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I versi della canzone Calinitta nei cieli di Castrignano dei Greci (pagina facebook del comune)
di Margherita Macrì*
Il griko (o grico) è una varietà linguistica che è in uso nella penisola salentina. Questa comprende la provincia di Lecce, quasi tutta quella di Brindisi e anche parte della provincia tarantina. Ha origini greche, come il suo stesso nome fa intuire, ed è una delle due varianti ellefone riconosciute dal nostro Stato, parlate in due distinte aree geografiche. L’altra è il greko (o grecanico), parlato nella Bovesìa, vicino a Reggio di Calabria. I linguisti greci tendono a riunirle entrambe sotto un unico gruppo dialettale noto come Κατωιταλική διάλεκτος (dialetto del Sud Italia), nonostante le differenze dovute a fattori storici e geografici.
Era la lingua che mia nonna parlava con le sue sorelle e le vicine. Anche con mio nonno la usava, ma lui rispondeva in dialetto, la lingua che entrambi parlavano poi con mio padre. Io ne riconosco i suoni, conservo qualche parola e pochi modi di dire, ma non l’ho mai imparata davvero, e ogni volta che la sento parlare un magone nostalgico mi attraversa, quello della perdita, non solo di una lingua, ma di un mondo che quella lingua conteneva.
Grecìa salentina (Bianca Moretti)
Non solo greco, non solo latino: il compromesso linguistico
Da dove viene il griko è una domanda che da più di un secolo accende il dibattito tra studiosi. Due teorie principali lo alimentano: la tesi bizantina, sostenuta dal glottologo milanese Giuseppe Morosi, vissuto nella seconda metà dell’Ottocento, che colloca la nascita del griko al periodo in cui l’Impero bizantino tornò a esercitare la sua influenza sul Salento (X–XVI secolo). Secondo Morosi, dopo la conquista romana, nessuna lingua diversa dal latino avrebbe potuto sopravvivere se non reintrodotta in epoca successiva.
Di tutt’altro avviso era invece Gerhard Rohlfs, glottologo tedesco di fama mondiale, sostenitore della cosiddetta tesi arcaica, secondo cui il griko è un’eredità diretta della Magna Grecia, una sopravvivenza continua e ininterrotta del greco antico, in particolare del dialetto dorico. In realtà la tesi che Rohlfs ricostruisce mentre raccoglie il materiale necessario per il suo lavoro di dottorato era già stata introdotta nel 1892 da G. Chatsidakis, ma era rimasta marginale nella comunità scientifica.
A sostegno della sua ipotesi, Rohlfs citava arcaismi linguistici, strutture grammaticali ormai perdute in Grecia e tratti fonetici che risalgono all’età classica. La sua ipotesi fu accolta con entusiasmo dagli studiosi greci, ma in Italia fece discutere: metteva in crisi l’idea di un Sud “romanizzato” in tutto e per tutto, sostenendo una continuità etnica tra i greci dell’età antica e gli attuali parlanti griki. È il punto in cui il dibattito linguistico si intreccia con quello politico e culturale: accettare l’idea di Rohlfs significava mettere in discussione l’idea di italianità.
È evidente da queste due tesi che, per lungo tempo, il dibattito sull’origine del griko sia stato segnato da una contrapposizione rigida: secondo alcuni studiosi l’Italia meridionale era da considerarsi “latina”, secondo altri “greca”. L’ipotesi del bilinguismo, cioè della possibilità che più lingue potessero coesistere nello stesso territorio, non veniva minimamente considerata. Di recente, si è superata questa visione dicotomica, e oggi molti studiosi preferiscono leggere il fenomeno griko come il risultato di un lungo contatto linguistico greco-romanzo.
Si parla quindi di un “compromesso linguistico” (tesi di compromesso), che valorizza sia l’ipotesi di una continuità con il greco antico, sia l’influenza di apporti linguistici successivi, soprattutto in epoca bizantina. Per esempio, alcuni termini griki conservano radici greche ma presentano desinenze o strutture sintattiche proprie delle lingue romanze.
Diffusione e vitalità del griko nel tempo
L’area di lingua grika, la Grecìa Salentina, comprende attualmente undici paesi consorziatisi per la prima volta nel 1990 e poi diventati nel 2001 Unione dei Comuni della Grecìa Salentina, ma il griko si parla in realtà solo in sette di questi: Calimera, Castrignano de’ Greci, Corigliano d’Otranto, Zollino, Sternatia, Martano e Martignano. In altri comuni come Melpignano e Soleto, il griko era parlato principalmente fino all’inizio del XX secolo, mentre a Carpignano e Cutrofiano (aggiuntisi all’Unione in anni successivi) il suo uso era riscontrabile tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo.
Ancora prima pare che l’agglomerato contasse tredici paesi, tanto da essere conosciuto come, appunto, “ta dekatría choría”, cioè “i tredici villaggi”. È come se man mano i contorni più periferici dell’area ellenofona si fossero ristretti a contatto con i paesi in cui si parlava esclusivamente il dialetto salentino (romanzo). D’altronde, in pianura la contaminazione viaggia veloce.
