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Tradurre dal georgiano: intervista a Francesco Peri

Nel nostro paese esistono pochissimi specialisti di lingua georgiana di madrelingua italiana: Francesco Peri è uno di questi. Nato a Brescia, si è specializzato in filosofia e storia dell’arte alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha pubblicato saggi sulla storia dell’estetica, studi sulla letteratura contemporanea e numerose traduzioni italiane di autori francesi, tedeschi, inglesi, russi, nordici e georgiani per sviariate case editrici, tra cui E/O, Marsilio, Raffaello Cortina e Bompiani.

Tra le opere da lui tradotte dal georgiano ricordiamo Il cavaliere dalla pelle di pantera, graphic novel di David Mač'avariani basata sul romanzo lirico in versi di Šota Rustaveli (Modern Times, 2023), La santa tenebra di Levan Berdzenišvili (E/O, 2018) e La conta di Tamta Melašvili (Marsilio, 2018).
Cosa ti ha portato a scegliere il georgiano?

Parlerei di seduzione, più che di una scelta: è così per tutte le mie lingue. In certi anni la Georgia è stata per me un luogo dell’anima, uno di quei posti (magari solo immaginati) che inspiegabilmente ti fanno dire: “Casa!”. Insomma un oggetto di rêverie, di misteriose nostalgie. Come in altre epoche il Giappone, la Norvegia, la Germania di Weimar… Povero me, se avessi agito per calcolo! Quando ho iniziato le risorse erano poche, i contatti sporadici, le tecnologie primitive. Solo un innamorato poteva persistere. E parlo soprattutto di amore per la lingua, anche se in origine, per breve tempo, c’è stato un ancoraggio – come dire – più umano. Una lingua che dopo vent’anni, solo a vederla stampata, solo a pensarci, mi pompa di endorfine (e cortisolo!).

La bellezza dell’alfabeto, le vertigini della grammatica, il fascino di una sintassi arcaica, non-indoeuropea, ma anche tanto porosa, così pronta ad accogliere parole persiane, greche, russe, oggi inglesi, così naturalmente propensa alla poesia… C’era il senso di un mondo a parte, di una realtà ancora inesplorata, né Asia né Europa. Sotto l’adstrato sovietico, trait d’union con certe mie fissazioni di ragazzo (la Russia, il Novecento), si indovinava un antichissimo passato pagano, curiosamente ibridato ma ancora evidente in tante cose.

Gloriose miscele di usignoli e montanari, tamarraggine e sublimità cavalleresca! Rose, canzoni, caffetani con le cartucciere! E poi libri rari, verbi irregolarissimi, una fonetica estrema, un quasi totale isolamento filogenetico… Ci si invaghisce per molto meno. Senza contare il gusto della sfida gratuita, specialmente come autodidatta, perché il georgiano – devo precisarlo? – è una lingua di esasperante difficoltà. Come gli eroi cortesi di Rustaveli, non ho avuto altro scopo che onorare e corteggiare quella lingua, proteggerla, senza secondi fini. Magari comprarle un abitino italiano. Però mai avrei pensato di farne un aspetto (seppure infinitesimo) del mio lavoro. Da questo punto di vista sono un Don Chisciotte felice!

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Come ti sei avvicinato alla traduzione?

Per vile denaro, dopo essermi lasciato con l’università. Parliamo di una traduzione “alimentare”, di puro volume. Certo fatta bene e in contesti seri, ma pur sempre mercenaria. Lavorando, però, ho scoperto che non solo ero capace, ma ero portato. Che tutto un bagaglio di esperienze e sensazioni, dalle curiosità infantili per il linguaggio alle versioni del ginnasio, e poi un certo repertorio di pratiche, saperi, ambizioni, gusti personali e forse addirittura talenti facevano di me una specie di “horse whisperer” del testo. Sentivo di afferrare per istinto i sottintesi, le tensioni strutturali, la forma, le modulazioni dello stile. Di poter garantire all’autore di cui ero vicario: “Capisco esattamente che cosa intendi dire, dove vuoi arrivare. Allaccia la cintura, in italiano guido io”.

