavite dei Balcani, la sola cosa che, insieme ai ćevapčići, trovi anche nel villaggio più sperduto di questo pezzo del mondo che va da Trieste a Plovdiv, e sempre con lo stesso nome e con lo stesso sapore: quella di Ivan è la stessa rakija che bevo nell’oscuro baretto a due passi dall’albergo che di solito uso a Tirana, identica alla prima che mi capitò di bere, servito a stomaco vuoto per farmi venire più fame, in una trattoria della pianura che porta a Lubiana, un posto senza un filo d’acqua tutto intorno ma che nel giardino teneva con orgoglio una barca come quelle che solcano il Ticino.

Fratelli di rakija

La rakija di Ivan arriva nella sua forma più comune, quella della slivovica prodotta facendo fermentare le prugne. “La fai tu?” gli chiedo indicando con un cenno della testa le piante che circondano la piccola piscina che ingentilisce il bed and breakfast che gestisce insieme a Dijana, la moglie. “No, non ho abbastanza tempo per starci dietro” risponde guardando i balconi fioriti delle camere che affitta, “ho troppo lavoro qui”.

La mia prima reazione, riflesso condizionato da milanese “testa bassa e fatturato” che non sono o voglio pensare di non essere, è pensare che la tranquillità con la quale se ne sta seduto al mio fianco bevendo rakija non sembra il segno distintivo di un uomo oberato dagli impegni. Poi penso, per fortuna abbastanza velocemente da non farmi replicare, che la sua tranquillità e il suo piacere di chiacchierare sono proprio i motivi che mi faranno salvare il suo indirizzo e il suo numero di telefono per garantirmi di poter tornare in un luogo amico – d’altra parte in qualche modo facciamo lo stesso lavoro, credo di poter capire anche quello che non è in grado di dirmi.

Mi spiega che c’è un villaggio non lontano dove la produzione di slivovica sembra essere la principale occupazione: lui va, contratta – al cambio attuale paga circa sette euro al litro –, quelli preparano le bottiglie con tanto di etichetta che riporta il nome del b&b, lui ritira ed è soddisfatto. Non gli chiedo perché non fa raccogliere le prugne delle sue proprie piante, visto che ne è pieno il viottolo che costeggia l’edificio: in fondo il meccanismo è lo stesso che fa marcire migliaia di tonnellate di frutta nel nostro Meridione, non mi sembra il caso di venire nella Karlovačka županija croata a fare le pulci ai locali e, d’altra parte, Ivan fa un gesto a comprendere il panorama che abbiamo di fronte facendomi capire che qui l’ultima cosa che manca sono proprio le prugne e non saranno le sue a fare la differenza.

Per alcuni anni ho percorso i cinquecento chilometri che dividono casa mia dalla sede slovena di una grande azienda automobilistica due o tre volte al mese. Ogni volta che potevo mi fermavo a mangiare in una piccola trattoria di Muggia, conosciuta per caso grazie alla chiusura settimanale del ristorante più conosciuto del paese. Era gestita da una coppia stramba e meravigliosa: lei profuga istriana, padrona dei fornelli e dei segreti delle ricette che creavano assuefazione nei clienti ormai trasformatisi in adepti di una setta, lui ex camionista del Testaccio, testardamente ancorato all’accento del Mattatoio di Roma, tuttofare del locale.

Non so perché, ma mi avevano preso in simpatia: soprattutto lui che un giorno, a locale ormai vuoto e mentre mi accingevo a pagare, con aria cospiratoria mi fece cenno di avvicinarmi al bancone di legno – un manufatto che avrebbe fatto la sua splendida figura in una mostra di modernariato, insieme alla lavagnetta dei prezzi e alle lettere adesive appiccicate sopra la porta di ingresso per formare il nome della trattoria. “Assaggia questa” mi disse estraendo una bottiglia di plastica azzurra da acqua minerale. Senza nemmeno avvicinare il naso al bicchierino prontamente riempito, sentii subito aria di casa perché quel liquido trasparente assomigliava molto al fil’e ferru sardo con il quale avevo familiarità fin da bambino. “Rakija fatta in casa, me la porta un amico dalla Serbia quando fa il viaggio di ritorno” disse l’uomo del Testaccio mentre per farmi compagnia si dosava la sua razione di nascosto dalla moglie.

Gradii abbastanza da portarlo a regalarmi la bottiglia intera, dono che ricambiai con una bottiglia di quella che mio padre chiamava s’abba ardente, l’acqua che brucia, prodotta da un qualche parente nella terra dei nuraghi, e che i miei amici definivano familiarmente “la Fiuggi” per la sconsiderata abitudine del mio vecchio di imbottigliarla in quegli innocui recipienti di vetro causando più di un catastrofico equivoco. A ripensarci sembravamo due ambasciatori, un milanese e un romano che si incontravano nella terra di mezzo al confine tra Occidente e Oriente scambiandosi presenti che arrivavano da luoghi lontani e remoti a suggello della loro amicizia.

