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L’undici agosto 1979, lo stesso giorno in cui la Dinamo Tbilisi aveva battuto ai rigori la Dinamo Mosca per mettere le mani sulla Coppa dell’Unione Sovietica, il volo CCCP-65735 – un Tupolev 134AK dell’Aeroflot – era partito dalla capitale uzbeka Taškent alla volta della capitale bielorussa Minsk. Durante il tragitto aveva effettuato il regolare scalo nell’aeroporto kazako di Gur’ev e aveva compiuto uno scalo di rifornimento a Donec’k prima di ripartire alla volta della sua destinazione finale. Il pilota aveva ottenuto dalla torre di controllo il permesso di portare l’aereo a quota 8.400 metri, duemila in più rispetto alla rotta prefissata, per risparmiare carburante.
Attorno alle ore 13:35 un controllore del traffico aereo del centro regionale di Charkiv, Vladimir Sumskoj, si rese conto che la rotta dell’aereo, nei pressi dell’ucraina Dneprodzeržins’k (oggi Kam”jans’ke), intersecava quella del volo CCCP-65816, un altro Tupolev dell’Aeroflot che, dopo essere partito da Čeljabinsk e aver compiuto uno scalo a Voronež, era ripartito alla volta della capitale moldava Chișinău.
Il controllore ordinò al volo Taškent-Minsk di salire fino alla quota di 9.600 metri e ricevette una risposta affievolita: riuscì a sentire la parola Ponjal!, “Ricevuto!”, ma il numero identificativo risultò inintelligibile. Sumskoj suppose che CCCP-65735 avesse ricevuto il suo ordine. Il read back proveniva invece da un terzo aereo, un IL-62 diretto a Taškent. Erano le ore 13, 34 minuti e 33 secondi.
Dopo poco più di un minuto, alle 13, 35 minuti e 38 secondi, CCCP-65735 e CCCP-65816 entrarono in collisione tra di loro con un angolo di novanta gradi e una velocità di 700 chilometri orari, a 8.400 metri di altezza in un’area molto nuvolosa. Pochi istanti dopo un biplano che passava nella zona riferì al centro di controllo: “Controllo Charkiv, c’è qualcosa che sta cadendo”. L’aereo diretto a Chișinău perse parte dell’ala e i piani di coda ed esplose in aria, mentre il pilota del volo diretto a Minsk, nonostante i danni subiti dal velivolo e la perdita di pressurizzazione, riuscì a controllare l’aeroplano per alcuni minuti.
Raggiunta l’altitudine di 4.500 metri, il Tupolev entrò in picchiata, andando a schiantarsi nei pressi del villaggio di Kurilovka. L’incidente costò la vita a 178 persone, tutti gli occupanti dei due aerei: ottantotto passeggeri e sei membri dell’equipaggio del volo Čeljabinsk-Chișinău, settantasette passeggeri e sette membri dell’equipaggio del volo Taškent-Minsk. Tra questi ultimi, figuravano quattordici giocatori della squadra uzbeka del Pakhtakor Tashkent, oltre a tre membri dello staff della squadra, che stava dirigendosi a Minsk per disputare un incontro di campionato contro la Dinamo della capitale bielorussa.
Un laboratorio tattico in Asia Centrale
Il Pakhtakor era stato fondato nel gennaio del 1956 con un nome che significava “coltivatore di cotone”. Fin dalle sue prime stagioni divenne un interessante laboratorio di innovazione tattica nel calcio sovietico: uno dei suoi primi allenatori fu Jurij Chodotov, figlio del famoso attore teatrale Nikolaj Chodotov e membro del consiglio tecnico della federazione di calcio moscovita, diede un contributo significativo allo sviluppo e modernizzazione del sistema tattico della dubl’-ve (il nome russo del WM) che ebbe luogo nella capitale sovietica negli anni Quaranta.
