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Birobidžan, il primo stato ebraico nell’Urss di Stalin

Nell’estremità sud-orientale della Federazione Russa, ad una manciata di chilometri dal confine cinese, si trova una cittadina di 74mila abitanti. Caratterizzata da un clima umido e con temperature che in inverno possono raggiungere anche i -40 °C, Birobidžan è il capoluogo inospitale della oblast’ autonoma ebraica della Federazione Russa: ancora oggi, infatti, la lingua ufficiale è lo yiddish e ad ergersi al centro della piazza principale non si trova il busto di un personaggio storico o politico, bensì una gigantesca menorah dorata (il candelabro a sette braccia simbolo della religione ebraica).

Questa regione autonoma, nata nel 1928, fu l’esperimento politico-sociale di Stalin per individuare, all’interno del contesto sovietico, uno spazio dove collocare la minoranza ebraica e porre quindi fine, almeno per quanto riguardava gli oltre due milioni e mezzo di ebrei residenti nell’Unione Sovietica, all’intenso dibattito sul ruolo e i diritti che l’entità statale socialista poteva riconoscere alle minoranze etnico-religiose.

La questione ebraica e il sionismo

L’immagine del sionismo oggi si interseca con le fotografie dei pionieri sionisti nella Palestina degli anni Quaranta; tuttavia, è necessario ricordare che la necessità politica di individuare un territorio che potesse in qualche modo offrire una patria al popolo ebraico era, alla fine dell’Ottocento, un pensiero condiviso da diversi movimenti ebraici, riuniti nel Congresso sionista, e avallato anche da alcuni ideologi europei. La partecipazione di questa minoranza etnico-religiosa ai movimenti risorgimentali e la contestuale richiesta di diritti civili, di eguale cittadinanza, si scontravano con il volto inedito, laico e nazionalista, dell’odio antiebraico. Lo sviluppo degli stati-nazione aveva infatti dato un volto nuovo all’antisemitismo: il sentimento di rifiuto, in maniera radicalmente differente dall’antigiudaismo di stampo ecclesiastico, trovava adesso forza in una presunta infedeltà degli ebrei nei confronti della nazione. Esploso nella Francia della Terza Repubblica con l’affaire Dreyfus (1894), il nuovo antisemitismo si è quindi diffuso in tutta l’Europa all’alba del Novecento, scatenando pogrom e discriminazioni.

Di fronte a questo scenario politico e sociale complesso, una fetta inizialmente minoritaria e via via sempre più consistente di ebrei sosteneva la necessità di individuare uno Stato, uno spazio che potesse offrire una cornice territoriale all’identità nazionale del popolo ebraico, garantendone la libertà e l’autodeterminazione; fu il giornalista ungherese Theodor Herzl, che aveva assistito al processo all’ufficiale Dreyfus in Francia, il precursore del movimento per il ritorno degli ebrei in Palestina e il primo ad identificare nel territorio della Palestina storica il luogo dove il popolo ebraico avrebbe potuto finalmente fuggire dalle discriminazioni in Europa.

Sebbene il Congresso sionista riconoscesse, su ispirazione di Herlz, nel territorio dell’antico Israele lo spazio ideale per la migrazione del popolo ebraico, una delle prime proposte concrete, su impulso del ministro britannico delle Colonie Neville Chamberlain, fu la creazione di uno stato ebraico in Uganda. L’iniziativa, accantonata quasi subito per l’inospitalità e la lontananza culturale del territorio centro-africano, aprì una spaccatura all’interno dello stesso Congresso: il Movimento territoriale ebraico, infatti, sosteneva che fosse un grave errore rifiutare dal momento che, in attesa del ritorno finale in Palestina, qualsiasi territorio sarebbe stato adatto purché vi fosse garanzia di una completa autonomia dei suoi residenti ebrei. L’idea finiva quindi per convergere con la visione staliniana, che puntava a disperdere le spinte nazionaliste all’interno di vari soviet o repubbliche autonome, identificati su base etnica.

Tra le forme di autogoverno da attribuire ai vari gruppi etnici, infatti, nasce a metà degli Venti il progetto di stabilire una regione autonoma “ebraica” nell’Unione Sovietica.

L’esperimento di Stalin

Fino alla Rivoluzione del 1917, gli ebrei nell’Impero zarista erano confinati nella cosiddetta Zona di residenza, una regione corrispondente alle moderne Ucraina, Bielorussia, Lituania e parte occidentale della Polonia.

Sulla “Zona di residenza” leggi anche questo nostro approfondimento sul massacro di Zmiëvskaja balka.