Rakija (macedoniancuisine.com)

La Romagna nella Krajina

“Qui” è Grabovac, villaggio della contea di Karlovac, uno dei due o tre posti dove i turisti si fermano un paio di notti per visitare i laghi di Plitvice, meraviglia della natura e insostituibile fonte di guadagno per chiunque abiti in zona.

Non sono andato a cercare dati ufficiali ma lungo tutto il tratto locale della D1, la striscia di quattrocento chilometri a una corsia per senso di marcia (che, con inaspettato senso dell’umorismo, nonostante questo viene definita autostrada) che attraversa il paese dal confine con la Slovenia fino a Spalato, non c’è modo di vedere altro che ristoranti, alberghi, pensioni, b&b, supermercati usati dai visitatori dei laghi per far fronte alla voluta scarsità di servizi di ristorazione interni al parco. Nient’altro per chilometri e chilometri, un sistema di sfruttamento intensivo ma apparentemente dolce, non aggressivo: una specie di Romagna senza megadiscoteche e insegne al neon, fatta di matrone che ti dicono di prendere tutto quello che ti serve dal tavolo della colazione e prepararti i panini per non farti spennare “là dentro”, ragazzini olandesi dalla pelle bianca come solo nelle favole e motociclisti slovacchi che si riposano nel pergolato bevendo la birra offerta dall’oste.

Chiedo a Ivan quanto è lunga la stagione: mi spiega che hanno clienti in qualunque periodo dell’anno, a volte solo una camera o due, altre volte mezza struttura, i mesi estivi sono sempre sold out. “Ma abbiamo bisogno anche noi di andare in vacanza,” mi dice quasi chiedendo scusa, “allora scegliamo il periodo e per quel paio di settimane raddoppiamo i prezzi delle camere; la gente pensa che sono troppo care, non prenota e noi siamo liberi”. Ride.

Parliamo del giro che ho fatto prima di arrivare qui. Gli dico che una decina di giorni prima sono stato a Bihać, che sta a un confine e mezz’ora di strada dal tavolino di legno sul quale abbiamo appoggiato i bicchieri, e che ho attraversato la Slavonia per andare a Vukovar. Al sentire questo nome sembra rabbuiarsi. “Vukovar, brutta storia” mormora scuotendo la testa. Proseguo raccontandogli di essere stato al memoriale di Ovcara e in cima alla torre dell’acqua, uno dei simboli più famosi delle guerre jugoslave, che dopo essere stata trasformata in museo continua a dominare la città e il Danubio che la attraversa ostentando gli enormi buchi lasciati nella struttura dai mortai dei serbi e dell’esercito che all’epoca ancora si definiva jugoslavo; ma gliene parlo senza spingere sull’acceleratore, volutamente svagato, come se stessi dicendo agli amici romani che sono passato a San Pietro in Vincoli mentre andavo a bere qualcosa a via dei Serpenti: non è certo a un croato di mezz’età che devo spiegare che cosa è stata Vukovar nel 1991.

Come per cambiare discorso, Ivan mi dice “Sei passato per Slavonski Brod, allora. Io vengo da lì”. Conosco il posto, ci sono passato tre anni fa andando in pullman da Zagabria a Sarajevo, ho ancora davanti agli occhi il tramonto sulla Sava che fa da confine fra Croazia e Bosnia. Gli chiedo com’è arrivato qui. Ed è così che la guerra entra nel nostro discorso: per caso, senza averlo voluto, senza averla cercata: sarà l’unica volta che mi capita e la cosa dice molto più di me che dei miei interlocutori.

Carristi croati durante l’Operazione Tempesta, agosto 1995 (hrvatski-vojnik.hr)

Storia di Ivan, che pilotò un carro armato

Ivan K. aveva vent’anni nel 1990 quando si arruolò in polizia. Dopo l’addestramento di base lo mandarono a Zagabria e quando fa il nome della capitale mi pare di avvertire nella sua voce una specie di sorpresa mista a nostalgia: la prima, dello stupore del ragazzo di provincia proiettato a conoscere il mondo e la seconda, della grande città e della sensazione che solo questa può dare di essere un passo più vicini al centro dell’universo.

Anche mio padre era una specie di poliziotto, gli dico, un carabiniere che da un paesino della Sardegna venne mandato a Gorizia e Trieste e lui ride – “ah sì, i carabinieri, ho presente” – divertito dal parallelo e dalle labili coincidenze della vita rafforzate dal fatto che Trieste qui continua a essere un luogo quasi mitologico, la vecchia porta di accesso al benessere occidentale che veniva portato a casa sotto forma di abbigliamento e cibi e dischi: sono certo che se vedessi una sua foto dell’epoca gli troverei sul viso un’espressione molto simile a quella che ha mio papà nelle immagini granulose che lo ritraggono fresco di arruolamento, nel 1951.

