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A Srebrenica fu genocidio, non un massacro

di Nermin Fazlagić *

Come ogni anno, arriva il fatidico 11 luglio. Per la maggior parte del mondo è una data senza alcun significato particolare, di cui forse si ricordano solo coloro che nel 1995 avevano già abbastanza anni per guardare i telegiornali senza annoiarsi.

L’11 luglio del 1995 iniziò infatti l’esecuzione del genocidio di Srebrenica, una piccola cittadina della Bosnia orientale (Europa) che durò per alcuni giorni e si concluse con la portata a termine del piano di sterminio di massa degli abitanti di fede musulmana. Ritengo che siano stati scritti già tanti libri, articoli, interviste e girati perfino film vincitori di prestigiosi premi internazionali sul tema quindi per chi volesse informarsi su cosa accadde, perché accadde ma soprattutto come poté accadere nel bel mezzo dell’Europa a poche centinaia di chilometri da Trieste e Vienna nello stesso anno in cui usciva Windows 95 e un anno dopo che Baggio sbagliò il fatidico rigore contro il Brasile, di materiale ce n’è abbastanza. Basta voler informarsi.

Se vuoi leggere altri articoli sul genocidio di Srebrenica:
- “Il destino di Srebrenica probabilmente era già segnato”
- Ivica Đikić: “Ancora non sono riuscito a capire il perché di Srebrenica”
- “A come Srebrenica”. Un monologo-testimonianza di Roberta Biagiarelli

Quello su cui voglio soffermarmi nell’articolo di oggi, il valore aggiunto che vorrei lasciare ai lettori, è l’importanza di chiamare le cose per quello che sono senza giri di parole.

L’11 luglio 1995 si compì il genocidio di Srebrenica, punto. Non il massacro, non la strage.

Aggiungo che questo non l’ho detto io ma il Tribunale Internazionale dell’Aia come anche il Parlamento e la Commissione Europea, il Congresso degli USA ed altri. Purtroppo, da decenni vi è un revisionismo dilagante, perfino supportato da alcuni Stati nei confronti del genocidio di Srebrenica ma anche della guerra in Bosnia ed Erzegovina in generale.

Nonostante le pallottole fossero state sparate verso i civili inermi l’11 luglio del 1995, la condanna a morte di migliaia e migliaia di bosgnacchi, per il solo fatto di essere musulmani (che nella pratica voleva dire avere un nome vagamente orientaleggiante, indipendentemente da quanto alcool bevessero o quante volte al giorno pregassero rivolti verso la Mecca), fu stabilita mesi e mesi prima. Ed è questo il punto che non smetteremo mai di ripetere. Le truppe di Ratko Mladić, il cui capo politico era Radovan Karadžić, non uccisero quelle migliaia di civili perché “nelle guerre queste cose succedono”, perché “è normale che anche dei civili possano morire nelle guerre” né tantomeno perché “bande di soldati presi dal fervore compirono scelleratezze che succedono in tutte le guerre”.

Le truppe della Republika Srpska, l’esercito dei serbo bosniaci che entrarono a Srebrenica, enclave protetta dai caschi blu delle Nazioni Unite nel 1995, fecero quel che fecero seguendo dei dettagliati e precisi ordini che furono sviluppati nei mesi precedenti. Ogni soldato dell’esercito serbo, ogni autista di camion, ogni ufficiale sapeva quale fosse il suo ruolo una volta entrato a Srebrenica. C’erano i soldati incaricati di radunare gli uomini e i ragazzi, c’erano quelli incaricati di caricarli sui camion, gli autisti incaricati di portarli nei luoghi dove sarebbero stati uccisi, quelli incaricati di preparare le munizioni, ed infine, quelli incaricati di caricare i cadaveri il più lontano possibile, lontano dagli sguardi, non sia mai che qualcuno possa poi chiedersi dove siano scomparsi più di 8000 civili in 3-4 giorni.

Per quanto sia macabro dare livelli di gravità ad eccidi di massa, e per quanto ogni vittima inerme meriti il nostro rispetto e silenzio, quello che il mondo ha riconosciuto come il peggiore dei crimini contro l’umanità dopo la Seconda guerra mondiale è il crimine del genocidio, ovvero l’uccisione di massa, volontaria, predeterminata, pianificata e realizzata con ingenti risorse logistiche di un gruppo di persone per il solo fatto di appartenere a questo gruppo da un determinato luogo affinché non possano mai più ivi riprodursi. Questo è il genocidio. Ed è questo e nient’altro che è successo a Srebrenica.

