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Sachalin. Viaggio sull’isola ai confini della Terra

Eleonora Sacco, organizzatrice di viaggi e co-autrice dei podcast Kult e Cemento, ci accompagna nella remota isola russa di Sachalin. Questo articolo, originariamente pubblicato nel blog di Eleonora, Pain de Route, è un estratto di Isola, capitolo incluso nel suo libro Piccolo alfabeto per viaggiatori selvatici, (Edea, 2020).*

Sono ormai anni che cerco sempre di non viaggiare in maniera standard. Non per la mia percezione di standard, perlomeno. Nonostante l’epicità intrinseca di un viaggio come la Transiberiana, c’era qualcosa dentro di me che mi diceva che sì, potevo andare oltre. Che l’avevo già fatto altre volte, che quel senso di colpa proprio non aveva senso: mi bastava allungare la mano e prendere quello che volevo. Proprio come quando, in un pomeriggio già buio dell’autunno di un anno e mezzo prima, dalla scala appoggiata allo scaffale della biblioteca dove lavoravo allungai la mano e presi L’isola di Sachalinun libro di Anton Pavlovič Čechov.

Con me nessun viaggio nasce per caso. Anche la più assurda delle coincidenze ha un richiamo, un nodo di origine, un seme che era già dentro di me e che poi germoglia. Il seme di Sachalin era la noia ingannata scrivendo di nascosto in quella biblioteca, la polvere respirata svuotando scaffali, i panorami che vedevo leggendo centinaia di titoli di libri ogni giorno.

Il 18 giugno di due anni dopo, toccavo l’isola di Sachalin in tempo per il tramonto, e mi scendeva una lacrima al sentire, per la prima volta dopo aver attraversato tutta la Russia in treno, l’odore dell’Oceano.

Abbiamo consigliato Piccolo alfabeto per viaggiatori selvatici qui!

Alla scoperta dell’isola di Sachalin

Scendo dall’aereo dopo aver seguito l’atterraggio con la stessa emozione di un pilota al primo volo. L’isola è un animale vivo, morbidamente ricoperto di un manto verde fitto e impenetrabile. Respiro a pieni polmoni e, per la prima volta dopo quasi 9.000 chilometri via terra da Mosca, sento l’odore inconfondibile e profondo del mare. La salsedine in fondo alla gola, nei capelli, sui polpastrelli che sfiorano il palmo delle mani nei pugni chiusi: la sensazione di essere nel luogo giusto, dopo tutta quella strada, è talmente forte che non trattengo la commozione. 9.000 chilometri di pensieri densi, cadenzati al ritmo delle rotaie. Sachalin l’avevo immaginata, cercata, progettata, seguita, eppure non avevo pensato al come sarebbe stato rivedere la grande distesa d’acqua salata, quel suo odore inconfondibile che nessun lago avrà mai. Mi ha sorpresa, mi ha trascinata di peso e mi ha detto “eccoti a casa”. Voglio pensare che fosse stata un’emozione ancora più intensa di così per il buon Anton Pavlovič, che mise piede sull’isola nel 1895, dopo aver attraversato la vastità delle Russie in battello, treno, carrozza e infine nave. 

La Transiberiana finisce a Vladivostok, ma l’ultimo vero lembo di terra abitato è la oblast’ di Sachalin, una regione insulare che include la lunghissima e omonima isola e l’arcipelago delle Curili, in parte ancora conteso tra Russia e Giappone.

Sachalin
Isola di Sachalin (Eleonora Sacco/Pain de Route)

L’unica cosa che sapevo veramente di Sachalin, oltre alle vivide descrizioni dei lavori forzati a Aleksandrovsk-Sachalinsk, al numero di figli legittimi e illegittimi di Due, e all’aspetto peloso e indigeno degli ainu e dei nivchi, era che Sachalin nel 2019 è ancora un buco nero del turismo occidentale.

Introvabile sui media in inglese, presente solo per rade questioni petrolifere su quelli russi, le uniche informazioni che avevo erano i forse, i prova a sentire loro e i dovrebbe di WikiTravel, oltre ai bizzarri e in realtà piuttosto inutili blog post di due giapponesi e un indiano che c’erano stati. Oltre alla colonia penale descritta da Čechov, agli stabilimenti petroliferi e alle molte promesse fatte di costruire prima un tunnel (Stalin) e poi un ponte (Putin) con la terraferma, non sapevo molto. Dall’Italia, era evidente che non potessi pianificare la mia settimana a Sachalin più di tanto. Così feci quello che sapevo fare meglio di qualunque altra cosa al mondo: procrastinare il problema.