Ivan passò a Zagabria tutti gli anni della guerra, relativamente al sicuro, fin quasi all’ultimo, nonostante facesse parte di quelle unità della polizia che nel 1991 vennero incorporate nella Guardia Nazionale Croata, l’embrione di esercito di cui il nuovo stato croato si era dovuto dotare in fretta e furia dopo la dichiarazione di indipendenza: “sono abbastanza piccolo, come vedi” dice sorridendo mentre con un veloce movimento delle dita indica il breve percorso dalla fronte ai piedi “così mi hanno messo a fare il carrista, come pilota”. Ho la tentazione di interromperlo per dirgli che tu guarda i casi della vita, ci credi che anche mio padre era pilota di un mezzo corazzato, tu carrarmato e lui autoblindo, ma lo lascio proseguire.

“Sono arrivato qui con l’Operazione Tempesta” dice, mantenendo il sorriso tranquillo di una persona in pace con il mondo “e ho conosciuto mia moglie, che è di qui. Così mi sono fermato e da allora non mi sono più mosso”. Obliquamente, gli chiedo di più perché sta parlando della più grande battaglia terrestre combattuta in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale, seicento chilometri abbondanti di fronte, 170mila soldati tra croati, bosniaci e serbi, quasi 250mila sfollati serbi che diedero il cambio ai 100mila croati che erano stati cacciati dalle loro case quattro anni prima, una pulizia etnica fatta di pochi morti e enormi devastazioni.

Leggi anche: Oluja: l’impatto antropico di una Tempesta (militare)

Ivan però non entra nei dettagli, dice che fu una cosa veloce (è vero: il confronto fu così impari che i croati da una parte e i bosgnacchi dall’altra se la sbrigarono in quattro giorni prendendosene poi un’altra decina per darsi alle pulizie di fino) e quindi, sembra voler dare a intendere, indolore. Non glielo mostro, ma non posso nascondere a me stesso che provo una specie di sconveniente delusione: fatte le debite proporzioni, è come se stessi parlando con un marine che ha fatto lo sbarco di Normandia e quello mi dicesse che tutto quel che gli è successo è stato bagnarsi i piedi scendendo dal mezzo anfibio per arrivare a Omaha Beach e poi da lì a Bayeux e Caen è stata una passeggiata, altro che salvate il soldato Ryan: e il sangue, gli spari, la polvere? Le urla, le colonne di civili che fuggono, la cavalcata delle Valchirie? Se solo un terzo di quello che si trova nelle ricostruzioni di Giacomo Scotti fosse vero, ci sarebbe da inorridire da qui all’eternità: dai Ivan, possibile che non hai niente di tutto questo per accompagnare la rakija?

Eppure, è così: se questa sia la vera esperienza di quest’uomo o la sua versione accomodata, prima di tutto per uso personale, costruita un racconto dopo l’altro, un turista dopo l’altro, un bicchiere dopo l’altro, non so e non posso saperlo.

Non mi sento di imbarazzarlo chiedendogli se e quante volte la bocca da fuoco del carro che pilotava ha sparato, se ha condotto quella bestia – la stessa alla quale ho fatto la guardia per fin troppe notti nel gelo dell’inverno dell’Alto Adige durante il mio anno di servizio militare – a saltare trincee e guadare torrenti, se ha visto da vicino morte e devastazione, se anche lui ha saccheggiato case serbe rimaste disabitate sia per tornaconto personale che per obbedienza a ordini superiori di quell’esercito diventato il braccio armato di una smisurata operazione immobiliare, che forse fu il vero obiettivo dell’Operazione Tempesta se non dell’intera guerra, altro che difesa dei sacri valori di appartenenza a una terra e una cultura.

Penso, ascoltandolo, che se non ha spontaneamente soddisfatto le mie curiosità più o meno morbose non è giusto obbligarlo a farlo e penso – sarebbe meglio dire provo, avverto la sensazione: il pensiero è qualcosa di ben più strutturato; in un certo senso, posso dire so – che io invece al posto suo avrei proprio fatto quello che lui evita di fare, avrei provato, più o meno consapevolmente, a impressionare il mio interlocutore con la truculenza da documentario, che è la cosa che si può permettere di fare chi le mani non se le è sporcate davvero.

Bandiere di Serbia e Croazia (orientalreview.com)

Sai com’è, se uno ti brucia la casa tu vuoi bruciargli la sua

Gli chiedo com’è la vita a Grabovac, come sono i rapporti con i serbi e i bosniaci e lui mi dice, sempre sorridente, sempre rassicurante, che è tutto tranquillo, che sono tutti in buoni rapporti, hai presente quell’uomo che hai incrociato ieri pomeriggio? Vive in Germania ma è di Bihać, è musulmano, io sono cattolico ma non c’è nessun problema, siamo amici.

