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Sono greci. Li capisco, ma non riesco a provare quello che provano loro; mi fanno paura…
Non appena si nomina la letteratura greca, è più forte di noi, il pensiero va subito all’antica e grandiosa civiltà del Mediterraneo, a quelle prose e a quei versi che parlano di mitologia, di dèi ed eroi, di avventure e intrighi che vengono narrati nelle tragedie più famose di sempre e che hanno plasmato non solo la storia della paese ellenico ma anche la cultura europea di oggi. L’Odissea e l’Iliade di Omero, o ancora, le tragedie epiche di Eschilo, Sofocle ed Euripide, sono riferimenti classici e insormontabili che spesso ci si vanta di aver letto o perlomeno studiato con grande fatica (al pari delle dodici fatiche che descrivono le eroiche gesta del semidio Eracle/Ercole).
Eppure, la letteratura greca non è solo questo, non si ferma a quei miti e a quelle epoche d’altri tempi, ma continua a fiorire e a regalare opere letterarie che ci parlano di mondi più vicini a noi. Ambientato nei primi anni del Novecento del secolo scorso, La grande chimera di M. Karagatsis (1908-1960), pubblicato da Aiora Press e tradotto dal greco da Maurizio De Rosa, è proprio l’emblema di un capolavoro moderno, che affronta tematiche ancora attuali: l’espatrio, i valori della famiglia, il senso di appartenenza a una determinata cultura, il ruolo e la posizione della donna nella società. E, non da meno, tutti quei sogni e quelle aspettative racchiusi e intrappolati in una grande chimera, che ancora oggi ciascuno di noi non smette di inseguire.
La Madame Bovary greca di M. Karagatsis
Devo andare via. Cosa ci faccio qui? Che cosa mi tiene legata a questa città oltre ai pensieri nefasti e a una tomba? Sono ricca, potrei, se volessi, trascorrere tutto il resto della vita viaggiando. Visto che non so amare le persone, potrei almeno cercare di amare il cielo, il mare, le pianure, le montagne e le città di tutto il mondo. Potrei trasformarmi in un atomo sempre in movimento dell’umanità stagnante. Potrei perdere la mia personalità, la mia identità. Sarei soltanto un nome scritto sul passaporto. O un numero, quello di una cabina a bordo di un piroscafo, di un posto nello scompartimento di un treno, di una camera d’albergo. Non c’è altra soluzione.
Inizio Novecento. Rouen, Francia – Ermopoli, isola di Syros, Grecia. Marina, giovane normanna rimasta orfana di entrambi i genitori, abbraccia il suo destino sposando un armatore greco, Ghiannis, conosciuto per caso al porto di Rouen. Appassionata di lingua e letteratura dell’antica Grecia, che aveva studiato all’università, si ritrova a seguire l’unico uomo capace di farle provare quel desiderio e quella passione che credeva le mancasse. Un caso che fosse proprio greco?
Segue senza paura il suo uomo di mare nell’arcipelago delle Cicladi, lasciandosi alle spalle la propria terra natia e, così le sembra, un passato difficile. Sbarcata sull’isola di Syros scopre con curiosità, meraviglia ma anche fatica la sua patria d’adozione; un paese il cui popolo la accoglie con un calore umano inaspettato, ma a cui, col passare del tempo, si rende conto di non poter appartenere totalmente.
Mi domando se si tratti di un fenomeno particolare o di una realtà tipica dei greci. Presso questo popolo i legami di sangue continuano a essere qualcosa di sacro, come nell’antichità. La casa e la famiglia sono catene pesantissime, a volte d’oro e altre volte di piombo, che tengono avvinte le persone. Edipo che senza volerlo sposa la madre; Oreste che uccide la madre per vendicare l’assassinio del padre; Fedra che s’innamora del figliastro; Medea che uccide i figli per amore sono individui che la nostra mentalità germanica non riesce facilmente a comprendere.
Gradualmente, l’amore e l’entusiasmo iniziali di Marina, alimentate da Minas – il giovane cognato intellettuale che la introduce alla vita greca moderna – lasciano posto alle disillusioni e alle difficoltà della vita adulta di moglie, madre, cognata e nuora in un paese pur sempre estraneo e che le appartiene solo in parte. I traumi del passato tornano a galla e disturbano quel mare familiare e apparentemente calmo dove la tempesta è in agguato.
L’iniziale velata diffidenza della suocera, madre di Ghiannis e Minas, nei confronti di Marina, tenuta tacitamente a bada per volere dei figli e delle circostanze, implode ed esplode nel momento in cui il primogenito che, in un certo senso, manteneva l’equilibrio familiare, deve tornare in mare per evitare che la rovina economica si abbatta sulla sua famiglia.
Non era possibile che quelle due donne andassero d’accordo. A separarle c’era un abisso incolmabile di paesi, di popoli e di condizioni climatiche diverse. Marina era figlia dei biondi vichinghi, di guerrieri implacabili che vivevano saccheggiando ricchezze e piaceri. L’altra, la madre di Ghiannis, aveva un animo orientale, introverso, e nelle vene le scorreva il sangue dei veri lupi di mare, di quelli che imperversano sulle acque di tutto il mondo per commerciare la ricchezza della terra. Per i primi il mare è un mezzo; per i secondi, un fine.