Tagliai le foreste, le steppe siberiane, i primi monti altaici; costeggiai il Bajkal, le terre rosse buriate, le piane paludose di Birobidžan in uno stato euforico e con la mente inebetita dal mantra del vse budet chorošo. Finché non rimasi l’unica passeggera a bordo di uno scassatissimo autobus verde e giallo diretto verso Chabarovsk nord. L’autista aprì le porte con la solita mancanza di grazia e la bigliettaia mi annunciò, didascalica, vot aeroport.

Fu lì che l’ansia si rimanifestò in tutto il suo più fresco vigore.

Leggi anche: Birobidžan, il primo stato ebraico nell’Urss di Stalin

A quelle longitudini l’Unione Sovietica non se ne è andata mai. Il terminal dei voli internazionali della grossa città portuale di Chabarovsk, a tratti elegante, a tratti inquinata come la Baku degli anni d’oro del petrolio, era nuovo di pacca. Manager cinesi, biznesmeny coreani, qualche turista giapponese che doveva aver confuso la città sull’Amur con la dominatrice dell’Oriente, Vladivostok.

Il terminal per voli interni crollava a pezzi. Quattro panche buttate lì con i seggiolini in tela squarciati, pannelli metallici e vetro design démodé che sembravano staccarsi se li avessi fissati troppo intensamente. Non pensavo avrei mai potuto provare di nuovo quella sensazione di disagio sporco, inefficiente e anni ’70 che provai alla motorizzazione di Milano – per essere precisi, a Molino Dorino, la finis terrae meneghina – il giorno dell’esame teorico per la mia patente. I computer già vecchi ma freschi di acquisto praticamente andavano a pedali, e ad accoglierti nel gelo del dicembre padano c’era un’enorme sala vuota piena di gente infreddolita schiacciata contro le pareti, le stesse panche con seggiolini schiodati, e ovviamente i riscaldamenti rotti.

Ora, io a Chabarovsk c’ero stata a metà giugno, ma il sentore era identico, solo con l’umido marcio che risaliva dall’Amur.

Inutile dire che ero la sola straniera a bordo di quel minuscolo velivolo ad elica di nome Avrora, come la nave ammiraglia che diede il via ai bolscevichi che assaltavano il Palazzo d’Inverno, dalla parte diametralmente opposta dell’impero.

Un giorno prima avevo poi scoperto che il mio brillante piano di percorrere l’isola longitudinalmente, a bordo delle vecchie ferrovie con lo scartamento giapponese, doveva naufragare per cause di forza maggiore: per tutto il mese di giugno 2019, la linea ferroviaria passeggeri era in remont e sarebbe stata sostituita da deliranti autobus con cambi nel cuore della notte in mezzo al nulla della tundra sachalinese.

Così mandai un paio di richieste di ospitalità col vecchio caro CouchSurfing, a Maša, serissima interprete giapponese-russo con gli occhi a mandorla, e Diana, quella col profilo più freak e il cognome ucraino. In realtà nessuna delle due poteva ospitarmi, ma mi mandarono prontamente il numero delle loro rispettive migliori amiche, che invece mi aspettavano a braccia aperte. E ho già detto che su questo blog non si parla di coincidenze, ma di semplici cause-conseguenze.

Nadežda portava il nome della fregata di 450 tonnellate con cui l’ammiraglio Krusenstern salpò da Londra nel 1803, per poi ripartire ufficialmente dall’isola di Kronštadt alla volta del Giappone. Fu con quel viaggio che arrivò fino in Kamčatka e la cartografò, insieme a Sachalin (ancora creduta una penisola) e alle isole Curili.

Isola di Sachalin
Isola di Sachalin (Eleonora Sacco/Pain de Route)

Sull’autobus mi concentro sulla strabiliante antipatia della bigliettaia e sui suoi tratti somatici indiscutibilmente coreani, così perdo la mia fermata. Nadežda (o Nadija) mi viene incontro sul Prospekt Mira, che si chiama come quella su cui abitavo a Mosca, ma dall’altra parte del globo. Caschetto nero, monopattino elettrico, zainetto ergonomico con l’imbottitura per il pc. Andiamo a casa a piedi su marciapiedi rifilati di fresco, aiuole curate come il centro di Zurigo, condomini sovietici ristrutturati e ridipinti a colori sgargianti. Nel grattacielo dove si è comprata un appartamento tutto suo ci fermiamo a prendere dei bliny alla mela da scaldare in padella per cena. Le cassiere sono tutte… asiatiche.

“Uzbeche”mi dice Nadija. Scoppio di gioia all’idea di essere a Sachalin, ma la capitale dell’isola si presenta radicalmente diversa da come me la immaginavo. Una distopia cupa, ventosa e tropicale contemporaneamente, che mi ricorda l’Islanda, le Azzorre, Tel Aviv coi suoi maledetti monopattini elettrici e il Ticino coi suoi marciapiedi perfettini. Mancavano le cassiere uzbeche, in effetti, che mi riportano nella Mosca più spietata delle periferie ammassate di centroasiatici, dove le donne si tingono i capelli di biondo e i nonni girano con lo zuccotto a -20°. È la Russia che fattura.