Quando nel 1960 la squadra uzbeka si affacciò per la prima volta al campionato di massima divisione sovietico, lo fece invece agli ordini di Aleksandr Keller: un tedesco del Volga che, deportato a Kirov per la sua etnia, aveva allenato la Dinamo locale nel decennio precedente e che creò una squadra particolarmente offensiva, come raccontato dal giornalista Aleksandr Ljachov: “Credeva nel ‘sistema brasiliano’, il 4-2-4: spostò in difesa Oleg Motorin, un attaccante fisicamente forte, affidandogli il ruolo di libero, e creò una coppia di centravanti capace di terrorizzare i portieri con Gennadij Krasnickij e Stanislav Stadnik”. Sotto la sua guida il Pakhtakor raggiunse il sesto posto nella massima divisione sovietica.
A confermare la vocazione di laboratorio di sperimentazione tattica, nella seconda metà degli anni Sessanta sulla panchina della squadra uzbeka si avvicendarono due tecnici leggendari come Michail Jakušin e Boris Arkad’ev, che portarono avanti l’idea offensiva impostata da Keller. Erano stati loro, negli anni Quaranta, a dare impulso alle innovazioni tattiche che avevano portato al superamento del dubl’-ve dalla panchina della Dinamo Mosca.
Arkad’ev aveva innovato il WM introducendo il cosiddetto “caos organizzato”, una serie di scambi di posizione continui tra i tre attaccanti volto a togliere punti di riferimento alle difese e che lo studioso di calcio sovietico Mario Alessandro Curletto definisce un embrione del calcio totale con cui, alcuni decenni più tardi, l’Ajax di Rinus Michels avrebbe stravolto il mondo del calcio.
Jakušin avrebbe preso il posto proprio di Arkad’ev, estremizzando ulteriormente la vocazione offensiva dinamovista, introducendo un modulo precursore del 4-2-4 e mutuando dall’hockey uno stile di gioco basato sul possesso e su passaggi veloci di prima, chiamato passovočka, con cui avrebbe stupito l’Inghilterra in uno storico tour del 1945.
In Uzbekistan si scontrò contro la necessità di autofinanziare il club: “Il Pakhtakor era una società di sport rurale e difendeva l’onore della fattoria collettiva Kyzyl Uzbekistan. Il presidente una volta mi disse: ‘Compagno Jakušin, per quanto vi lamentiate, non posso dare alla squadra un copeco da parte del kolchoz: siate autosufficienti’. Dovevamo contare ogni copeco: avevamo il programma delle ferrovie e dei voli e sceglievo attentamente le tratte più corte e a buon mercato”.
Sebbene il sesto posto del 1962 non sia mai stato bissato, in quegli anni il Pakhtakor si distinse come una squadra offensiva, capace di segnare tanto con attaccanti come Gennadij Krasnickij, Stanislav Stadnik, Berador Abduraimov e Chamid Rachmatullaev, ma anche molto in difficoltà dal punto di vista difensivo. Agli ordini di un altro innovatore come Evgenij Eliseev, considerato un “esteta” del calcio, avrebbe anche raggiunto la sua unica finale di Coppa dell’Urss, persa 1-0 contro la Torpedo Mosca di Eduard Strel’cov, con Krasnickij che sfiorò negli istanti finali della gara il pareggio che l’avrebbe mandata ai supplementari.
Il ciclo degli anni Sessanta fu irripetibile, ma dopo una retrocessione e un immediato ritorno in massima divisione, il Pakhtakor rimase una presenza stabile nel campionato sovietico degli anni Settanta, lanciando nuovi giocatori come il koryo-saram (i coreani dell’Asia Centrale) Michail An e Vasilis Hatzipanagis, figlio di due esuli greci, poi destinato a diventare una leggenda del campionato greco dopo il suo rocambolesco trasferimento all’Iraklis Salonicco a metà anni Settanta. Una nuova generazione che però venne tranciata dall’incidente nei cieli ucraini del 1979.
Una squadra decimata
Il Pakhtakor aveva giocato la sua ultima partita appena due giorni prima della tragedia: di fronte a 32mila spettatori nel proprio stadio a Taškent contro lo Zarja Vorošilovhrad (squadra dell’odierna Luhans’k) gli uzbeki avevano vinto 3-1. Tutti e tredici i giocatori scesi in campo quel giorno, tre giorni più tardi, avrebbero perso la vita sul volo CCCP-65735.
