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Pola Slavonije otišlo da se spasi, tko zadnji ode neka svijetlo gasi.
Miroslav Mita Jerković – Slavonija moja
Metà della Slavonia se n’è andata per salvarsi, chi se ne va per ultimo spenga le luci.
La frase riportata è parte di una poesia scritta da un cittadino di Osijek andata virale sui social qualche anno fa. Rappresenta uno sfogo, un triste richiamo dei giorni passati in una città che sta lasciandosi scivolare tra le dita il suo popolo.
Slavonia, la regione più povera della Croazia. Non fortunata come l’Istria, con il suo mare cristallino o come la Dalmazia, con spettacolari monti carsici a picco sul mare. È una terra ricca di campi e spazi aperti, una regione rurale e silenziosa, dove si ha la fortuna di respirare l’autenticità dei popoli che la abitano. La natura ha tanto da dire sull’anima di questi luoghi dove il paesaggio non cambia, si ripropone continuamente, dando l’impressione di una sospensione eterna. Osijek, il capoluogo della Slavonia, è il centro nevralgico di queste pianure; eppure, per le strade poche persone, la malinconia e l’abbandono fanno da protagoniste a fianco alle vivide testimonianze della guerra.
Osijek è la città sulla Drava
Osijek è la città sulla Drava. Se dovessimo sceglierne un simbolo non potrebbe che essere il fiume che le scorre accanto e su cui la città stessa è stata concepita e si è plasmata. La Drava è un fiume fatalmente sedotto dal richiamo d’Oriente e, come noi, partendo dall’Italia, scorre lungo la penisola balcanica portando con sé le ricchezze dei luoghi esplorati. Qui si trasforma assumendo un nuovo spirito che la trascina irrimediabilmente, tagliando tutta la regione di Osijek e della Baranja, verso le acque del grande baluardo d’oriente, il Danubio. La Drava è la prima testimone della città, ne custodisce la memoria e su di essa vi si affacciano i suoi luoghi più simbolici.
Tra questi emerge come segno di quel legame profondo tra la città e il fiume, la Tvrđa, la cittadella, la fortezza di Osijek, che affonda le proprie radici nel periodo austro-ungarico. Con i suoi imponenti bastioni e il suo ruolo difensivo è stata per secoli il simbolo della potenza militare nella regione, oltre a essere ricca di beni culturali, come chiese e musei.
La Tvrđa, la cittadella, la fortezza di Osijek (Meridiano 13/Gianni Galleri)
È proprio questa ricchezza, il profilo barocco dei suoi edifici, a creare un netto contrasto con i colpi di artiglieria che hanno stampato su pareti e finestre la memoria di una guerra che non vuole essere dimenticata. Passeggiando per le sue vie, con una pavimentazione che riprende i sampietrini, si ostina un alternarsi di palazzi restaurati ad altri tristemente deteriorati.
La guerra fa parte della vita di Osijek
La guerra ha colpito fortemente Osijek per il suo ruolo emblematico e strategico. La città, infatti, è situata su due importanti assi: la Podravska Magistrala, una via di comunicazione chiave per l’est-ovest della Croazia e il suddetto fiume Drava. Questi la rendevano un punto cruciale per il controllo territoriale, nonché snodo essenziale per l’avanzata delle forze serbe verso Zagabria. Infatti, dal luglio 1991, divenne il comando centrale della difesa della Croazia orientale attraverso il Comando ZNG per la Slavonia orientale; analogamente, per le forze federali, Osijek ospitava la sede del quartier generale della Guarnigione della JNA e della 12ª Brigata Meccanizzata Proletaria.
Monumento dedicato alla Fićo rossa (Meridiano 13/Gianni Galleri)
Inoltre, la popolazione oltre a una maggioranza croata presentava una significativa presenza serba (il 20% dei cittadini all’interno del comune). Tutto ciò fece sì che, allo scoppio della guerra, la città si spaccò in due. Il 25 giugno 1991 la Croazia si proclamò indipendente e ne seguì un’immediata reazione della Grande Assemblea Popolare dei Serbi di Slavonia, Baranja e Srem Occidentale che si rifiutò di riconoscere tale indipendenza e dichiarò che il popolo serbo della regione sarebbe rimasto parte integrante della federazione jugoslava.
Due giorni dopo, il 27 giugno, la JNA effettuò una dimostrazione di forza a Osijek: la città venne attraversata dai carri armati. Branko Breškić, cittadino croato, posizionò di traverso, lungo il corridoio dei blindati, la sua macchina, una “Fićo” rossa. Il veicolo venne completamente distrutto da un carro armato che proseguì senza esitazione. Questo episodio divenne iconico dopo la guerra, tanto da ispirare un memoriale in cui la scena è stata rappresentata a parti invertite, come simbolo della resistenza croata.