Quella terra meravigliosa, ma aspra e drammatica che è la Grecia, piena di conflitti tra le sue antiche tradizioni e la sua storia moderna, tormenta inevitabilmente la vita di Marina, che si isola sempre di più dopo la partenza di Ghiannis. La terra ellenica, con la sua austerità implicita, porta la protagonista a chiudersi e a confrontarsi con se stessa, mentre quei luoghi sensuali, fatalmente allettanti, la trascineranno in un vortice passionale senza via d’uscita, portandola all’autodistruzione.
Ma perché ho abbandonato il mio Paese, la mia lingua e lo spirito da questa espresso? […] Immaginiamo che l’uomo che amo e che mi ama, Ghiannis, decidesse di trasferirsi a Rouen assieme a me. Diventerebbe francese con la stessa facilità con cui io sto diventando greca?” No, Ghiannis a Rouen non sarebbe diventato francese. Al contrario, anche in Francia sarebbe riuscito a far diventare greca, almeno in qualche misura, la moglie. “Questa è la natura delle donne: subordinare la propria visione del mondo al tipo specifico di testosterone che le sottomette eccitando le gonadi. Essere sottomesse, questo è il destino delle donne…
La grande chimera di Marina
Le chimere sono impossibili da catturare…
Chimèra [dal lat. chimaera, gr. χίμαιρα, propr. «capra»] è, nella mitologia greca, un mostro con testa e corpo di leone, una seconda testa di capra sulla schiena, e una coda di serpente fornita anch’essa di testa, raffigurata spesso nell’arte antica in atto di vomitare fuoco; era considerata come un’incarnazione di forze fisiche distruttrici (vulcani o tempeste). In araldica, è anche una figura fantastica derivata dal mito greco ma rappresentata con testa di donna, petto e zampe posteriori d’aquila, zampe anteriori di leone e coda di serpente.
È questa la prima definizione riportata da Treccani. La grande chimera che si mostra a Marina sin dalle prime pagine, però, e che aleggia al suo fianco in silenzio per tutto il romanzo di Karagatsis, non ha le caratteristiche tipiche e tradizionali del mostro a noi noto, quello ucciso dall’eroe greco Bellerofonte e divenuto poi simbolo di illusioni, desideri, ambizioni e sogni irrealizzabili. Eppure, quell’idea o fantasia inverosimile, quell’utopia, che insegue con fervore Marina ne La grande chimera è la stessa che ritroviamo nella famosa espressione usata ancora oggi.
L’eroina del romanzo di M. Karagatsis riesce addirittura a darle vita, riproponendola in forma concreta attraverso il travestimento di carnevale di sua figlia:
L’avrebbe travestita da chimera. Non quella della mitologia, ma quella della sua fantasia; quella che aveva immaginato allora, a Rouen, e che non somigliava troppo a una chimera, ma a un grifone. Quel sogno l’aveva influenzata a tal punto nella vita, che per lei la chimera e il grifone erano praticamente la stessa cosa. Per lei la chimera aveva il corpo di leone, la testa d’aquila e le ali sul dorso.
Marina inseguirà questa chimera, andando però incontro a un triste destino.
La tragedia greca di M. Karagatsis
Tra le righe di un romanzo realista che sembra uscito dalla penna di Gustave Flaubert, fonte di inevitabile ispirazione, M. Karagatsis riporta in vita la tragedia greca in chiave moderna. Al contrario delle tragedie greche classiche, dove avventure e fatti eclatanti hanno la meglio, in La grande chimera non ci sono tuttavia dinamiche che stravolgono la vita lineare dei personaggi o di Marina stessa: la narrazione si concentra sui sentimenti, sulle emozioni e sulla psiche umana.
In particolar modo, la questione dell’espatrio di Marina Reizi e della collisione tra culture e modi di essere diversi, raccontata in maniera quasi morbosa, prevale, e differenzia l’opera di M. Karagatsis da quella di Flaubert. L’autore, in un dramma borghese che sviscera il rapporto tra la Grecia antica e moderna e l’Occidente, descrive con maestria la dura realtà provinciale della società greca di inizio Novecento, riuscendo a raccontare una sorta di triste favola moderna sulla natura irrevocabile dell’illusione e della deviazione morale, evidenziando la presenza costante della tragedia antica nel mondo di oggi.
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Nonostante sia cupo e dal ritmo lento, a tratti spassionatamente crudele nei confronti dei suoi personaggi (Marina, Minas, Ghiannis, ma anche il guardiano del cimitero che accetta la realtà in silenzio o il medico che si crogiola nei sensi di colpa), il lavoro di Karagatsis si legge tutto d’un fiato.
La grande chimera di M. Karagatsis, traduzione di Maurizio De Rosa, Aiora Press, 2023
Traduttrice e redattrice, la sua passione per l’est è nata ad Astrachan’, alle foci del Volga, grazie all’anno di scambio con Intercultura. Gli studi di slavistica all’Università di Udine e di Tartu l’hanno poi spinta ad approfondire le realtà oltrecortina, in particolare quella russa e quella ucraina. Vive a Kyiv dal 2017, collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso, MicroMega e Valigia Blu. Nel 2022 ha tradotto dall’ucraino il reportage “Mosaico Ucraina” di Olesja Jaremčuk, edito da Bottega Errante.