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Eravamo molto legati con Michail An. Quando con la nazionale giocavamo fuori dall’Unione Sovietica, Miša non acquistava mai niente per se stesso. I regali erano tutti per sua moglie e per i bambini. Quando si è in grado di dare così tanto amore, meriti solo tutto il mio rispetto. Aveva un grande talento come calciatore ed è stato anche un grande uomo.
A pronunciare queste parole è Davit Kipiani, indiscusso campione e stella georgiana della nazionale dell’Unione Sovietica. Purtroppo An non è mai riuscito a raggiungere il livello del compagno georgiano, perché l’11 agosto del 1979 l’aereo a bordo del quale viaggiava insieme a tutta la squadra del Pakhtakor Tashkent si scontrò con un Tupolev vicino a Dniprodzeržins’k (l’attuale Kam’’jans’ke), nell’allora Repubblica socialista sovietica di Ucraina. In totale persero la vita 189 persone. La squadra uzbeca fu letteralmente spazzata via e con lei i sogni del più grande giocatore koryo-saram della storia.
Chi sono i koryo-saram
Koryo-saram è il modo in cui si riferiscono a se stessi i coreani di Russia. Koryo significa coreano, saram significa persone o gente. La loro storia inizia verso la fine dell’Ottocento quando molti coreani abbandonano la propria terra d’origine, diretti verso la fascia costiera della Russia orientale. Questo flusso aumenta anche a causa dell’occupazione giapponese della Corea e delle ribellioni di fine anni Dieci e delle loro relative repressioni. Mentre in patria ci sono i giapponesi, qualcosa cambia anche nella nuova terra, dove nel 1917 i bolscevichi sono saliti al potere, mutando radicalmente il paese. Tuttavia l’onda lunga della Rivoluzione d’Ottobre non sconvolge particolarmente le vite dei koryo-saram fino agli anni Trenta: c’erano scuole e giornali in lingua coreana.
L’anno di svolta è il 1937, quando il Giappone invade la Manciuria e la minoranza coreana in Urss viene accusata di collaborazionismo. La reazione è la deportazione verso l’Asia centrale, in particolare verso l’Uzbekistan e il Kazakhstan. L’arrivo nella nuova terra costò moltissimo ai koryo-saram, sia in termini di povertà, che di vite umane. Il viaggio su treni affollatissimi, stipati, senza acqua fu seguito dall’arrivo in lande desolate, dove dovettero costruire tutto quasi da zero e dove venivano continuamente spiati dalla polizia segreta. Le fattorie nelle quali vivevano divennero una sorta di prigione, perché non potevano allontanarsi, inoltre fu vietato l’uso del coreano e l’accesso alla leva militare e allo studio di materie scientifiche. Questo stato di cose andò avanti fino alla morte di Stalin: un anno dopo la segregazione terminò.
Michail An, l’infanzia e gli esordi
Quando il “georgiano d’acciaio” lascia questo mondo, Michail An ha solo un anno. Nasce in una famiglia che ama il calcio. Il padre ha praticato questo sport a livello non professionistico e il fratello Dmitrij sembra avere davanti un futuro promettente. Miša muove i primi passi nella squadra della fattoria collettiva (kolchoz) intitolata a Sverdlov, dove è cresciuto. Chi lo osserva ne riconosce subito il talento: ha una visione di gioco fuori dal comune, ma è fisicamente troppo gracile. Questo limite scoraggia le squadre maggiori ad ingaggiarlo. A sedici anni esordisce in prima squadra nel Politotdel, dove giocava anche il fratello maggiore. Ci vogliono altri tre anni, ma alla fine il Pakhtakor lo nota e lo mette sotto contratto. La squadra di Taškent è da sempre la più importante dell’Uzbekistan, vero trampolino di lancio per arrivare a calcare i campi più importanti di tutta l’Unione Sovietica. Quando An indossa la maglia dei giallo-blu non ha ancora vent’anni.
La prima stagione è un discreto fallimento e si chiude con la retrocessione. Nel nuovo contesto, in seconda divisione, An si trova molto a suo agio. I ritmi sono più bassi e gli avversari più modesti. An ha modo di crescere e diventare più completo, senza particolari pressioni esterne. Piano piano prende in mano le redini del gioco: il 1972 segna la sua definitiva consacrazione. Il Pakhtakor torna in prima divisione e gli artefici della promozione sono i due attaccanti: Vladimir Fedorov e Vasilis Hatzipanagis. Ma ad innescarli è sempre lui: Michail An.
Gli anni Settanta
Gli anni Settanta sono quelli che regalano il talento del koryo-saram agli appassionati di calcio sovietici. An diventa quasi una mezzapunta, inizia a segnare molto e il Pakhtakor si classifica ottavo, sfiorando la qualificazione alla Coppa Uefa. Arrivano anche i riconoscimenti personali e Miša è inserito nella lista dei 33 migliori calciatori del paese: per l’epoca è un traguardo molto ambito.
