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Tatiana Țîbuleac, una voce per le donne moldave

È marzo e all’ambasciata moldava in Belgio si tiene un incontro con una scrittrice. Si tratta di Tatiana Țîbuleac, una ex giornalista moldava, nota per essere stata curatrice della rubrica Racconti veri (Povești adevărate) sul quotidiano Flux negli anni Novanta; è stata invitata a parlare dei suoi romanzi. Ne ha scritti tre in pochi anni: Favole moderne nel 2014 (Fabule Moderne), L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi nel 2017 (Vara în care mama a avut ochii verzi) e Il giardino di vetro (Grădina de sticlă) nel 2018. Una folla di donne riempie la stanza, moldave, s’intende. Anche se i suoi libri sono tradotti in francese e spagnolo (di recente anche in italiano da Ileana M. Pop per Keller), Țîbuleac sembra parlare all’anima più intima delle donne moldave.

Leggendo Il giardino di vetro, il romanzo che le è valso il premio dell’Unione Europea per la letteratura del 2019, capisco il perché. Questo romanzo è un racconto che parla soprattutto di donne. Non solo di loro, ben inteso, il romanzo è un’ode agli emarginati, ma difficilmente gli “ubriaconi” e gli “storpi” di cui racconta Țîbuleac si troveranno nella borghese Bruxelles ad ascoltare l’autrice raccontare dei retroscena e pensieri che hanno guidato la scrittura de Il giardino di vetro.

Un romanzo di donne per donne

Cosa significava essere donna negli anni Ottanta a Chișinău? Significava essere un’orfana, una prostituta che attende un amore mai ricambiato, una misandra, una lavoratrice, una ragazza che sogna solo di sposarsi con un uomo di successo (sia russo o rumeno, a seconda dell’interlocutrice).

Ma significava anche vergogna in una società sessista in cui si subiscono stupri, si hanno aborti spontanei, indotti, in cui si sogna l’amore senza veramente capire cosa la parola rappresenti. Infine, significava solidarietà, una società creata all’ombra del comunismo e lontano dal supporto degli uomini, spesso un contorno di personaggi superflui ed inconsistenti che lambiscono solo superficialmente il mondo femminile.

Esempio lampante è Valentina Igorevna, professoressa di biologia che dà lezioni private a Lastočka (letteralmente, in russo, rondine) perché diventi medico. Costretta a curare la suocera inferma per via della “sua responsabilità di donna”, non ha realizzato il suo desiderio di diventare medico, in gran parte per mancanza di supporto del marito alcolizzato.

In questo sovrapporsi di significati si coglie anche come l’amore, il vero amore, in quel contesto fosse possibile solo tra donne. Tutti i romanzi sono, in una certa misura, romanzi d’amore, e Il giardino di vetro non fa eccezione: c’è l’amore per una madre adottiva e quello per una figlia malata. Per l’uomo c’è solo infatuazione, temporaneo innamoramento, ma l’amore, quello fatto di dedizione, sacrificio e orgoglio lo si vede solo tra madre e figlia, in ognuna delle famiglie qui raccontate.

Questo amore lo si nota nel senso di colpa che perseguita la protagonista che teme sempre di diventare “una creatura ingrata” (neblagodarnaja tvar’), ma che soffre anche per aver generato una figlia non sana (questo ben si sposa col perdurante sessismo che spinge la donna a biasimarsi per le malattie genetiche del proprio bambino senza mai mettere in discussione il partner). Invece, non c’è compatimento per gli uomini, a meno che non diventino emarginati.

Un romanzo per gli emarginati

Chiunque abbia vissuto anche solo per un breve periodo in un cortile sovietico, di quelli nati dall’accerchiamento di grandi palazzi condominiali, capirà ciò di cui parla l’autrice. Non importa se sia Chișinău, Kyiv o Tiraspol, quel cortile è un non-luogo sovietico, uno spazio che non ha tempo o, come lo chiamano i bambini, “la nostra isola” (naš ostrov).

Lastočka, la protagonista, non fa che notare il contrasto tra l’orfanotrofio in cui Tamara Pavlovna l’ha comprata e il palazzo in cui si ritrova a vivere. Quello spazio diventa il suo nuovo universo, fatto di dirimpettai ed emarginati che lo affollano.