Storicamente però l’area di diffusione del griko era molto più vasta: intorno all’anno 1000 era parlato in tutto il Salento, almeno fino alla linea immaginaria che unisce Taranto a Brindisi. Ma dal periodo normanno in poi iniziò un lento e inesorabile arretramento: nonostante ciò, nel XIII secolo era attivo il monastero di San Nicola di Casole a Otranto, probabilmente proprio di fondazione normanna, che ospitava una vasta biblioteca e un circolo di poeti in lingua greca.
Poi, l’abbandono del rito bizantino declassò il greco a lingua popolare e la crescente influenza dell’italo-romanzo ridusse drasticamente lo spazio vitale della lingua ellenofona. Ancora nel XV secolo, la diffusione del griko toccava un territorio tre volte più grande di quello odierno, comprendendo l’area di Galatina, Galatone, Casarano e Gallipoli.
La massiccia riduzione del numero di parlanti è avvenuta in particolare durante il Novecento. Gli anni cruciali per questo declino furono quelli del secondo dopoguerra, quando i mutamenti socio-economici (immigrazione, obbligo scolastico, avvento dei mass media) accelerarono il suo processo di sostituzione con le varietà italoromanze e l’italiano standard. E difatti, mio padre, nato nel 1953, il griko ha imparato a decifrarlo ascoltandolo, ma non lo ha mai parlato, al di là di qualche modo di dire o di qualche canzone o filastrocca. Di conseguenza non lo ha potuto trasmettere a me. Storie simili si sono ripetute in molte famiglie della Grecìa.
Secondo l’Unesco, il griko è una lingua ad alto rischio di estinzione, e infatti nel 1999, insieme al Grecanico, è stato inserito nell’Unesco Red Book of Endangered Languages. Certamente al suo declino ha contribuito anche il fatto che il griko, trasmesso esclusivamente in forma orale, non dispone di un’ortografia unificata e che presenta variazioni locali da un paese all’altro, anche se i parlanti continuano a comprendersi tra loro senza difficoltà.
A oggi il numero di parlanti effettivi sfugge a qualunque conta, né può sovrapporsi il numero degli abitanti dei paesi della Grecìa Salentina con chi ne ha effettiva competenza. Ma anche in mancanza di dati ufficiali, è certo che la vitalità della lingua è legata all’età dei parlanti. Tra gli adulti, solo una parte ha competenza passiva, e un numero ristretto ha competenza attiva. Nella fascia giovanile, sono in pochissimi a capire il griko, e la loro competenza è spesso limitata a elementi lessicali appresi attraverso attraverso corsi scolastici o iniziative culturali, più che in ambito familiare.
Ma c’è un fatto curioso che mi preme ricordare. Già Vito Domenico Palumbo (Calimera, 1854-1918), uno dei più illustri studiosi di questa lingua, poeta, neogrecista e profondo conoscitore del folklore salentino, qua due secoli fa segnalava il rischio di estinzione della lingua grika. Le cose quindi andavano male già da tempo. Ma c’era (c’è) realmente la possibilità che il griko conservasse una vitalità?
La frattura del secondo dopoguerra: quando il griko era vergogna
Come accennato, la generazione nata tra gli anni Quaranta e Cinquanta ha rappresentato un punto di svolta: è lì che si è interrotta la trasmissione familiare. Le ragioni sono molteplici, e già in parte esposte, ma una merita un’attenzione particolare: lo stigma sociale che gravava sul griko, bollato come “lingua degli umili, dei reietti”, associata alle condizioni socio-economiche dei suoi parlanti, quindi da cancellare.
Non posso dimenticare alcuni che, nati sulla costa quando, sorridendo come in virtù di un’antica diceria, ancora negli anni Novanta definiva i miei nonni dell’entroterra come “gente cu doi lingue” (gente con due lingue), con tono sprezzante, “li grichi, persone di cui non ci si può fidare”. D’altronde mia nonna Rosina, grika che a stenti aveva terminato la terza elementare, il griko lo parlava solo con le sorelle o con le vicine, ma mai con suo figlio. Lo voleva emancipato, perché non poteva sapere che essere bilingue era motivo d’orgoglio, e nemmeno che una delle sue lingue aveva origini che risalivano a Omero.
Eppure, una strada di vitalità il griko l’aveva trovata: più di una volta, la nonna o le vicine, quando ormai io ero grande e il griko aveva smesso di essere una vergogna, mi raccontavano che c’era chi il griko aveva voluto impararlo a tutti i costi: i mercanti, sia della Grecìa che dei paesi limitrofi, perché era importante sulle piazze avere una lingua in cui contrattare, con cui scambiarsi informazioni, senza farsi capire dai più. Una sorta di funzione criptolalica di cui parlano molti studiosi. La stessa a cui credo ricorresse per comunicare cose che io o gli altri nipoti non dovevamo sapere. Il dialetto era per tutti, il griko la lingua dei segreti.