Ho una percezione molto densa del linguaggio. Molto globale, quasi cinestesica. Ogni parola è una rete di reminiscenze letterarie, è un ritmo, un suono, una traiettoria nello spazio, una storia che risale al greco, al protogermanico, al sanscrito. E tutto concentrato in un punto, tutto sentito in simultanea. Forse anche per questo, nel privato, leggo meno di prima: è come un brodo spessissimo, è una trance che succhia energie. Oggi traduco quasi a tempo pieno. Non so se andarne fiero: è una fatica bovina – hénaurme, per dirla con Flaubert. Ma almeno mi liscia nel senso del pelo. Mi sfianca, ma non mi snatura.

francesco peri georgiano
Qual è stato il primo impatto con la Georgia?

Confessione: non sono un viaggiatore. Dei paesi amo l’aspetto “intelligibile”, quello che solo a posteriori, nella mente, si scorpora dal caos delle impressioni, delle ansie, dei piccoli attriti, degli entusiasmi. Visitare i posti mi piace, ma l’evidenza, per me, tende a produrre il suo contrario: nel folto del bosco il bosco non si vede. Per cui non ricerco il contatto diretto, l’immersione. Anzi, mi è indispensabile tenere le distanze – guardo di sottecchi, con la coda dell’occhio, come non so più che uccello di cui parlava Handke in una bella pagina. I miei georgiani, di conseguenza, sono soprattutto quelli della diaspora. Principalmente qui, a Parigi, anche se il ricambio me li porta via. Ci parlo in tedesco, in francese, in russo, in italiano, ma nella loro lingua quasi mai. La vita mi ha dato qualcosina, però non la faccia tosta.

Penso al giovane Marie-Félicité Brosset, il grande studioso dell’Ottocento. In gioventù si è imparato il georgiano da solo (colpo di fulmine anche per lui), e mai avrebbe creduto di praticarlo. Poi viene a sapere che a Parigi è sbarcato non so che principe in esilio (siamo verso il 1826). Si precipita in hotel, tutto eccitato. Bussa, balbetta qualcosa, ansimante, incredulo di avere davanti un cartvelo in carne e ossa. L’altro non capisce una parola e lo mette alla porta. In questo aneddoto c’è tutta la mia problematica: un grumo di entusiasmi, soggezioni, paure, idealizzazioni, vulnerabilità. Per cui ho accettato questa posizione di satellite, tenuto in orbita da forze centrifughe e centripete, “così lontano così vicino”. Sono un essere libresco, il mio medium conoscitivo sono le risonanze della lingua, più che l’esperienza dei luoghi.

Parlaci della tua parola preferita in georgiano.

L’inferno, per me, è il questionario di Proust! Ho una visione disperatamente olistica delle cose: non ho mai saputo qual è il mio libro, il mio album, il mio ricordo “preferito”. Amo per generi, per discografie, per interi dizionari. Delle parole georgiane mi piace come stanno in bocca, come abitano il palato, la gola. Come si prestano alla recitazione. Sono ricche di impervie consonanti, anche sette di fila, ma le vocali sono sempre al posto giusto – per cui, dopo averti malmenato la glottide, cadono in piedi.

Alcune sono piene di luce e mistero, come ვარსკვლავი varsk’vlavi, “stella”, altre sono strafottenti e disinvolte, come დარდიმანდი dardimandi, che in un romanzo era il nome di un cavallo (e oggi è il nome del mio trascuratissimo blog): vuol dire uno che la prende scialla, uno che campa alla giornata, sicuro e fiducioso del fatto proprio. (Non guardate me!).

