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Paesaggi fluviali scomparsi: il patrimonio ecoculturale delle minoranze di Ada Kaleh e del lago d’Aral

Nel corso della storia, l’intervento umano sul patrimonio fluviale a fini di sviluppo economico ha determinato conseguenze quasi sempre disastrose per le sorti degli ecosistemi locali, e spesso anche per la diversità culturale dei territori coinvolti. In molti casi, a pagarne le conseguenze sono stati gruppi minoritari vulnerabili, la cui sopravvivenza come comunità etnolinguistica è stata messa a dura prova, generando situazioni quasi sempre senza via d’uscita.

Due casi particolarmente rilevanti provenienti dall’ampio spazio eurasiatico sono quelli dell’isola di Ada Kaleh nel Danubio (nell’attuale Romania), con il trasferimento forzato della sua minoranza turca a causa della costruzione della centrale idroelettrica delle Porte di Ferro, e quello del prosciugamento del Lago d’Aral in Unione Sovietica (negli odierni Kazakhstan e Uzbekistan) a causa della deviazione dei fiumi Amu Darya e Syr Darya per imponenti progetti di irrigazione, che ha portato allo massiccia emigrazione della minoranza locale karakalpaka.

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L’oasi perduta di Ada Kaleh

In virtù della sua posizione strategica nelle acque danubiane poco distanti dalla gola delle Porte di Ferro, l’isola di Ada Kaleh assunse una certa rilevanza durante la lotta tra l’Impero asburgico e quello ottomano per il dominio sulla penisola balcanica. L’isola, lunga meno di due chilometri e larga dai tre ai quattrocento metri, rimase un’exclave dell’Impero ottomano dal 1878 fino a esattamente un secolo fa, nell’estate del 1923, quando i turchi la cedettero definitivamente ai rumeni, firmando il Trattato di Losanna.

L’isola era famosa per il suo microclima e la sua vegetazione lussureggiante e fu descritta dall’autore rumeno Ervin Mikó come un

verde frutteto sul Danubio, un’oasi acquatica incantata, un giardino di fichi e rose sospeso nell’acqua, un’isola di cipressi e mandorli.

Ada Kaleh incarnava inoltre un mondo estremamente multiculturale: i suoi abitanti, che ammontavano ad alcune centinaia un secolo fa, includevano rumeni, ungheresi e soprattutto turchi, spesso mescolati con arabi, albanesi e curdi.

Nei decenni successivi, con la sua popolazione prevalentemente turca e le sue strade strette e tortuose, il porto franco di Ada Kaleh divenne una sorta di bolla temporale, una destinazione altamente turistica, un’oasi dell’Oriente musulmano in Europa, nonché il posto perfetto per il contrabbando. La gente del posto sopravviveva con la pesca e la vendita di prodotti artigianali insoliti: tessuti e gioielli, profumi, lokum (delizia turca), gelati, marmellate e conserve (soprattutto di fichi), tabacco e sigarette (del famoso marchio Ada Kaleh). Vi si poteva trovare anche una bevanda rinfrescante chiamata bragă in rumeno (la boza turca), a base di miglio fermentato.

È interessante notare inoltre come, alla fine degli anni Venti, questo peculiare microcosmo abbia ospitato per un breve periodo una colonia utopica di crudisti ungheresi (che combinavano correnti dello zoroastrismo al veganesimo) guidata da Béla Bicsérdy.

Ma il miracolo della sopravvivenza di quest’oasi orientale di fronte ai processi di modernizzazione e omogeneizzazione nazionale del XX secolo purtroppo non durò così a lungo. All’inizio degli anni Sessanta, infatti, Gheorghe Gheorghiu-Dej, l’allora leader della Romania comunista, negoziò l’accordo con la Jugoslavia di Tito per la costruzione della diga idroelettrica delle Porte di Ferro: tale piano di sviluppo prevedeva la creazione di un lago artificiale che avrebbe sommerso l’isola.