Oltre l’uso: il griko come lingua della memoria
Negli ultimi decenni, però, la situazione è cambiata: il griko ha conosciuto un recupero di prestigio e numerosi tentativi di rivitalizzazione, spesso promossi dall’Unione dei Comuni e dalle associazioni locali. Queste iniziative sono state in parte facilitate dal riconoscimento ufficiale del Grico come minoranza linguistica storica con la Legge 482 del 15 dicembre 1999. Da allora, la lingua grika è stata al centro di una sorta di reinvenzione che l’ha trasformata da marchio di umiltà in qualcosa su cui vagheggiare, in maniera romantica.
Chiaramente questa riscrittura partecipava a quella più ampia del concetto di Salento, che ha messo in luce anche le sue tradizioni popolari, sulle quali in realtà, con intenti diversi, alcuni intellettuali e musicisti lavoravano da almeno trent’anni (si veda la storia di Rina Durante e del Canzoniere Grecanico Salentino, ad esempio).
Così, il griko è diventato per molti un valore. Non è irrilevante il fatto che il riconoscimento formale abbia consentito ai Comuni di accedere a finanziamenti europei destinati alle minoranze linguistiche. Questo ha dato impulso a numerose iniziative per la valorizzazione del patrimonio linguistico ellenofono: l’attivazione di sportelli linguistici, l’introduzione dell’insegnamento del neogreco in alcune scuole (curiosamente non del griko, ma del greco moderno), l’organizzazione di eventi culturali – concerti, spettacoli, rassegne – e la pubblicazione di materiali didattici come grammatiche, vocabolari e manuali.
Tuttavia, non mancano le criticità. Ci si interroga sull’efficacia reale di molte di queste iniziative: sono strumenti di tutela linguistica o solo operazioni di promozione culturale e turistica? Inoltre, si avverte una certa distanza tra l’interesse istituzionale per la “minoranza linguistica ufficiale” e i bisogni concreti dei parlanti, spesso esclusi dai processi decisionali. Nonostante il recupero simbolico del griko come patrimonio identitario, la trasmissione intergenerazionale resta fragile, e la competenza linguistica effettiva continua a calare.
Anche perché è improbabile che il griko torni a svolgere una funzione linguistica regolare: gli ambiti semantici in cui può operare oggi sono limitati, perlopiù al religioso, al cattolico, al sentimentale. Per tutto il resto, la lingua mutua parole dal dialetto romanzo o dal greco moderno, spesso adattandone le desinenze.
Parallelamente alle iniziative istituzionali, si è sviluppato un interesse crescente per l’uso artistico del griko. Autori, poeti, musicisti lo hanno scelto per le loro opere, rafforzandone il valore espressivo e simbolico. Uno degli esempi più noti è la Notte della Taranta, il festival di musica popolare che ogni anno si conclude con Calinitta (Buonanotte), brano che è ormai quasi un inno griko. Di recente, i versi di questa canzone fendono anche i cieli del mio paese, Castrignano dei Greci, dove sono appesi come luminarie nel centro storico.
Se giudichiamo la vita di una lingua in base alla sua utilità quotidiana, allora il griko è morto da tempo. La cosa interessante è come la lingua sia stata riappropriata. Oggigiorno, quando le persone parlano griko lo fanno perché ‘vogliono’ e non perché ‘ne hanno bisogno’.
Proprio in questa prospettiva si inseriscono alcune esperienze recenti che meritano di essere segnalate: l’associazione Grika milume ha pubblicato per tre anni, con cadenza trimestrale, il giornale I Spitta, interamente in lingua grika; attualmente, in diversi Comuni dell’Unione sono attivi corsi di griko, tra cui quello bellissimo e molto partecipato organizzato dall’associazione Esterno Notte e dal Comune di Zollino, condotto da Mattia Manco, forse uno dei più giovani parlanti griki; importantissima anche i Doomada Grika (“la settimana grica”), una sorta di campus estivo giunto alla quinta edizione: incontri e lezioni su più livelli che si terranno quest’anno a Martano, dal 18 al 24 agosto. La cosa straordinaria è che sono soprattutto i giovani a partecipare. Potete trovare informazioni qua.
Corso di Griko organizzato da Esterno Notte (Fabrizio Lecce)
Ora, come ci ricorda Pellegrino e come appare inevitabile, il griko non tornerà a essere una lingua quotidiana. Ma l’auspicio è che si conservi come testimonianza di un legame profondo: quello che fa del posto in cui sono nata un crogiolo di facce, caratteri, suoni e culture. E, almeno per un desiderio personalissimo, che io possa preservarne alcune parole e tramandarle, perché in quelle parole risuona il mondo di chi mi ha preceduto.
Quella delle lingue minori è una storia che ancora oggi interroga chi abita questi luoghi, ma anche chi studia i margini, i confini, le sopravvivenze. Perché le lingue non muoiono davvero, finché c’è qualcuno disposto a raccontarle.
*Insegnante ed editor, lavora da oltre un decennio con case editrici nazionali, tra cui Fazi Editore, Italo Svevo, Treccani Grandi Opere, Giunti. Si occupa di linguaggio Easy to Read, scrittura creativa ed educazione alla lettura. Ha scritto il podcast DiClassica sulla vita e l’opera di otto musiciste e compositrici dimenticate.