Oltre alle donne del palazzo che diventano zie, sorelle maggiori, confidenti e amiche di un’orfana che non ha mai conosciuto la propria famiglia, questo spazio si popola di ubriaconi, vagabondi, reduci di guerra e storpi. Ognuno di loro ha una storia, ognuno ha un ruolo, ognuno diventa un ricordo dell’infanzia della protagonista.

In cortile ci sono anche i bambini. Țîbuleac fa un lavoro egregio nello spogliare rapporti e personaggi della loro patina di ipocrita romanticismo. E i bambini non fanno eccezione. Agli occhi della protagonista i bambini moldavi sono descritti per quel che sono: mostri. Non solo nelle urla della madre di Pavlic dopo che gli altri gli hanno cavato un occhio, ma anche nei ricordi della protagonista quando il piccolo Volodymyr si serve di un inerme riccio per picchiare Oxanca.

Beninteso, i bambini non sono che l’imitazione degli adulti e, in quanto tali, pieni di quella crudeltà che contraddistingue il moldavo medio descritto da Țîbuleac: incattivito dalla povertà e dalle ingiustizie del sistema in cui vive. Il problema non sono quindi i bambini, ma i moldavi.

Un romanzo per i moldavi

Un’osservazione fattuale rispetto alle opere letterarie e cinematografiche moldave più celebri degli ultimi anni: in Prima che Brežnev morisse, si parla di miseria e sofferenza; in Italia, mon amour Lorčenkov non vuole descrivere i mille e uno modi per fuggire dalla Moldova (come suggerito dal titolo francese), ma quelli in cui i moldavi si pugnalano a vicenda alle spalle; in Love is not an Orange la regista Otilia Babara mostra come i rapporti tra genitori e figli si siano spesso inariditi per l’eccessivo interesse dei primi nei beni materiali.

Sono solo alcuni esempi, ma raccontano di un popolo che si descrive come arido, egoista, materialista e crudele. Questa è solo una parte della verità, ma questi artisti riescono nell’arduo compito di spingere i propri connazionali a guardarsi allo specchio, riconoscendosi nei propri difetti senza per questo smettere di compatire.

In mezzo a personaggi odiosi quali Kyra (Kyrill Ivanovič), il maestro di ginnastica che molesta le bambine, o lo stupratore senza volto, la maggior parte dei personaggi trasmettono dolcezza al di là della sofferenza: Polkovnik (letteralmente, in russo, colonnello), per esempio, che regala frutta ai bambini fino a che un incendio non brucia il suo orto. Quest’ambiguità spicca in Tamara Pavlovna che compra un’orfana per avere due braccia in più nella raccolta di bottiglie, salvo poi mandarla a scuola e intestarle un conto con dei soldi in banca.

Come accennato all’inizio, però, il Il giardino di vetro è una cassa di risonanza per il vissuto delle donne moldave, che capiscono le tragedie delle protagoniste, le hanno vissute o ne hanno sentito parlare. Ma il pubblico a cui parla questo libro è ben più ampio.

Niente di più cruciale della confusione della protagonista nell’imparare lingue diverse può descrivere meglio l’identità moldava dell’epoca: acquistata da un’orfanotrofio da una donna di madrelingua russa, in principio Lastočka non capisce una parola di quello che le dice la madre adottiva. Qui, la scelta dell’autrice di tenere tutte le espressioni in russo in originale nel corpo del testo (la traduzione è offerta in nota) è ancora più rilevante se si tiene conto del contrasto col rumeno nel testo originale. Difficile trovare qualcosa di più moldavo.

Una volta appreso il russo, la bambina chiede di essere iscritta a una scuola moldava e, divenuta la prima della classe in lingua moldava, il programma di studi cambia in rumeno. Ciò che muta effettivamente è l’alfabeto, non più cirillico ma latino, ma si aggiungono tutta una serie di regionalismi resi inattuali dalla transizione dal moldavo antiquato a quello moderno.

Greta ha portato a scuola un libro scritto in una lingua straniera. Oltre all’inglese, che avevo iniziato a studiare quattro volte a settimana. Mi piaceva l’inglese e l’ho imparato in fretta. È vero che, dopo le lezioni di russo con Tamara Pavlovna, tutte le lingue mi sembravano facili. I caratteri del libro di Greta erano come quelli dell’inglese e alcuni avevano anche delle piccole code o dei coperchi. Le parole, invece, erano piuttosto lunghe. Ho letto una frase e, con mia grande sorpresa, ho capito tutto. Quello che sentivo assomigliava molto alla lingua moldava! “Cos’è questo?” ho chiesto, curiosa, a Greta. “È rumeno”, ha risposto lei, poi, più concentrata: “La nostra lingua”. Non sapevo cosa credere. Come poteva, una lingua quale la nostra, essere scritta con tali lettere? E, soprattutto, perché?

