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La festivalomanija jugoslava

A  partire dagli anni Cinquanta, in tutta la Jugoslavia cominciarono a diffondersi i primi festival dedicati alla zabavna muzika, la musica leggera. Un fenomeno a cui venne dato il nome di festivalomanija. Particolarmente significative furono le influenze esercitate dalla musica leggera italiana, soprattutto nelle regioni di confine tra i due paesi. Questo articolo, tratto dal libro di Francesca Rolandi Con ventiquattromila baci. L’influenza della cultura di massa italiana in Jugoslavia (1955-1965) pubblicato nel 2015 da Bononia University Press, ci racconta di questa commistione ripercorrendo velocemente la storia di alcuni dei festival jugoslavi più famosi.

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Il festival di Sanremo si impose presto come modello per una rete di festival ramificata in tutta la Jugoslavia, il primo dei quali fu il festival di zabavna muzika di Zagabria, nato nel 1953. Alla prima edizione, in cui venivano premiate le canzoni e non gli interpreti, parteciparono solo Rajka Valli e Ivo Robić, che si alternarono sul palco. Robić si era formato negli alberghi di Opatija, dove la tradizione musicale italiana era particolarmente forte. La creazione di uno star system sembrava ancora lontanissima: Ljubo Kuntarić, autore della canzone premiata, venne a conoscenza dai giornali del risultato solo dopo diverso tempo, quando fece ritorno da un’unità mobilitata in armi al confine italo-jugoslavo. Il festival venne trasmesso dal 1955 da Radio Zagreb e dal 1959 dalla nascente televisione croata. Dal 1957 la città ospitò un’ulteriore manifestazione canora, Prvi pljesak, modellata sull’omologa italiana Il primo applauso: una rassegna di debuttanti, i cui vincitori ottenevano un premio e la possibilità di partecipare a un varietà.

Festivalomanija

Nel 1958 fu fondato il festival di Opatija, ideato come rassegna musicale a livello federale. La località quarnerina, dai tempi dell’Impero austroungarico meta di un turismo d’élite, era il sito ideale per creare una “Sanremo jugoslava”. La collocazione geografica non era casuale: adiacente alla città di Fiume, Opatija aveva fatto parte del Regno d’Italia prima della seconda guerra mondiale e la sua elezione a città simbolo della musica jugoslava portò alla ribalta lo spazio adriatico come luogo dell’intrattenimento che beneficiava della vicinanza con l’Italia, ma che allo stesso tempo si riallacciava a un’identità mediterranea in quegli anni promossa coerentemente con lo sviluppo del turismo. Il sospetto con il quale le autorità jugoslave guardavano all’influenza italiana nell’area alto-adriatica non svanì, ma allo stesso tempo si tentò di utilizzarlo nella costruzione identitaria jugoslava.

Secondo Dean Vuletic, la creazione del festival di Opatija e di una nuova scena musicale che aveva le sue basi nell’area quarnerina volevano rimarcare il fatto «che la Jugoslavia poteva produrre una sua musica pop – e anche un festival – che, pur ispirati dai modelli italiani, erano stati jugoslavizzati, insieme a una regione così fortemente rivendicata tra Italia e Jugoslavia».

La vicinanza costruita sulle note della musica leggera fu alla base di una manifestazione canora italo-jugoslava, condotta dal più noto presentatore italiano, Pippo Baudo, e tenutasi ad Opatija nel 1967, che vide esibirsi alcuni tra i maggiori interpreti italiani e jugoslavi. Lo sviluppo economico, attraverso l’industria e il turismo, fu alla base di un patto di convenienza tra il sistema jugoslavo e il litorale istriano e quarnerino, che divenne uno dei territori nei quali l’ideologia jugoslavista – che in quel contesto si fondeva con elementi di difesa identitaria rispetto alle rivendicazioni italiane – avrebbe fatto una maggiore presa – sopravvivendo ancora oggi, in targhe e memoriali oltre il crollo della nazione che ne era stata il prodotto. Tra gli obiettivi del festival di Opatija c’era quello di creare una scuola jugoslava di zabavna muzika, non troppo dipendente dai modelli esteri, che propendesse per la vita reale più che per il sentimentalismo, che potesse riempire le ore di svago e di riposo dei cittadini. Tali premesse furono in gran parte disattese. Il lusso ovattato del festival di Opatija divenne una vetrina per l’immagine internazionale della Jugoslavia, che della propria diversità dal grigiore del blocco socialista faceva una bandiera. Gli interpreti furono tra le prime celebrità jugoslave: il vincitore della prima edizione, Robić, che a Opatija era di casa avendo suonato nel lussuoso albergo Kvarner per anni prima di raggiungere il successo, si allontanò sulla sua automobile personale, sotto gli occhi affascinati del pubblico. Il potere di questo glamour è testimoniato dal fatto che la diretta del festival di Opatija fu la prima trasmissione a essere immortalata a colori nel 1968. 