I giocatori che persero la vita quel giorno furono il portiere Sergej Pokatilov, i difensori Jurij Zagumennych, Nikolaj Kulikov, Alim Aširov e Ravil’ Agišev, i centrocampisti Konstantin Bakanov, Michail An, Aleksandr Korčënov e Vladimir Makarov, gli attaccanti Vladimir Fëdorov, Viktor Čurkin, Sirodžiddin Bazarov, Šuchrat Išbutaev e Vladimir Sabirov. Oltre a loro persero la vita anche il dirigente Mansur Talibdžanov, il medico sociale Vladimir Čumakov e l’allenatore in seconda Idgaj Tazetdinov. Il giocatore più giovane tra le vittime dell’incidente era Bazarov, di appena diciott’anni: avrebbe dovuto viaggiare alcuni giorni prima a Minsk con la squadra riserve, ma si era trattenuto un giorno in più a Taškent visto che il padre era venuto a trovarlo.
I giocatori vennero sepolti con una cerimonia il 17 agosto. La maggior parte fu inumata al cimitero Botkin di Taškent. An fu sepolto in un kolchoz di Sverdlov, mentre Zagumennych e Kulikov vennero entrambi sepolti in Russia: il primo a Leningrado, il secondo presso la casa dei genitori nel villaggio di Krivskoe. In realtà era impossibile il riconoscimento di 186 cadaveri dopo un incidente del genere: al Botkin vennero tumulate solo una manciata di cenere e un mucchio di pietre, chiuse in una bara.
Tre giocatori avrebbero potuto essere su quel volo, se non fossero stati fermati da degli infortuni: Anatolij Mogil’nyj, Tusjagan Isakov e il portiere Aleksandr Janovskij. All’inizio della stagione Janovskij era stato il portiere titolare del Pakhtakor, ma aveva subito un infortunio insolito durante una partita, ricevendo un forte calcio da un attaccante avversario che gli aveva procurato una lesione allo stomaco. Ancora non completamente in forma, il portiere aveva giocato a Minsk due giorni prima per la squadra riserve.
Janovskij, che si trovava ancora nella capitale bielorussa il giorno dell’incidente, ricorda: “Apprendemmo dello schianto il giorno stesso dal secondo Segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista uzbeko. Chiamò l’albergo a Minsk per chiarire la lista dei giocatori che erano sull’aereo e ci disse della tragedia. Fu qualcosa di terribile. Avevo ventisette anni, ma ho ancora di fronte agli occhi una scena terrificante: i nostri giocatori più giovani erano tutti sotto shock”.
Tusjagan Isakov, attaccante con uno status da eroe nazionale in Uzbekistan, si era infortunato gravemente a inizio stagione in uno scontro di gioco col difensore della Dinamo Mosca Aleksandr Novikov. L’infortunio aveva messo fine alla sua carriera calcistica, ma con ogni probabilità gli aveva salvato la vita: quando la Dinamo Mosca si recò a Taškent per disputare la gara di ritorno, Isakov andò a prendere Novikov direttamente all’aeroporto, gli fece dono di un vestito tradizionale uzbeko e ospitò un banchetto in onore del suo “salvatore”.
La casualità avrebbe risparmiato la vita anche all’allenatore del Pakhtakor, l’ucraino Oleg Bazilevič. Lui stesso ricorda: “Ogni volta i ricordi del Pakhtakor sono accompagnati da grande dolore. Sono stato salvato da un colpo di fortuna. Mia moglie e mio figlio erano in vacanza a Soči. Non ci vedevamo da molto tempo, e ho deciso di chiamarli. Mio figlio era ammalato. Ho chiesto dei giorni al capo del comitato sportivo, Ibragimov. Se non mi avesse lasciato partire, sarei partito il giorno successivo con la squadra per la partita di Minsk. Ma Ibragimov mi disse: ‘Oleg, sei da quaranta giorni senza la tua famiglia. Certo, vai a Soči’”.
Anche il giornalista Oleg Jakubov e uno dei massaggiatori della squadra, Anatolij Dvornikov, non viaggiarono quel giorno: la sera precedente avevano festeggiato insieme un compleanno e si erano svegliati tardi, perdendo per qualche minuto l’aereo. Secondo Jakubov, da quel momento alcune persone iniziarono a evitare Dvornikov e, in un’occasione in cui si presentò allo stadio, il massaggiatore venne fischiato. Qualcuno gli gridò: “Alcolista!”. Dvornikov, in tutta risposta, sbottò: “Alcolista, ma vivo!”.