Nadija parla perfettamente il giapponese, l’ha studiato all’università con Maša e ha fatto una specie di Erasmus a Sapporo, ma ora lavora come export manager in una grossa azienda del petrolio.

Sai, se lavori nel petrolio… ti pagano bene.

Il suo è l’appartamento più bello e nuovo che abbia mai visto in Russia. E giuro che mai e poi mai mi sarei aspettata che fosse proprio a Sachalin. Ma le cassiere uzbeche e il prezzo dei bliny già pronti avrebbero dovuto dirmelo: a Južno-Sachalinsk arrivano i soldi. Ed è per questo che, a Sachalin, se non vuoi fare la fame alla fine finisci col lavorare nel petrolio.

Chiacchieriamo per tutta la sera con la foga inarrestabile di quando trovi una tua sosia di spirito, nata e cresciuta dall’altra parte del mondo ma, sotto sotto, come te. Nadija è l’unica che in questo viaggio non mi chiede perché sono venuta proprio a Sachalin. Non me lo chiede perché ha viaggiato e sa cosa cerco. Glielo dico candidamente e mi scalda il cuore vederla ridere di gusto, con gioia: non riuscivo a credere che la gente qui ci vivesse veramente.

Ma hey, here we are! I pazzi sachalinesi che, indovinate un po’ vivono abbastanza come tutti gli altri, solo che in un posto assurdo. Mi bastano pochi minuti e pochi sorsi di tè cinese per capire che il mondo che gira intorno a Sachalin non è affatto Mosca, com’era fino a Chabarovsk, ma l’Asia. Il Giappone soprattutto, ma anche la Corea, Hong Kong, la Cina, Taiwan, l’Indonesia. Semplicemente perché sono più vicini, più interessanti, più ricchi di Mosca e quindi più belli. Le radici di Nadija però sono tutte europee e si addensano proprio lì dove volevo scavare.

La sua bisonna materna si era laureata in medicina, a Mosca, nel 1940. Era pronta a tornare dalla sua famiglia a Voronež quando le dissero: dovrai prendere servizio a Sachalin. Quella ragazza poco più che ventenne a stento sapeva dov’era Sachalin. Ma il compagno Stalin aveva detto che servivano medici, a Sachalin, e non si poteva rifiutare. Così fece le valigie per quello che non sapeva sarebbe diventato un “per sempre”. Arrivò sull’isola e iniziò a lavorare in ospedale, finché non conobbe il bisnonno di Nadija: il resto è storia.

Mi sveglio con la luce di un sole brillante che filtra tra le tende. Nadija è pronta per andare in ufficio, si mette il caschetto sui capelli biondi e mi lascia alle mie passeggiate in città. A stasera!

Mentre cammino sui marciapiedi intonsi mi sfrecciano accanto grossi suv col volante a destra, d’ingegneria tutta giapponese. Ma la sensazione di trovarsi in una moderna cittadina svizzera non se ne va. Mentre passeggio tra gli stagni, le curatissime aiuole di fiori e le foreste urbane del Parco della Cultura e del Riposo intitolato a Gagarin, parlando al telefono con gli amici che in Italia stavano andando a nanna, mi sfreccia intorno una processione di joggers con air pods, fascia anti sudore e vestiti fucsia, poi è il turno delle classi d’asilo con la mantellina giallo fluo in gita al Museo Regionale di Južno-Sachalinsk, l’unico edificio sopravvissuto alla reconquista sovietica di Karafuto, la Sachalin a sud del 50° parallelo, annessa al Giappone dal 1905 al 1945. La maestra dell’asilo lo scandisce alla russa, con chiarezza: Ka-ra-fu-ta.

Passo una mezza giornata rapita dalle cartine giapponesi di Toyohara, dai riti funerari degli ainu, che la custode Tatjana mi racconta con passione indicandomi le minuscole casette in cui facevano alloggiare l’anima del defunto; osservo i costumi fatti di pelle di pesce dei nivchi, popolo autoctono dalla lingua isolata che ancora vive nel Nord dell’isola e infine passeggio tra stagni da sogni d’Oriente, cippi giapponesi, cimeli bellici della Grande Guerra Patriottica – che è scritta con tre maiuscole anche a 8 fusi orari da Mosca – e due grosse statue di leoni ruggenti a guardia dell’ingresso. Visito anche il parco popolato di statue dei personaggi dei libri di Čechov e poi schizzo verso l’avtovokzal, che invece è kitsch e squallida anche in una città così moderna.

* La storia continua in Piccolo alfabeto per viaggiatori selvatici di Eleonora Sacco, di cui troverete la versione ebook su tutti i siti a prezzo scontato dal 30 giugno al 3 luglio 2023!
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Redazione
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