Al confinamento fisico faceva specchio l’attribuzione di tasse speciali prelevate solo dagli ebrei e, a partire dal 1827, l’introduzione di un servizio militare di durata trentennale, che prevedeva per i ragazzi ebrei l’inizio della leva obbligatoria già a soli dodici anni invece dei diciotto anni previsti per i cristiani russi.

L’Impero zarista riconosceva alle kahal (comunità, organizzazioni della comunità) forme di autogoverno per la gestione del culto, dell’educazione e anche in materia di giurisdizione; a partire dal governo di Alessandro I (1801-1825) vi fu tuttavia una progressiva restrizione dell’autonomia delle kahal, viste come un pericoloso “Stato interno allo Stato”, sia in ambito educativo che di giurisdizione.

A livello sociale iniziava a diffondersi soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento il fenomeno dei pogrom, violenti attacchi da parte della popolazione contro la minoranza ebraica con la complicità o la connivenza delle autorità, e che – parallelamente ai conflitti di inizio secolo – segnava un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita della popolazione ebraica dell’Impero; una fetta consistente di ebrei rispose con l’adesione agli ideali rivoluzionari, rappresentati da partiti di stampo socialista come il Bund (Lega generale dei lavoratori ebrei), o al movimento sionista che stava prendendo forma proprio a fine Ottocento.

Se il 1917, ponendo fine a molte restrizioni imposte alla comunità ebraica, segna quindi un enorme spartiacque, rimane difficile non individuare forti linee di continuità tra lo status della popolazione ebraica prima e dopo la Rivoluzione. Già negli anni Venti, infatti, nasceva l’idea di una regione autonoma ebraica in Crimea, dove dar vita a kolchoz (insediamenti agricoli con proprietà collettiva della terra) gestiti da ebrei provenienti sia dalla stessa Crimea, dove erano già presenti in grande numero, che dalle altre parti dell’Unione Sovietica. Se l’idea di introdurre la pratica dell’agricoltura nella popolazione ebraica, prevalentemente dedita alle attività – ormai invise agli ideali sovietici – del commercio e all’artigianato, si poneva chiaramente in contrasto con i dettami zaristi che vietavano agli ebrei il possesso della terra, è comunque difficile non ricondurre questo progetto alla Zona di residenza, dove venivano ristretti gli ebrei e in special modo quelli privi di particolari credenziali (in alcuni periodi, infatti, era concesso agli ebrei con un livello di istruzione universitario di vivere anche al di fuori dalla Zona). L’insediamento delle fattorie collettive ebraiche, ad ogni modo, non ebbe successo perché incontrò da subito l’ostilità della popolazione locale, che guardava con profonda avversione alle migliori condizioni assegnate ai coloni ebrei, un’avversione presto sfociata in agitazioni e nuovi pogrom.

Il progetto della Crimea ebraica viene quindi abbandonato quasi subito in favore del territorio tra i fiumi Bira e Bidžan, che, al contrario della Crimea, aveva il vantaggio di essere molto lontano, popolato solo da una manciata di cosacchi e alcuni innocui coreani-russi: Birobidžan.

Il fallimento del progetto Birobidžan

Le condizioni climatiche della nuova “Terra promessa” si rivelarono subito ostili: caratterizzata da inverni particolarmente rigidi e tremende alluvioni estive, la regione di Birobidžan era umida e martoriata dalla presenza di insetti ematofagi devastanti per il bestiame dei coloni. A rendere il territorio ancora meno accogliente vi era la presenza degli honghutzu, predoni di etnia cinese autori di frequenti e violente scorribande per trafugare l’oppio coltivato dai coreani.

Malgrado l’ostilità del territorio, le prime famiglie si insediarono nel 1928 nella regione, per dare vita ai primi kolchoz di Birobidžan; il progetto del governo era di trasferire nell’area un milione di persone nell’arco di dieci anni. L’opinione degli storici è che un insediamento ebraico in questa zona, oltre ad allontanare una minoranza poco gradita dal centro vibrante e popoloso dell’Unione, avrebbe potuto favorire l’estrazione delle risorse naturali in questa regione così poco sfruttata, ma anche bloccare eventuali mire espansionistiche dai vicini Cina e Giappone.

L’immigrazione a Birobidžan era condotta dalla propaganda di stato, che presentava la regione come una sorta di “Palestina ebraica” dove la lingua ufficiale era lo yiddish e gli ebrei sarebbero stati finalmente liberi di mantenere la propria cultura tramite teatro, giornali e scuole di idioma yiddish; la trasformazione da lingua prevalentemente colloquiale a lingua letteraria e la suggestione che un micro-stato yiddish aveva sui letterati ebrei dell’epoca fu certamente determinante nello spingere all’immigrazione un numero consistente di ebrei dall’Argentina e persino dagli Stati Uniti, oltre che dal resto dell’Urss.