Dal momento della sua fondazione uno degli scopi del festival fu quello di riunire in un’unica kermesse interpreti provenienti dalle diverse repubbliche, un’impostazione pan-jugoslava presente anche nella sua denominazione, Dani jugoslavenske zabavne muzike [I giorni della musica leggera jugoslava], che veniva riprodotta anche nella composizione della giuria. Le crescenti tensioni nazionali non risparmiarono l’unico festival pan-jugoslavo, dove negli anni Settanta diventò frequente l’accusa che le canzoni venissero scelte per logiche campanilistiche, a discapito della loro stessa qualità.

Nel 1960 nacque da una manifestazione di moda denominata More – Revija – Split [Moda – Sfilata – Spalato] il festival di Spalato, che dal 1962 assunse il nome di Melodije Jadrana [Melodie dell’Adriatico], dedicato alla diffusione della tradizione musicale dalmata, che fondeva influenze della canzone italiana, atmosfere mediterranee ed elementi della tradizione musicale locale, rivisitati in chiave moderna. Il concorso canoro si teneva durante l’estate e aveva l’obiettivo di promuovere l’immagine della Jugoslavia come luogo di villeggiatura, proprio negli anni in cui si apriva al turismo europeo. Dal 1967 furono numerosi gli ospiti stranieri, tra cui molti italiani, come Domenico Modugno, Claudio Villa, Gino Paoli, Sergio Endrigo, Milva, Iva Zanicchi. Nel 1961 a Belgrado nacque il festival Beogradsko proleće [Primavera belgradese] e un anno più tardi a Bled vide la luce il festival della canzone slovena [Slovenska popevka]. La storia di quest’ultimo riflesse le montanti richieste di autonomia all’interno della Federazione, che trovavano nella lingua un elemento simbolico. 

Dal 1964 anche l’Istria e il Quarnero si guadagnarono un proprio festival regionale, Melodije Istre i Kvarnera [Melodie dell’Istria e del Quarnero], come accadde anche alla Vojvodina con il festival Omladina [Gioventù] di Subotica: in entrambi i casi veniva dato spazio a performance nella lingua delle minoranze italiana e ungherese. Seguirono nella seconda metà degli anni Sessanta Vaš šlager sezone [La vostra stagione dello šlager] di Sarajevo, il festival di Skopje Skopje Fest, Akordi Kosova [Accordi del Kosovo] di Pristina. In Croazia si sviluppò una rete di festival che giocavano sulle specifiche varietà regionali e sui differenti dialetti: oltre a quello di Fiume, Kajkavske popevke [Le canzoni in kajkavo] di Krapina (1966), Zvuci Panonije [Suoni della Pannonia] di Osijek (1966), Slavonija di Slavonska Požega (1969). Questa fioritura di concorsi canori, definita da alcuni festivalomanija, era più indicativa della decentralizzazione a livello culturale che di un’offerta qualitativamente diversificata; seguendo l’ordine della fondazione si può agevolmente ricostruire una mappa degli equilibri tra le varie repubbliche e province autonome all’interno della Jugoslavia. Le manifestazioni canore, durante le quali spesso venivano presentate con successo canzoni dedicate alla città che le ospitava (Beograde, Zagreb Zagreb, Nima Splita do Splita), spesso sembravano promosse più da ragioni campanilistiche che da logiche musicali.