Io sono nato a Sarajevo e ho lasciato la mia città natale dopo che i soldati serbi dell’esercito della Republika Srpska incominciarono a stilare le liste dei bosgnacchi dell’area che avevano occupato, dove abitavamo. Anche io e la mia famiglia eravamo portatori di quel peccato mortale, dell’avere quei nomi troppo orientaleggianti. Mio padre ebbe la prontezza di capire che dovevamo andarcene immediatamente, lasciando alle spalle ogni ricordo e ogni avere e questo suo gesto ci salvò la vita. Grazie alla sua prontezza, ora vivo in Italia, il Paese che mi ha istruito e dato la possibilità di farmi una nuova vita, ma altri non furono così fortunati rimanendo a Sarajevo, città che fu assediata per 3 anni e dove morirono più di 10.000 persone.

E tuttavia, nonostante sia pieno di dolore e tristezza per quello che accadde a Sarajevo, la mia città, dove morirono in 3 anni più persone che a Srebrenica, nessuno né tantomeno io parlo del genocidio di Sarajevo, ma dell’assedio di Sarajevo.

Nonostante il fatto che ogni bomba che cadde su Sarajevo rimarrà sulla coscienza dell’Europa e del mondo per sempre, nell’assedio di Sarajevo mancarono i presupposti per definire da un punto di vista legale quell’assedio come un genocidio. Il piano dell’assedio di Sarajevo era stremare e portare alla resa gli assediati. Se si fossero arresi, forse si sarebbe poi compiuto un genocidio ma l’intervento della NATO e poi la firma degli accordi di Dayton fermarono l’assedio della città.

Il piano del genocidio di Srebrenica doveva invece fare in modo che mai più potesse vivere un solo bosgnacco, o mussulmano bosniaco a Srebrenica. Non a caso Mladic descrisse il suo ingresso a Srebrenica come un dono al popolo serbo, che ora, finalmente, si sarebbe liberato di quella presenza così ingombrante.

Che nessuno mi parli di “massacri che capitano nelle guerre” se c’erano camion pronti con il motore acceso a portare il carico di cadaveri verso fosse comuni già pronte sui monti di Srebrenica. Che nessuno mi parli di “massacri che capitano nelle guerre” se nel momento stesso dell’entrata delle truppe serbe a Srebrenica si incominciò con la deportazione pianificata di uomini e ragazzi. Che nessuno mi parli di “massacri che capitano nelle guerre” se le truppe di Mladić incominciarono a preparare diligentemente in maniera metodica le palestre, i capannoni, per il rastrellamento di uomini che sarebbe a breve arrivato.

Da ultimo, nel clima dilagante di revisionismo, spesso chi vuole riabilitare Mladić e Karadžić mette in luce che “le donne però si salvarono” (come se uccidere civili maschi in maniera industriale fosse una cosa normale e accettabile). Certo, molte di quelle che non furono stuprate con il sostegno delle telecamere delle troupe televisive mondiali riuscirono a salvarsi. Ma un genocidio ha successo quando impedisci la riproduzione di un determinato gruppo di persone su un luogo. Uccidendo e sterminando tutti i maschi bosgnacchi di Srebrenica, hai già portato a termine il tuo piano, perché senza maschi è solo una questione di tempo prima che ogni traccia del popolo bosgnacco scompaia definitivamente.

Chiamando le cose per quello che sono, non stiamo sminuendo altri genocidi, che ogni persona ivi incluso il sottoscritto, riconoscono aver avuto numeri ben maggiori. L’olocausto ha avuto numeri ben maggiori, una portata ben maggiore e un piano logistico di realizzazione ben maggiore e questo è fuori ogni discussione. Ma di base, la volontà genocidale e la necessità di un impiego e sforzo logistico pianificato, configurano entrambi come dei genocidi.

Al contrario, penso che sia proprio lottando contro il revisionismo storico e la relativizzazione del genocidio che portiamo onore ai caduti, perché l’unica cosa che quei morti ci chiedono è di non lasciare che la loro morte sia stata invano, ma che ci abbia insegnato qualcosa.

E la domanda è: abbiamo imparato?

Foto: Wikipedia

* Nermin Fazlagić è attualmente il presidente della Comunità Islamica dei Bosniaci in Italia (CIBI), il ramo italiano della Comunità Islamica in Bosnia ed Erzegovina, la più antica istituzione islamica sul suolo europeo, fortemente impegnata nel dialogo interreligioso. È anche uno dei fondatori dell’Associazione Culturale Bosniaca STEĆAK di Verona, impegnata nel creare ponti tra culture e generazioni diverse.

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Redazione
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