“E i serbi?” gli chiedo. Ivan indica la villa a due piani che sta sull’altro lato della strada, anche quella con il suo bravo cartello che riporta il nome del b&b: “I serbi sono ritornati,” risponde “i nostri vicini sono serbi e andiamo d’accordo, siamo amici”. Fa una pausa brevissima, quasi impercettibile, e aggiunge “non come a Vukovar, lì si odiano a morte ancora oggi, se mi chiedi perché qui le cose sono diverse non te lo so dire”. Stringe le spalle e scuote leggermente la testa, nel gesto inconfondibile di chi vuole comunicare la propria incapacità di spiegare e spiegarsi la follia del mondo, dei propri simili anche se questi diventano, quasi impercettibilmente, altri proprio a causa di quello scarto dalla ragione.

Nel momento in cui parliamo non so ancora, lo scoprirò solo dopo, una volta tornato a casa, che i serbi a Grabovac saranno pure tornati ma evidentemente meno di quanto Ivan pensa o ci tiene a dirmi, se è vero che nell’intera contea arrivano a malapena al 10% della popolazione (e non parliamo del resto della Krajina, dove i serbi vissero per secoli e non tornarono più): glielo avrei fatto notare? Probabilmente no, e comunque lui mi avrebbe risposto che quello che conta è che sono tornati in pace.

“Certo, c’è stato il problema delle case: tante di quelle dei croati erano state bruciate dai serbi quando avevano occupato la Krajina e quando i croati si ripresero la terra si vendicarono, se uno ti brucia la casa tu vuoi bruciargli la sua, sai com’è”, mi dice.

No, Ivan, non lo so com’è, nessuno mi ha mai costretto a emigrare con la forza, nessuno mi ha mai bruciato la casa, io non sono mai entrato nella casa lasciata di corsa da qualcun altro per prenderne possesso né ho provato il desiderio di restituire la cortesia dando fuoco al salotto e alla cucina. E però, posso dire con sicurezza che mi sarei comportato diversamente da te, dai tuoi commilitoni, dalla brava gente di Grabovac? No, non posso. Dubito che avrei fatto la prima mossa, che avrei acceso il primo cerino, che avrei preso possesso senza essere prima stato derubato. Ma se per una capriola del destino io, che non sono diventato pilota di carrarmato come te solo perché mi mancavano due diottrie, o mio papà che pilota di mezzo blindato lo era davvero pur senza averlo programmato ed essendo l’uomo più pacifico dell’universo, ci fossimo trovati in divisa durante una guerra, avremmo detto “no, scusate, questo non fa per me”? Ma se una volta ritornato al mio villaggio avessi ritrovato la mia casa annerita e semidistrutta dalle fiamme, sarei riuscito a trattenermi dalla vendetta? Una cosa che mi ha sempre affascinato fino al terrore è che le cronache delle vostre guerre sono piene di massacri compiuti da uomini dei quali fino al giorno prima si diceva che non avrebbero fatto del male a una mosca. Le vostre guerre. Loro. E le nostre? E noi? E io?

“Comunque, il governo ha messo tutto a posto,” mi rassicura Ivan senza che gli chieda di farlo “ha dato tanti soldi per ricostruire e oggi sono tutti contenti, croati e serbi”. Mentre parla, noto che non usa mai il “noi” e il “loro”, come se lui non appartenesse ad alcun gruppo, ad alcuna etnia, come se tutta quella faccenda non lo riguardasse più di tanto; forse è così, chissà se lui si considera “di qui”, se l’aver viaggiato un po’ – “ah Firenze, Roma, Venezia, che posti meravigliosi che avete” – e l’aver a che fare quotidianamente con gente che viene da ogni parte del mondo non lo fa sentire altro rispetto a chissà chi e chissà cosa.

Incurante del caldo, Ivan riempie ancora i due bicchieri. Gli dico ricordati di mettermi nel conto le rakije e le birre: lui mi guarda con un’espressione che sta a metà tra lo sconcerto e l’offesa, scosta la bottiglia ormai vuota e con il tono di chi non accetta repliche risponde “ma figurati, siamo qui, beviamo, facciamo quattro chiacchiere, ti pare che ti faccio pagare”.

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Sergio Pilu
Sergio Pilu

Si guadagna da vivere come marketing manager di un’agenzia di comunicazione. Conosce e frequenta i Balcani per motivi professionali e personali da una quindicina d’anni e ha scritto due libri: Zona di alienazione su Čornobyl’ e Il Tunnel sul suo viaggio in Bosnia.