Nel 1974 cade il Regime dei Colonnelli in Grecia. Hatzipanagis ha finalmente la possibilità di tornare a casa, nella terra dei suoi genitori. Per farlo però deve lasciare il Pakhtakor e inceppare quella macchina perfetta che si è venuta a creare con An. Alla fine però il richiamo di Salonicco è troppo forte e l’ala firma con l’Iraklis, diventando una leggenda del calcio greco. Sarà una scelta di cuore, che lo legherà per sempre alla squadra bianco-blu. Ogni volta che si paventerà la possibilità di cederlo, i suoi tifosi scenderanno in piazza e faranno pressioni sulla dirigenza affinché il campione rimanga. Su An ricadono tutte le responsabilità e le pressioni di una squadra indebolita. Arriva la retrocessione e anche gli anni successivi non sono esaltanti, mancando la promozione per due stagioni consecutive. An predica nel deserto, regala ottime prestazioni, ma non può fare tutto da solo.
La sua bravura però viene notata e viene convocato dall’Unione Sovietica per gli Europei Under 23. Il torneo è un trionfo per i sovietici, che escono vincitori. Vincono il gironcino di qualificazione contro la Turchia, poi battono la Francia ai quarti e i Paesi Bassi in semifinale. L’ultimo incontro li vede contrapposti ai magiari. All’andata è 1-1, ma al ritorno l’Urss si impone per 2-1 portando a casa il titolo. Michail An è il faro di questa nazionale e uno dei migliori giovani in Europa. Nel 1978 riporta il Pakhtakor in prima divisione e parte per gli Usa al seguito della nazionale olimpica. Non è un luogo qualsiasi, il potere simbolico di quella trasferta è fortissimo. An è il migliore, riceve il premio dalle mani di Henry Kissinger in persona. L’8 febbraio 1979 “Soccer America”, il principale settimanale calcistico americano, gli dedica la copertina. È l’apice della sua carriera.
Il disastro aereo
Ad agosto, durante una partita di campionato contro lo Zorja Luhans’k, An si infortuna ed è costretto ad abbandonare il campo. Il suo rientro per la partita seguente contro la Dinamo Minsk è in forte dubbio. Il 9 agosto, Miša incontra il fratello a Taškent, per pranzare insieme e fare due chiacchiere. Michail mette al corrente il fratello che vuole tornare qualche giorno alla fattoria collettiva, per stare con la madre e rilassarsi pescando. Parla molto del futuro. Il giorno successivo Michail va al kolchoz Sverdlov, passa del tempo con i nipoti e incontra la madre, alla quale è molto legato. La donna è rimasta vedova abbastanza giovane, ma invece di chiudersi in se stessa è diventata il motore della famiglia, appoggiando anche la scelta dei figli di diventare calciatori. Quel giorno Miša e la madre passano molto tempo insieme, parlano e guardano vecchie foto di famiglia. L’11 agosto, An va in aeroporto a salutare la squadra. Da vero capitano vuole trasmettere ai compagni l’attaccamento alla maglia. È un momento forte e i ragazzi insistono perché vada con loro, anche se non può giocare. Alla fine lo convincono.
Il giorno successivo, Klara Romanovna An riceve una telefonata da Ergaš Aka, l’autista del Pakhtakor e amico della famiglia. Vuole informare Miša di una notizia tremenda: c’è stato un incidente aereo. La moglie non sa dov’è il marito, ma si mette subito a cercarlo. Coinvolge nella ricerca anche il fratello. Qualche ora dopo è proprio lui a ricevere la notizia: per senso di responsabilità e attaccamento alla squadra, Michail è partito insieme ai compagni. Al momento dell’impatto aveva solo 26 anni e sua moglie stava aspettando il loro secondo figlio.
Per volere della madre Miša è stato sepolto nella fattoria di Sverdlov. Quando suo fratello andò ad acquistare una lapide per la tomba, gli operai capirono chi era stata la persona per cui avrebbero dovuto realizzare l’opera. Non vollero soldi e anzi ringraziarono Dmitrij, abbracciandolo. Per loro Michail An era stato un eroe, un idolo e quello era il miglior modo per renderne eterno il ricordo. Nel 2020 è uscito un documentario dal titolo: “Misha”, che racconta le gesta di un calciatore straordinario e di un grande uomo.
Autore dei libri “Questo è il mio posto” e “Curva Est” - di cui anima l’omonima pagina Facebook - (Urbone Publishing), "Predrag difende Sarajevo" (Garrincha edizioni) e "Balkan Football Club (Bottega Errante Edizioni), e dei podcast “Lokomotiv” e “Conference Call”. Fra le sue collaborazioni passate e presenti SportPeople, L’Ultimo Uomo, QuattroTreTre e Linea Mediana. Da settembre 2019 a dicembre 2021 ha coordinato la redazione sportiva di East Journal.