Adoro i persianismi, le parole dalle ciglia lunghe, come ფანჯარა panjara (“finestra”) o ბაღი baghi (“giardino”) o anche solo ბადრიჯანი badrijani (“melanzana”). Mi esaltano le radici arcaiche, quelle imparentate con le lingue caucasiche del Nord – spigolose, monosillabe, alpestri. Mi intenerisco per certi sgangherati prestiti dal russo. Potrei passare una giornata di gioia perfetta solo a declamare parole georgiane, anche le più banali, a caso. მაცივარი macivari!! (“frigorifero”) თვითმფრინავი tvitmprinavi!! (“aereo”) ჩრდილოეთი črdiloeti!! (“nord”), ობობა oboba!! (“ragno”). Insomma, non scelgo: “Chi a una sola è fedele all’altre è crudele”.

francesco peri georgiano
La parola secondo te più difficile e/o impossibile da tradurre dal georgiano è…

Non credo in queste cose, tradurre si può sempre. Magari in forma perifrastica, magari per compensazione, magari malissimo… Però il georgiano ti deborda da ogni parte, è vero: il verbo codifica in forma sintetica l’aspetto, la direzionalità, l’intenzionalità, la riflessività, le sfumature benefattive, l’evidenzialità. Lo sai perché lo hai visto o te lo ha detto qualcuno? Non lo hai fatto perché non volevi o perché non potevi? Prendiamo il classico შემომეჭამა šemomeč’ama, di fama internettara: esplicitando, significa “non intendevo mangiare questa cosa, ma nella foga mi è venuto da sbafarlo mio malgrado – capiscimi”.

La morfologia è molto produttiva: una volta, in un libro, ho trovato l’avverbio მატერაცისავით mat’eracisavit, “alla maniera di Materazzi [nella finale del 2006]” (quando si è preso una craniata da Zidane). Oppure, dalla già citata parola per “stella”, ვარსკვლავი varsk’vlavi, si ottiene facilmente un mostruoso ვვარსკვლავთმრიცხველობ vvarsk’vlavtmrickhvelob, “mi occupo di astronomia”.

Alcuni termini fissano aspetti curiosi di un’azione, come il fruscio che si fa tra i cespugli quando si cerca di non dare nell’occhio (შლიგინი šligini). O la parte di una traiettoria in cui si passa oltre un ostacolo. O quello specifico sternuto che fa il cavallo quando sbuffa: ფრუტუნი prut’uni. O addirittura quel sapore un po’ stantio che prende l’acqua rimasta troppo tempo nel bicchiere.

Ma la parola più difficile da rendere, per me, è ლაღი laghi (*), specialmente applicato a una donna: indica una certa briosa disinvoltura unita al senso della libertà e dignità personale, una fierezza non scontrosa, un’indipendenza di carattere tra il selvatico e l’avvenente. Tutta una poesia del femminile caucasico, almeno per come la sento io!

(*) Il gruppo “gh” non si si pronuncia all’italiana, ma come l’arabo غ

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Raccontaci della tua prima opera tradotta dal georgiano.

Esperimenti privati a parte, un racconto di Laša Bughadze, l’ex enfant terrible: “La madre di Putin”. Ispirato alla storia vera di una contadina russo-georgiana (tra l’altro morta quest’anno!) che per una serie di coincidenze a volte incredibili era convinta di essere la madre carnale di Vladimir Putin, il cui passato è notoriamente oscuro. È un testo divertente, grazioso. All’epoca lo hanno capito in pochi – o non sapevano che il personaggio drammatizzato (propriamente è un monologo teatrale) esisteva davvero. Né forse era chiaro, all’epoca, perché le popolazioni russo-adiacenti vivessero con tanta “intensità” l’ex sindaco di Pietroburgo. Oggi, magari, un po’ sì…

Qual è il tuo rapporto con gli autori che scrivono in georgiano?