Il progetto di trasferire gli abitanti di Ada Kaleh sulla vicina isola di Şimian non si concretizzò, seppure alcuni edifici e monumenti, tra cui parti della moschea, del bazar e del cimitero, furono alla fine spostati lì. Prima dell’inabissamento definitivo dell’isola, un certo numero di famiglie optò per unirsi alla minoranza turca nella regione rumena della Dobrugia, nelle città di Constanța e Mangalia sul Mar Nero, altre si insediarono nella capitale Bucarest, ma la maggior parte accettò l’invito del primo ministro turco Süleyman Demirel di trasferirsi in Turchia; tuttavia, molti poi fecero poi ritorno in Romania. Alcune famiglie si stabilirono invece nelle vicinanze dell’isola sulla costa danubiana romena, a Dobreta Turnu-Severin e Orșova.

Ancora prima della creazione del lago artificiale che avrebbe inabissato Ada Kaleh, le autorità romene dichiararono una sorta di guerra all’isola: non solo al patrimonio culturale tangibile degli abitanti locali, ma anche a quello naturale.

Fu così che, alla fine degli anni Sessanta, i militari piazzarono della dinamite per distruggere vari elementi architettonici storici dell’isola. Il minareto cadde solo a metà, rimanendo in piedi a quarantacinque gradi, e assieme ad esso due cipressi alti e sottili del cimitero furono abbattuti. Uno dopo l’altro i vecchi edifici furono fatti saltare in aria o demoliti. Ciò che rimaneva di quest’isola paradisiaca e della sua ricca vegetazione composta da castagni, salici, cornioli, pioppi, carrubi selvatici, cespugli di rose e molto altro venne ricoperto dalle acque del lago artificiale nel 1970 per la costruzione dell’enorme centrale idroelettrica che, al momento del suo completamento un paio di anni dopo, risultava essere la decima più grande al mondo.

Il riempimento del lago artificiale provocò l’innalzamento del livello del Danubio di circa 33 metri rispetto al suo livello medio. Negli anni successivi, la circolazione e migrazione della fauna acquatica fu gravemente impattata dalla nuova diga: ad esempio, gli storioni del
Danubio, un tempo importante fonte di sostentamento per la popolazione locale, iniziarono a diminuire per poi scomparire.

È possibile affermare come la sommersione dell’isola di Ada Kaleh abbia rappresentato un simbolo dei cambiamenti radicali e dirompenti che hanno interessato il patrimonio culturale e naturale di questa parte d’Europa per la maggior parte del secolo scorso: diversi leader politici hanno tentato di inabissare, annichilire e distruggere non solo meraviglie naturali, ma interi gruppi sociali ed etnici, e soprattutto le testimonianze della convivenza multiculturale
di un tempo.

Ada Kaleh è stata immortalata nell’ultimo capitolo del capolavoro Fra i boschi e l’acqua di Patrick Leigh Fermor: in questo resoconto di viaggio, lo scrittore inglese ricorda con nostalgia la sua breve permanenza in questo splendido angolo danubiano nell’agosto del 1934, soffermandosi sulle peculiarità locali (tra cui l’interessante persistenza dei caratteri arabi per scrivere la lingua turca, ad anni di distanza dalla riforma alfabetica di Atatürk) ed esprime rammarico per la sua perdita, rilevando come questo tratto selvaggio del Danubio sia stato trasformato in un lago asettico e impoverito, con ben poco di interessante.

L’impatto sulla minoranza insulare turca

La tragica fine dell’isola di Ada Kaleh colpì al tempo l’intera comunità dei suoi abitanti, lasciando profondi traumi nel suo vissuto collettivo, e andando a toccare anche coloro che l’avevano solo visitata. Tuttavia, possiamo ipotizzare come i membri della comunità turca che si trasferirono nella nuova città di Orşova e a Turnu Severin, entrambe sulla sponda rumena del Danubio, abbiano dovuto affrontare laceranti sentimenti di “solastalgia” ben più marcati, rimanendo così vicini alle acque danubiane che ospitavano la loro terra natia, e dovendo sostenere visivamente il vuoto lasciato da essa, in un paesaggio naturale familiare irrimediabilmente alterato.

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Lo spostamento degli abitanti dall’isola su una riva rappresentò fin dall’inizio la perdita di uno di quei caratteri che conferiva ad Ada Kaleh il suo status speciale, ovvero la sua insularità, e “turchità”, provocando una frattura irreparabile nella comunità etnolinguistica un tempo compatta.