Nessun esempio è più lampante di quello della frutta, che per Lastočka ormai adulta e trasferitasi a Bucarest ha come perso il suo sapore: in Romania lei continua infatti a nominare i frutti usando parole dialettali o arcaiche del moldavo, talvolta utilizza termini russi, mentre i nomi di quegli stessi frutti in rumeno sembrano togliere loro l’originario sapore.

Il giardino di vetro

Lo stesso nome Lastočka, dal russo (come già detto) “rondine”, è forse un espediente per raccontare i sentimenti di una protagonista che per tutta la sua adolescenza sogna di volare altrove, verso un sogno, una carriera, quella di medico, che le permetta di sfuggire alla miseria e alla sofferenza.

Il giardino di vetro testimonia che anche la bellezza può nascere nella miseria, ma ancor di più che questa è negli occhi di chi guarda. E così il deposito di bottiglie raccolte da Lastočka e Tamara Pavlovna diventa un giardino di vetro, rifugio che si riempie di colori quando la luce del sole penetra attraverso le sbarre dell’unica finestra. La bellezza della luce attraverso il vetro ritorna più avanti nel romanzo con un caleidoscopio trovato da Lastočka.

Ma come materia o come metafora, il vetro ricorre in tutto il romanzo: da un lato come malattia genetica della figlia della protagonista, Tamara, che soffre della malattia delle ossa di vetro” e, dall’altro, nella frammentazione della scrittura, dei ricordi, dei cocci di se stessa che Lastočka non riesce a ricomporre.

In ultima istanza, il vetro rappresenta la fragilità della vita: che può andare in frantumi in un istante, nonostante tutti i nostri sforzi. Che in questo susseguirsi di metafore il vetro non rappresenti la dura infanzia di Lastočka, che come raggio di luce sboccia solo una volta passata oltre?

Se voleste recuperare Tatiana Țîbuleac

Il giardino di vetro non è ancora disponibile in italiano (seppure reperibile in francese, spagnolo e rumeno, impresa non impossibile per i lettori poliglotti di Meridiano 13), ma come anticipato, Keller editore ha pubblicato L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi. Seppur meno riuscito de Il giardino di vetro, questo romanzo contiene già tutta Țîbuleac: un difficile rapporto tra madre e figlio, una scrittura in prima persona fatta di episodi brevi.

I protagonisti sono una famiglia di origine polacca che, come la scrittrice, si trova in Francia. La premessa è che Aleksy sceglierà di passare un’intera estate con l’odiata madre in un villaggio della Francia sapendo che otterrà un’agognata automobile in premio. Così come Il giardino di vetro, questo romanzo propone un rapporto travagliato che alle volte colpisce il lettore al punto da sembrare un pugno nello stomaco. L’esempio perfetto è l’incipit:

Tatiana Țîbuleac

Quella mattina in cui la odiavo più che mai, mia madre aveva compiuto trentanove anni. Era piccola e grassa, stupida e brutta. Era la madre più inutile che fosse mai esistita. La guardavo dalla finestra mentre se ne stava al cancello della scuola come una mendicante. L’avrei uccisa senza pensarci due volte. Muti e spauriti, gli altri genitori mi passavano accanto. Un triste cumulo di perle finte e cravatte da due soldi che veniva a prendere da scuola i figli falliti lontani dagli occhi della gente. Almeno loro avevano fatto lo sforzo di venire su. Mia madre se ne sbatteva di me e del fatto che, nonostante tutto, avessi finito la scuola.

Eppure, lo stile così riconoscibile dell’autrice ha raggiunto il suo apice con Il giardino di vetro che, non solo ha i pregi di L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi, ma anche un’ambientazione, quella di Chișinău, che lascerà stregati i lettori italiani. Speriamo solo che Keller editore non ci faccia attendere troppo per la sua traduzione.

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Gian Marco Moisè
Gian Marco Moisè

Ricercatore e divulgatore scientifico, esperto in relazioni internazionali, scienze politiche e dell'area dello spazio post-sovietico con un dottorato conseguito alla Dublin City University. Oltre all’italiano parla inglese, francese, russo, e da qualche mese studia romeno.