Piuttosto cordiale con i viventi, ma ancora più cordiale con quelli morti… Scherzi a parte, sono sempre molto grati per l’interesse – specialmente quando a tradurli non è un compatriota in diaspora, ma un poveretto che ha studiato la lingua (cosa un tempo inconcepibile, oggi più comune). Lo sforzo e la pena di uno sconosciuto sono la moneta spicciola della gloria! Ciò detto, non ho rapporti assidui con scrittori o poeti, neanche con i “miei”. Gli sbocchi editoriali sono limitati, per cui non posso offrire loro più di qualche versione impromptu sul mio blog. E la Georgia, purtroppo, non è sempre on my mind – anzi… tengo famiglia.

francesco peri traduzione georgiano
Che genere traduci più spesso e/o quale genere ti interessa di più?

Il grosso dei miei ingaggi dalle lingue “normali” è nella saggistica. La mia specialità sono i generi non-fiction di maggiore impegno stilistico, ai limiti del letterario. Ma faccio anche molta divulgazione scientifica. Gli editori mi disegnano così, come un accademico in scambio culturale. Pochi sanno delle mie velleità letterarie, dei miei piccoli trascorsi, dei miei studi franco-tedeschi. Per cui di romanzi ne faccio pochi.

Ma va bene così: si traduce pro nummis anche per serbarsi liberi dentro. Con il georgiano è un po’ il contrario! Saggistica non se ne vede. In compenso mi sono fatto apprezzare – magari solo per cortesia, non so – come traduttore di poeti. Buffo, data la mia visione piuttosto antilirica del verso. Con la Georgia di mezzo, d’altra parte, non capire la poesia è come essere astemi a un banchetto – molti amici non te ne fai…

Il nome di un’autrice o un autore che vorresti portare in Italia e/o che avresti voluto portare in Italia

Una caterva! Alcuni li ho tradotti almeno a spilluzzichi, o per il cassetto, in attesa di poterli collocare. Al momento mi interrogo molto su Guram Dočanašvili, autore di un grosso romanzo vicino al realismo magico, poeticissimo nella lingua e spiazzante nella forma: La prima veste. Immagina la storia del figliol prodigo in un mondo stilizzato che sembra un po’ un’Italia da commedia dell’arte. Difficile ricreare da noi l’effetto che può avere avuto in patria, quello di una boccata di fantasia e leggerezza, ma pensare che una cosa del genere è stata scritta negli anni Settanta e Ottanta, sotto Brežnev e Andropov, ha dell’incredibile. Quella era la funzione storica della Georgia: il polmone di umanità e sogno di un paese anchilosato!

Perché dedicarsi alle cosiddette lingue “minori”? Vantaggi e svantaggi

Se vuoi mangiare, è chiaro… non pagano. Il georgiano ha rimborsato una frazione di quello che ho investito. Ma non si vive, per l’appunto, di solo pane. Una lingua, anche la più “piccola”, è l’intera realtà, tutta la vita, ancora una volta, daccapo – e quindi è una cosa gigantesca! Per chi ritiene che entrare nell’esperienza altrui sia una cosa buona di per sé non occorrono altre spiegazioni, e non esistono lingue secondarie. I vantaggi non sono orizzontali, cioè relativi ad altre opzioni possibili, ma verticali. Riguardano il rapporto che si instaura con il mondo.


Francesco Peri stato anche ospite dell’ottava puntata della prima stagione di Cemento, il podcast di Eleonora Sacco e Angelo Zinna.

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Giorgia Spadoni
Giorgia Spadoni

Traduttrice, interprete e scout letterario. S'interessa di storia e cultura est-europea, in particolar modo bulgara. Ha vissuto e studiato in Russia (Arcangelo), Croazia (Zagabria) e soprattutto Bulgaria, specializzandosi all'Università statale di Sofia. Tra le collaborazioni passate e presenti: East Journal, Est/ranei, le riviste bulgare Literaturen Vestnik e Toest, e l'Istituto Italiano di Cultura di Sofia. Nel 2023 è stata finalista del premio Peroto per la migliore traduzione dal bulgaro in lingua straniera e nel 2024 vincitrice del premio Polski Kot.