La partita successiva del Pakhtakor contro il Kayrat Alma-Ata, come già quella con la Dinamo Minsk, vennero rinviate all’autunno successivo, ma già dodici giorni dopo l’incidente la squadra uzbeka dovette scendere nuovamente in campo contro l’Ararat Erevan. Le autorità sportive, per sostenere la ricostruzione della squadra, decisero di evitare per tre anni la retrocessione al Pakhtakor a prescindere dal piazzamento in classifica, e le squadre avversarie diedero in prestito i loro giocatori agli uzbeki per permettere alla squadra di arrivare a fine stagione. Undici giocatori arrivarono da dieci squadre diverse dell’Unione: tra di loro anche Jurij Čurkin dello SKA di Rostov sul Don, fratello di Viktor Čurkin, uno dei giocatori deceduti nell’incidente.
Il nuovo Pakhtakor tornò a giocare sul proprio campo di casa a Taškent il 27 agosto, di fronte a 50mila spettatori, contro la Dinamo Tbilisi. Tra i pali del Pakhtakor c’era Janovskij, il portiere sopravvissuto grazie al proprio infortunio, in campo diversi volti sconosciuti. La voce tremante della speaker dello stadio Pakhtakor Roza Muchtarova invitò gli spettatori ad alzarsi e osservare un minuto di silenzio per onorare la memoria dei giocatori morti nello schianto e i giocatori di entrambe le squadre scesero in campo con il nastro nero del lutto al braccio.
La reazione delle autorità
Le autorità sovietiche cercarono di far passare sotto silenzio la tragedia: l’incidente era accaduto di sabato, ma solo il martedì successivo uscirono le prime notizie del disastro aereo su alcuni quotidiani moldavi e bielorussi. Una settimana più tardi Sovetskij Sport diede notizia del funerale dei diciassette tesserati del Pakhtakor senza dedicare grande spazio alla causa delle loro morti.
Vladimir Sumskoj e l’altro controllore del volo in servizio durante l’incidente, Nikolaj Žukovskij, vennero processati e condannati a scontare quindici anni nella colonia penale di Kryvyj Rih. Žukovskij sarebbe in seguito morto suicida, mentre Sumskoj – liberato dopo sei anni e mezzo – dichiarò in un’intervista alla Pravda che, anche se si sentiva responsabile di quanto avvenuto, l’incidente era da addebitarsi in parte al transito nei cieli ucraini dell’aereo del Segretario Generale del Pcus Leonid Brežnev, diretto verso la sua residenza estiva in Crimea.
Al fine di agevolare il volo, i controllori del traffico aereo ucraini avrebbero ricevuto istruzioni di lasciare libera la rotta dell’aereo di Brežnev, dirottando il traffico aereo sugli unici due corridoi aerei disponibili, nei cieli di Dneprodzeržins’k, attraversati quel giorno da circa 700 voli diversi. Sumskoj raccontò che dodici velivoli si trovavano nel momento dell’incidente in uno spazio aereo molto ristretto e che la situazione era sfuggita “oltre il controllo umano”.
Cinque anni più tardi un ex ufficiale ispettore della sicurezza del traffico aereo dell’era sovietica, Valentin Dudin, diede una versione dei fatti contrastanti da quella di Sumskoj in un’intervista con Sovetskij Sport: “Si tratta di un’invenzione di qualche giornalista poco scrupoloso. Brežnev aveva volato a sud passando per quell’area, ma l’aveva fatto due giorni prima”.
Dudin addebitò l’incidente a quattro fattori: la negligenza di Žukovskij – secondo lui controllore di volo inesperto rispetto a Sumskoj – che aveva accordato all’aereo diretto a Minsk il permesso di salire fino a quota 8.400; le nuvole e la pioggia che impedirono ai due aerei di vedersi in tempo per cambiare quota ed evitare la collisione; la strumentazione radar non all’altezza; infine, l’incomprensione fatale sul read back arrivato dal terzo volo. Secondo Dudin, Sumskoj aveva tenuto un comportamento dignitoso durante il processo, mentre Žukovskij “aveva un avvocato a trentadue denti, che gli disse di dare la colpa di tutto a Sumskoj”.