I luoghi di culto della città
Altro aspetto di particolare rilevanza della guerra fu quello religioso. Gli edifici e le immagini sacre furono considerati bersagli privilegiati in quanto simboli di una collisione identitaria politicizzata tra croati cattolici e serbi ortodossi. In città, quasi tutti gli edifici cattolici furono distrutti. Tra questi spicca sicuramente la Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, emblema della comunità croata e punto di riferimento per la sua posizione centrale.
La cattedrale, esterno (M13/Gianni Galleri)La cattedrale, interno (M13/Gianni Galleri)
Possiamo ritrovare diversi segni della guerra a Osijek: nitidi sfregi dei colpi di artiglieria, ma anche diverse riparazioni e ricostruzioni di una città che vuole dare vita a una nuova storia, a un nuovo inizio. La direzione è chiara, questa nuova Osijek si veste di scacchiera bianco-rossa.
Nonostante sia una città di frontiera, la cui storia si lega indissolubilmente a quella del popolo serbo, la guerra ha portato come conseguenza uno dei cali più drastici di cittadini serbi di tutta la Croazia e una città che guarda quasi del tutto verso Zagabria.
Il calcio come strumento identitario
Però, oltre ai colori nazionali, Osijek è largamente dipinta di blu: il Nogometni Klub Osijek, in divisa bianco-blu, completa l’identità di questa città. Murales e icone ricoprono le pareti di diverse vie, piazze e spazi pubblici, spesso portando una riqualificazione urbana che è frutto del lavoro della tifoseria, specialmente dal suo gruppo ultrà, i Kohorta. Il loro nome deriva dal latino “cohors” ovvero le coorti romane, un nome che vuole richiamare le formazioni legionarie e soprattutto vuole sottolineare la compattezza del gruppo e il senso di appartenenza proprio di ciascun membro.
Dok na našoj zemlji stoje neka nas se boje (“Finché rimarranno sulla nostra terra, avranno paura di noi”), una delle frasi che troviamo impresse sul lato di un condominio, è uno dei tanti ritorni a un passato che persiste nel tempo presente, dove i Kohorta si fanno portavoce di una memoria collettiva che, come abbiamo visto, va ben oltre il calcio.
In tal senso, è emblematico l’imponente murale a tutta parete situato con su scritto Svaka naša žrtva opomena naka bude. Zaborava nema uzalud se trude (“Ogni nostra vittima sia un monito. Non c’è oblio, si sforzano invano”) con le due frasi che fanno da cornice al simbolo di Vukovar, la torre dell’acqua devastata dall’artiglieria durante la guerra.
Un murale dei tifosi dell’Osijek (Meridiano 13/Gianni Galleri)
Il suo messaggio è immediatamente potente, anche senza conoscere a fondo la storia: rappresenta un grido contro l’indifferenza atto a non dimenticare le vittime della guerra e le sue devastazioni, sottolineando come l’indipendenza sia stata pagata a caro prezzo, specialmente qui, nelle terre di frontiera, avamposti del popolo croato. Inoltre, vuole essere una sfida verso tutti coloro che vogliono cercare di cancellare, sminuire o travisare la storia. È chiaro quindi che questi murales non sono la semplice manifestazione di fede sportiva, ma veri e propri atti di identità territoriale e culturale, dove la città, diventa una tela urbane dove imprimere la loro voce.
A Osijek vi è quindi la necessità di creare una distanza simbolica con i serbi: mentre le sofferenze della maggioranza croata durante la guerra sono oggi riconosciute e rappresentate pubblicamente attraverso diversi memoriali, i traumi vissuti dalla comunità serba restano oscurati nel discorso dominante. Anche la presenza e l’esposizione di simboli e pratiche culturali serbe o l’uso dell’alfabeto cirillico non vengono ben viste e provocano senso di insicurezza e di rifiuto nella minoranza.
La narrazione pubblica della storia entro il paesaggio cittadino, oltre all’educazione scolastica, sancisce un discorso politico e sociale volto alla stereotipizzazione e la marginalizzazione che senza il dovuto dialogo e la dovuta volontà di integrazione, crea un terreno fertile per la crescita dei contrasti e delle tensioni, mantenendo le ferite della guerra aperte e ignorando il sangue che continua a scorrere.
*Tommaso Landucci è studente magistrale di Scienze per la Pace presso l’Università di Pisa, nel curriculum di regolazione pacifica di conflitti e terrorismo. Si occupa di dinamiche sociali e culturali nello spazio post-sovietico e balcanico, con particolare interesse per le società del Caucaso e della penisola dei Balcani. Viaggiatore indipendente, esplora i territori marginali attraverso un approccio dal basso, attento alle narrazioni locali e alle forme di resistenza.