Così, la distruzione del suo patrimonio ecoculturale tangibile ha avuto conseguenze estremamente negative anche per il suo patrimonio immateriale, come la lingua, i costumi e le tradizioni. Assieme all’isola incantata orientale, sprofondò per sempre in un certo senso anche l’ideale di un paradiso perduto danubiano del passato dove culture, etnie, lingue e religioni potevano coesistere in pace in una sorta di oasi di libertà.

La scomparsa del Lago d’Aral

Un altro evento storico dai risvolti simili per il patrimonio delle minoranze etniche nell’area eurasiatica è quello del Lago d’Aral, un disastro colossale sia dal punto di vista ambientale che socioculturale, la cui scala ha pochi paralleli nella storia dell’umanità.

Il Mare d’Aral, oggi diviso fra Uzbekistan e Kazakhstan, era un tempo il quarto lago salino più grande al mondo, esteso su circa 67mila chilometri quadrati e con più di mille isole sparse su tutta la sua superficie. Essendo un lago terminale, il suo destino risultava strettamente legato a quello degli immissari Amu Darya e del Syr Darya, i due maggiori corsi d’acqua dell’Asia centrale.

Nei primi decenni dell’Unione Sovietica, il lago supportava una consistente industria ittica che comprendeva almeno venti specie di pesci. A partire dagli anni Cinquanta, tuttavia, i sovietici elaborarono un piano di sviluppo per questi territori finalizzato alla coltivazione del cotone in maniera ancora più intensiva rispetto al passato zarista. Con tale scopo, l’acqua dei fiumi Amu Darya e Syr Darya venne deviata per irrigare le colture di cotone. Tuttavia, la creazione dei canali di irrigazione causò la diminuzione della portata di questi immissari, un fatto che peggiorò drasticamente nei decenni successivi, e a causa del quale oggi il Lago d’Aral riceve meno di un decimo dell’acqua del 1950.

Gli esperti sovietici avevano previsto il restringimento del lago, ma consideravano il sacrificio del suo delicato ecosistema un danno collaterale accettabile in cambio del profitto derivante dal cotone.

Prima della catastrofe, il delta dell’Amu Darya era molto popolato, sia in termini di presenza umana, che di fauna e flora, e aveva reso possibile per migliaia di anni un’agricoltura estensiva basata sull’irrigazione. La diminuzione della quantità d’acqua fornita dai fiumi Amu Darya e Syr Darya determinò l’emersione di decine di chilometri di terra, la cui superficie oggi appare coperta da tonnellate di sale, come quella del nuovo deserto di Aralkum.

L’innalzamento del livello del sale ebbe effetti letali su diverse specie di pesci, portando all’estinzione della trota d’Aral, del barbo del Turkestan e di tutte le specie di storione, le cui rotte di migrazione vennero oltretutto bloccate dalle dighe. Assieme ai pesci scomparvero pure molti mammiferi e uccelli che in queste zone umide avevano il loro habitat naturale.

Effetti sulla popolazione minoritaria dei karakalpaki

A causa del prosciugamento delle acque a partire dagli anni Sessanta, nel bacino del Mare d’Aral iniziarono a verificarsi una serie di cambiamenti climatici, tra cui la diminuzione nella quantità di precipitazioni e dell’umidità dell’aria. Di conseguenza, gli inverni diventarono più freddi e secchi e le estati sempre più calde.

L’evaporazione del Lago d’Aral ha avuto un impatto particolarmente negativo sugli abitanti della regione autonoma uzbeka del Karakalpakstan, che è diventata delle aree più povere del paese.

I karakalpaki sono una popolazione di lingua turcica storicamente insediata lungo il corso inferiore dell’Amu Darya e nel suo delta sulla sponda meridionale del Lago d’Aral. In seguito all’intervento sovietico sul corso dei fiumi, la geografia karakalpaka fatta di antiche oasi fluviali, laghi, paludi di canneti e foreste subì delle gravissime alterazioni: queste realtà ambientali legate all’ecosistema del lago si prosciugarono e vennero avvelenate dal sale trasportato dal
vento e dai residui di fertilizzanti e pesticidi provenienti dal letto prosciugato.