Dudin inoltre smentì le voci secondo cui una donna, madre di un bambino morto nello schianto, si fosse presentata in aula con un’ascia per vendicare la morte del proprio caro. Diversi documenti legati al processo sono tuttora inaccessibili, anche alle famiglie delle vittime: una circostanza che ha alimentato le teorie più disparate su quanto avvenuto e che ha contribuito a dare credibilità all’ipotesi collegata al viaggio di Brežnev.
La squadra, alcuni mesi prima, aveva vissuto già una pessima esperienza di volo durante un viaggio in Indonesia: in quell’occasione l’aereo era incappato in una severa turbolenza e la vicenda aveva lasciato alcuni tra i giocatori e lo staff scossi e preda di incubi. Poco prima dello scontro Vladimir Makarov aveva sognato di trovarsi di fronte a uno specchio e di perdere tutti i capelli.
Mansur Talibdžanov, dirigente della squadra, fu assalito nella notte precedente al volo da un’ansia inspiegabile, come raccontò in seguito la vedova: “Era molto nervoso. Non abbiamo dormito tutta notte. Mi ha chiesto una tazza di tè, poi una fetta di anguria. Ha cominciato a ricordare la sua infanzia, quando giocava, quando studiava da giovane e aiutava i suoi genitori. Mi ha raccontato tutta la sua vita”.
Al momento della partenza la moglie del capitano del Pakhtakor Aleksandr Korčënov, l’autore dell’ultima rete degli uzbeki prima della tragedia, era disperata. Pianse, supplicò il marito di non andare a Minsk. Korčënov le fece coraggio, dicendole che sarebbe stato via solamente tre giorni. Poi uscì di casa e, prima di salire in macchina, alzò la mano sollevando tre dita, come a dire: “Mancherò solo tre giorni”.
Michail An, centrocampista della squadra, era infortunato a un piede e non sarebbe dovuto partire, ma il secondo allenatore Tazetdinov aveva deciso di rischiare e portarlo, mettendo così An sul tragico volo CCCP-657357. Si racconta che un bambino zingaro avesse predetto ad An che sarebbe morto durante un volo, e per questo il giocatore era riluttante a prendere aerei: teneva gli occhi chiusi prima di ogni decollo e durante il volo i suoi compagni di squadra dovevano giocare a carte con lui per distrarlo. Quando prese il volo per Minsk era in attesa del secondo figlio.
Quella del Pakhtakor è una storia costellata di tragedie, anche dopo l’incidente aereo: uno dei suoi nomi più storici, Gennadij Krasnickij, attivo negli anni Sessanta e poi passato brevemente sulla panchina del club come allenatore durante gli anni Settanta, era un attaccante sul cui conto è attribuita una frase apocrifa di Lev Jašin. Il ragno nero avrebbe avuto un enorme rispetto per l’attaccante uzbeko, al punto da dichiarare che “ogni volta che Krasnickij si accinge a battere una punizione, o irrompe repentinamente nella zona di attacco, il mio cuore è angosciato”.
Un giocatore dotato di un tiro potente, capace di colpire il pallone con forza quasi senza muovere la gamba, ma anche dotato di grande visione tattica. Il tutto, però, appaiato con un carattere cupo e scontroso e con l’amore per la bottiglia, che gli costarono anche la perdita della fascia da capitano. Si sarebbe tolto la vita nel 1988, a 48 anni, gettandosi da un balcone. Le autorità sportive, secondo il giornalista Fëdor Razzakov, cercarono di impedire il suo funerale, ma i suoi vecchi compagni di squadra ignorarono il divieto e presero in spalla il feretro perché potesse fare un giro d’onore allo stadio Pakhtakor.