Un primo bilancio dello stato di salute della zabavna muzika in Jugoslavia venne tentato dall’inizio degli anni Sessanta: a essere ripetutamente criticate sulla stampa furono l’organizzazione dei festival, la scelta delle canzoni in gara e la mancanza di creatività da parte degli autori jugoslavi. Nel 1963 Radio Zagreb dedicò alla zabavna muzika una puntata della trasmissione Televizijska tribina [Tribuna televisiva], alla quale parteciparono quadri del partito e delle organizzazioni giovanili a fronte di un solo cantante, Marko Novosel; tale ripartizione dei ruoli testimoniava il valore politico attribuito alla musica leggera a discapito dell’opinione degli addetti al settore. Il dibattito avrebbe rappresentato un’immagine idilliaca della musica jugoslava, lungi dalla realtà: «non esisterebbero influenze importate dall’estero; […]non esisterebbero, per l’amor di Dio, plagi, anche se se ne parla così tanto; […] il cantante non va nella direzione del pubblico ma si sforza di educare il pubblico; […] esiste uno stile jugoslavo nella musica leggera, perché tutto quello che si compone da noi – è jugoslavo, per il semplice fatto che è composto qua e gli stranieri lo sentono perfettamente». Un’occasione persa, secondo l’autore dell’articolo, per affrontare realmente la questione, dal momento che «gioventù e zabavna muzika sono quasi due sinonimi». 

I festival jugoslavi, cresciuti spropositatamente in numero, continuarono a essere considerati dagli addetti al settore qualitativamente insufficienti e privi di una strategia di penetrazione nei mercati esteri. Così, sebbene il festival di Opatija del 1965 fosse trasmesso attraverso la rete Intervision in molti paesi dell’Europa orientale e visto da decine di milioni di spettatori, un commentatore di «Vjesnik u srijedu» dubitava che anche una sola delle canzoni presentate sarebbe mai diventata un successo internazionale.

La scena musicale italiana era spesso utilizzata come metro di paragone per quella jugoslava. Sebbene alcuni si dicessero convinti che i cantanti jugoslavi avessero orami raggiunto i loro epigoni e mancassero loro solo quelle che oggi chiameremmo strategie di marketing, le conclusioni a cui più spesso si arrivava è che fossero delle copie di minor valore di modelli esteri. Se il rapporto di subalternità con il vicino occidentale sul piano musicale rimase uno dei punti dolenti della nascente scena musicale, uno scandalo scoppiato nel 1963 provò a ribaltare questa percezione.

Il compositore Bojan Adamič, il padre nobile della zabavna muzika in Jugoslavia, accusò Tony Renis di aver plagiato la colonna sonora da lui composta per il film Ples v dežju [La danza nella pioggia] nella canzone Uno per tutte, che vinse in quell’anno il festival di Sanremo. Renis aveva incontrato Adamič alcuni anni prima in Jugoslavia e in quell’occasione avrebbe ascoltato la melodia. Il caso non ebbe mai risvolti giudiziari, in un’epoca in cui il plagio era all’ordine del giorno, ma fu presentato dalla stampa in luce nazional-patriottica. Come affermò Adamič «non è importante che l’autore sia io. È importante che sia uno jugoslavo. Perché qui da noi amiamo incondizionatamente le canzoni italiane. E sottostimiamo le nostre». Tra spirito di emulazione, competitività e ammirazione, i contatti tra il mondo della musica leggera italiana e jugoslava si svilupparono velocemente a partire dalla metà degli anni Cinquanta. All’inizio del 1964 una casa discografica bolognese assegnò un premio al compositore Ljubo Kuntarić, che solo una decina d’anni prima guardava sì all’Italia, ma, come abbiamo visto, in uniforme, mobilitato al confine italo-jugoslavo. 

Con ventiquattromila baci. L’influenza della cultura di massa italiana in Jugoslavia (1955-1965) di Francesca Rolandi, Bononia University Press, 2015.

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Redazione
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