Ancora oggi, la minoranza karakalpaka soffre dei più alti livelli di esposizione a metalli pesanti, sali e altre sostanze tossiche nell’aria e nell’acqua potabile, con ripercussioni estremamente serie sulla sua situazione sanitaria.

Moynaq, un’antica città portuale karakalpaka, si trova ora in un’area deserta, a 100 chilometri dal quel che rimane del lago: se in passato poteva contare su una prospera industria della pesca, oggi questo luogo ha perso la sua principale opportunità economica, con conseguenze sociali e culturali devastanti. Non devono pertanto stupire le stime che parlano di 100mila persone trasferitesi altrove da questa città. Solo 18mila sono gli abitanti che hanno deciso di rimanere in questa landa desolata, esposti alla devastante realtà di un lago che non c’è più, un fantasma che ancora li perseguita, con le tracce del suo ricco passato scomparso davanti ai loro occhi, come il cimitero di navi sulle ex sponde del lago ormai trasformatesi in deserto.

In generale, questa catastrofe ambientale ed economica ha portato a un’enorme fuga di karakalpaki dalle loro terre natie verso altre parti dell’Uzbekistan, nonché verso il Kazakhstan: di conseguenza, la percentuale di popolazione karakalpaka nella repubblica autonoma è diminuita costantemente negli ultimi anni, con un grande impatto negativo sul loro patrimonio materiale e immateriale, come l’artigianato tradizionale. I karakalpaki rimangono una delle minoranze più minacciate del Paese a causa della catastrofe ecologica e con la loro dispersione demografica anche la loro lingua appare sempre più in pericolo.

Storie di civiltà sommerse

La scomparsa dell’isola di Ada Kaleh e dell’ecosistema del Lago d’Aral con il loro ricco patrimonio ambientale e socioculturale possono essere visti come casi emblematici paralleli che condividono alcune caratteristiche comuni: queste oasi d’acqua perdute incarnano la metafora della vulnerabilità dei contesti minoritari e del loro patrimonio ambientale (soprattutto idrologico) di fronte alle esigenze di modernizzazione e nazionalizzazione degli stati moderni, poco sensibili alla preservazione della diversità etnica e culturale così come di quella biologica.

In queste storie di civiltà sommerse o evaporate, vi sono persone divenute rifugiati ambientali, costrette a lasciare il loro ambiente naturale familiare tragicamente scomparso, e altre rimaste vicine al vuoto lasciato da esso. In entrambi i casi, il trauma vissuto ha implicazioni diverse rispetto a quelle legate ai cambiamenti climatici e alle catastrofi ambientali “naturali”: le conseguenze psicologiche e antropologiche legate alla perdita della propria casa, del proprio paesaggio, della diversità biologica rappresentano un caso peculiare di solastalgia provocata dal sacrificio di questi luoghi in maniera deliberata da parte dell’uomo, ovvero dalle autorità dello stato.

L’intenzionalità “distruttiva” delle politiche della comunità maggioritaria si unisce alla mancata tutela del patrimonio di diversità ecoculturale delle sue minoranze: una storia che purtroppo continua a ripetersi ancora oggi in molte parti d’Europa e del mondo.

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Giustina Selvelli
Giustina Selvelli

Antropologa e ricercatrice di origine italo-messicana-levantina. Attualmente ricercatrice post-doc presso il dipartimento di Sociologia dell'Università di Ljubljana. I suoi temi di ricerca, che si ripercuotono anche sulla sua scrittura non accademica, riguardano la diaspora, i confini, la diversità culturale e le minoranze etnolinguistiche, con una predilezione particolare per l’area balcanica. Quando messa nelle giuste condizioni, parla più o meno fluentemente una dozzina di lingue e ne legge almeno altre cinque (romeno, russo, portoghese, un po’ di romanì e mandarino), grazie al suo bagaglio genealogico multiculturale e ai numerosissimi soggiorni di ricerca e studio all’estero finanziati da diversi enti nazionali ed internazionali.