Tra i poeti yiddish sostenitori dell’esperimento Birobidžan possiamo ricordare lo scrittore David Bergelson. Cresciuto nella provincia di Kyiv in una famiglia benestante inserita nell’Haskalah (movimento ebraico ispirato all’illuminismo), Bergelson rimase immediatamente folgorato dal progetto di autogoverno di Birobidžan. L’illusione svanì molto rapidamente: già con le purghe del 1936-1937 gli intellettuali di lingua yiddish, accusati di “cosmopolitismo”, finirono nel mirino della repressione, culminata nella tragica Notte dei poeti ebrei assassinati in cui rimase ucciso lo stesso Bergelson. Meno della metà dei primi pionieri che si erano insediati nel decennio era rimasta a questo punto a Birobidžan; gli arresti e la paranoia tra i vertici del potere arrivarono a coinvolgere anche le scuole di lingua yiddish della oblast’ autonoma ebraica, che furono chiuse nel 1941, e a sconvolgere il tessuto sociale di Birobidžan. Il famigerato complotto dei medici, costruito ad arte per accusare numerosi professionisti sanitari di origine ebraica di attentare alla vita dei capi di stato, era una probabile mossa per legittimare la deportazione di massa degli ebrei sovietici, scongiurata solo dall’improvvisa morte di Stalin nel marzo 1953.

Sulle repressioni staliniane leggi anche “Il caso Sandormoch”: l’inchiesta scomoda sulla memoria, quintessenza del lavoro di Memorial.

Già nei decenni successivi, ad ogni modo, appare evidente il fallimento del piano originario: la oblast’ non arriverà mai ad ospitare più del 5% della popolazione ebraica complessiva dell’Urss neppure nei momenti di massima immigrazione e, alla fine del 1989, delle decine di migliaia di pionieri giunti nella Palestina sovietica restavano solo poco più di 9mila unità, a fronte del milione di coloni nel piano governativo.

Cosa resta oggi della Palestina sovietica?

La realtà socio-culturale della Russia contemporanea non potrebbe apparirci più distante dalle ondate di migrazioni e dall’universo yiddish di Birobidžan, eppure l’enclave autonoma ebraica all’estremo confine con la Manciuria esiste ancora oggi ed ospita poco più di 2mila ebrei. La sua storia, tuttavia, sembra ormai segnata e confinata ad un passato ormai sconosciuto ai più, persino alla maggior parte della popolazione ebraica mondiale. Nel 2021, il ministro Marat Khusnullin ha proposto di eliminare la regione autonoma ebraica, fondendo Birobidžan con la regione di Chabarovsk. I progetti di preservare la cultura yiddish della regione, portati avanti con la cooperazione dell’Università di Bar-Ilan in Israele, sono stati avviati nel 2007 ma sono poi, di fatto, scivolati nel nulla. La popolazione complessiva è in netto calo, così come la popolazione ebraica, che raggiunge a malapena l’1% degli abitanti. Le difficoltà di raggiungere questo angolo remoto e decisamente poco ospitale della Russia implicano la pressoché totale assenza di turismo ebraico e non, specialmente se messo a confronto con il resto del paese dove è presente un ebraismo ancora oggi vivace e che vanta la presenza di diversi movimenti sia religiosi che politico-culturali.

Come se non bastasse, nel 2013 la bandiera di Birobidžan è stata messa “sotto inchiesta” perché, presentando un arcobaleno al centro, risulta troppo simile a quella del movimento LGBT+.

La bandiera dell’Oblast’ autonoma ebraica

La stessa valorizzazione del patrimonio culturale yiddish, che resta lingua ufficiale della oblast’ ma non è più parlato da quasi nessun residente, appare poco più di una ricostruzione posticcia e artificiosa di un ebraismo degli shtetl incapace di sopravvivere alla modernità.

Cosa resta, quindi, oggi del progetto della Palestina sovietica? Probabilmente nulla: la gigantesca menorah di Birobidžan splende sulla piazza principale, solitaria e maestosa, nel cuore di una cittadina ancora “ebraica”, eppure senza ebrei.

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Maria Savigni
Maria Savigni

Laureata in giurisprudenza, nel 2016 ha trascorso un semestre all'Università di Cracovia. Si interessa in particolare di diritti delle minoranze, stato di diritto, cultura ebraica, femminismi e movimenti lgbt+ nell'Europa centro-orientale. Di questi e altri temi ha scritto per East Journal e Diritto Consenso.