D’altronde la storia del Pakhtakor è segnata anche da un terremoto, il sisma che il 26 aprile 1966 colpì la città di Taškent, causando una decina di morti e un migliaio di feriti, con il crollo di 28mila edifici che lasciò oltre 100mila senzatetto. Nonostante fosse un martedì, quel giorno era prevista una partita di campionato tra il Pakhtakor e la Dinamo Minsk. Sorprendentemente, a poche ore di distanza dal terrore del terremoto, lo stadio si riempì di 50mila tifosi che poterono festeggiare la prima vittoria stagionale.
Raccontava il giornalista uzbeko Vladimir Safarov: “In alcuni momenti sotto i miei piedi sentivo tremare la terra. Chissà cosa potesse ancora avere in serbo la potenza della natura? I tifosi, però, discutevano allegramente le vicissitudini della partita di calcio. Non era una gioia incosciente, sentivano una serena fiducia che tutto sarebbe andato bene. Fu una vittoria capace di riflettere vividamente il coraggio e la resistenza, la dedizione e la perseveranza, l’amore per la propria città nativa. In breve, tutto ciò che definisce il carattere di Taškent”.
Altre storie tragiche costellano la storia della squadra uzbeka. Oleg Motorin, l’attaccante divenuto libero a inizio anni Sessanta, ebbe una storia segnata dall’indisciplina e dall’amore per la bottiglia. Nel 1963 il giocatore divenne il capro espiatorio per la retrocessione della squadra e gli venne comminata una squalifica di un anno, inizialmente sospesa per poi divenire un’espulsione definitiva dalla squadra.
Due anni più tardi la federazione uzbeka, per motivi che non vennero mai chiariti, lo squalificò da qualsiasi competizione a livello nazionale, repubblicano e locale. Le sue tracce si persero fino alla sua morte nel 1978, a soli 41 anni. Un’altra leggenda della squadra è Chamid Rachmatullaev, insieme a Krasnickij uno dei temibili attaccanti del Pakhtakor degli anni Sessanta: avrebbe perso la vita in un incidente stradale nel 1978, ad appena 36 anni.
Rachmatullaev era stato compagno di squadra di Idgaj Tazetdinov, l’allenatore in seconda della squadra che nel 1979 perse la vita nell’incidente aereo: era stato uno dei primi giocatori del Pakhtakor, nominato capitano della squadra nel 1958 e bandiera della squadra a cui avrebbe legato il proprio destino. Mediano di grande esperienza tattica e sapiente nella gestione del gioco, venne paragonato per stile di gioco a due leggende come Bobby Charlton e Igor’ Netto.
Lo definirono futbolist-džentl’men, trener-erudit, “calciatore gentleman, allenatore erudito” e tale era il suo impegno e la sua ossessione per il calcio che i suoi compagni di squadra scherzavano dicendo che si stirasse le stringhe degli scarpini prima di scendere in campo. Dopo aver allenato la squadra del Politotdel, distinguendosi per la sua signorilità e l’eleganza impeccabile, nel 1977 venne richiamato dal Pakhtakor in qualità di allenatore in seconda. La vedova, Alla Tazetdinova, ricordò: “Si illuminò, letteralmente, era contentissimo di aver ricevuto una richiesta dalla squadra della sua gioventù. Voleva far rivivere le vecchie tradizioni”.
Alcune notti prima di imbarcarsi sul volo per Minsk, Tazetdinov aveva sognato di incontrare Rachmatullaev. Nel sogno Tazetdinov chiedeva all’ex compagno: “Dove sei?” e Rachmatullaev gli rispondeva: “Sto mettendo insieme una squadra per giocare a calcio”. Tazetdinov aveva 46 anni quando perse la vita nell’incidente aereo. La vedova raccontò alla Komsomol’skaja Pravda: “Ho la sensazione che, anche se non fosse salito su quel volo, non sarebbe sopravvissuto alla tragedia. Il suo cuore non l’avrebbe sopportato, amava tutti i giocatori come fossero suoi figli”.
Giornalista sportivo con lo sguardo rivolto a est e al calcio lontano dai riflettori, video editor e presentatore per la app OneFootball. Ha ideato il podcast Lokomotiv e il documentario Petrolul Nu Moare e ha vissuto tra Como, Roma, Bucarest e Berlino. Tra le collaborazioni passate: Avvenire, Il Giorno, Radio 24, The Blizzard, When Saturday Comes, East Journal, Kosovo 2.0.