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Riscoprire il femminismo socialista con “Valchirie rosse”

di Maria Chiara Franceschelli*

Valchirie rosse è il penultimo libro di Kristen Ghodsee, approdato in Italia nel 2022 per Donzelli, nella traduzione dall’inglese di Mauro Pace. Ghodsee è dottoressa di ricerca in studi culturali e ha dedicato gran parte del suo lavoro allo studio dell’Europa dell’est, concentrandosi sul ruolo sociale e culturale della figura femminile nel contesto sovietico.

In questo volume, Ghodsee raccoglie i ritratti di cinque celebri socialiste: Aleksandra Kollontaj (1872-1952), politica, teorica e rivoluzionaria di spicco; Nadežda Krupskaja (1869-1939), politica e pedagogista; Inessa Armand (1874-1920), anche lei rivoluzionaria di professione e fondatrice della Società di protezione e d’emancipazione della donna; Ljudmila Pavličenko (1916-1974), cecchina, maggiore dell’Armata rossa ed eroe di guerra; ed Elena Lagadinova (1930-2017), ricercatrice e politica. Ad accomunare le cinque donne vi è un contributo fondamentale alle lotte per l’emancipazione delle donne e una fede incrollabile nella missione sovietica. 

Attraverso le loro storie, l’autrice mira a ricostruire un femminismo largamente inesplorato: l’attivismo sovietico per l’emancipazione femminile. È importante sottolineare come nessuna di queste figure, pur riconoscendo il proprio contributo alla lotta per l’emancipazione femminile, si sia mai definita “femminista” – anche e soprattutto perché questa definizione appartiene a dibattiti politico-culturali successivi. Tuttavia, la riscoperta di queste lotte vuole sottolineare come il legame fra lotta di classe e questione femminile offra prospettive alternative e promettenti ai femminismi di oggi. Con il suo lavoro, Ghodsee intende proporre un “femminismo socialista” come alternativa percorribile al femminismo liberale di matrice anglosassone, largamente predominante negli ambienti progressisti occidentali e non.

Femminismo socialista

Ghodsee muove dall’assunto che “le femministe occidentali hanno dominato la storiografia del movimento globale delle donne”. Dunque, che la storiografia delle lotte femministe sia stata incentrata sull’esperienza prettamente occidentale delle lotte delle donne alla conquista di diritti individuali e non collettivi. Sia la “prima” che la “seconda ondata” dei movimenti femministi, infatti, si sono concentrate su rivendicazioni di diritti e privilegi per le singole donne, mirate all’auto-realizzazione e all’acquisizione dell’uguaglianza giuridica formale con gli uomini. Questo tipo di azione collettiva non metteva in discussione lo status quo del sistema capitalista e l’oppressione sistemica che questo opera sulle donne. Al contrario, questi movimenti miravano ad allargare alle donne i privilegi riservati agli uomini. 

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Secondo Ghodsee, l’esperienza dei movimenti delle donne nello spazio socialista sfidava in primo luogo un sistema artefice di una ingiusta distribuzione delle risorse e dello sfruttamento sistemico del lavoro di riproduzione. Mettendo l’equità economica al centro delle loro rivendicazioni, le rivoluzionarie socialiste lottavano per un sistema economico più giusto attraverso la conquista di reti di sicurezza sociali più solide, in particolare per quanto riguarda una più equa distribuzione del lavoro di cura fra generi. 

Ghodsee oppone, dunque, le lotte delle donne socialiste ai femminismi liberali, proponendo la riscoperta delle prime come soluzione all’inefficacia dei secondi: attraverso il racconto delle lotte di cinque protagoniste della storia sovietica, l’autrice mira a dimostrare come riportare la dimensione sistemica e di classe al centro delle lotte femministe sia un passaggio essenziale per sconfiggere le disuguaglianze che ancora oggi vessano le donne. Se le forme di discriminazione di genere sono intrinseche al sistema capitalista e al suo sfruttamento della forza lavoro nella sfera privata, le lotte inserite nell’agenda più ampia della giustizia redistributiva possono, e devono, essere una via d’uscita ben più strategica rispetto al timido bussare alle porte del potere.

Le cinque rivoluzionarie del femminismo socialista di Valchirie Rosse

Dalle biografie delle cinque rivoluzionarie, in particolare da alcuni singoli episodi, Ghodsee trae (e impartisce) nove insegnamenti. L’importanza di coltivare relazioni di mutuo appoggio, legami di sorellanza e reti sociali al di fuori del modello della famiglia nucleare di stampo patriarcale ed eteronormativo, al fine di redistribuire il lavoro di cura e di respingere l’atomizzazione della società promulgato dalla società capitalista individualista. La riscoperta del valore dell’umiltà, per mettere a tacere il proprio ego in nome di una causa collettiva più grande. La pratica dell’autodidattica per favorire modelli alternativi di produzione e trasmissione delle conoscenze al fine di non riproporre gli schemi del sistema dominante. La ricettività, per non limitare la crescita intellettuale con convinzioni arbitrarie. La valorizzazione delle proprie attitudini come ingranaggi del lavoro collettivo. Le alleanze di fronte a un nemico comune. La tenacia nell’affrontare le avversità della resistenza. L’impegno, per la causa rivoluzionaria. Infine, il valore del riposo, per contrastare l’estrattivismo della cultura del lavoro nella odierna società neoliberista.

Se, da un lato, Ghodsee offre un’alternativa convincente al femminismo liberale, dall’altro, la volontà di ridare lustro a storie che sono state sistematicamente trascurate nella storiografia dei movimenti delle donne rende la scrittura di Ghodsee vagamente agiografica e ne rivela gli aspetti più problematici. Nel racconto avvincente e minuzioso delle vicende personali delle cinque eroine sullo sfondo della rivoluzione socialista, Ghodsee tralascia sistematicamente alcune dinamiche sistemiche che hanno interessato proprio quelle lotte. Alcune delle vicende narrate nel volume, in particolare i casi di Pavlichenko e Lagadinova, mostrano come l’ordine sociale sovietico fosse riuscito a includere le donne in ambiti dai quali erano state tradizionalmente escluse, come il lavoro e la sfera militare. Nelle parole di Ghodsee, entro la donna sovietica potevano coesistere “tanto l’amore materno che la violenza militare”. Ghodsee, tuttavia, non accenna alle conseguenze disastrose che queste dinamiche, pur nella loro generale auspicabilità, hanno avuto proprio sulle donne sovietiche: la disparità salariale, il doppio fardello del lavoro in fabbrica e del lavoro domestico, l’aumento della violenza domestica, la permanenza dei pregiudizi di genere nel mondo del lavoro a invisibilizzare (anziché rimuovere) quella che prima era una discriminazione formale. Dinamiche storiche e sociali che sono state ampiamente trattate e problematizzate nello studio della storia sovietica e dei suoi importanti progressi. 

Inoltre, nel trattare l’accesso femminile al mondo del lavoro e alla sfera militare, Ghodsee mantiene un forte binarismo fra famiglia e lavoro, fra ruoli tradizionalmente femminili (come il lavoro di cura) e maschili (come il lavoro militare), rinunciando a una maggiore complessità di analisi delle figure femminili che rifiuta una presunta naturalità o predestinazione di ruoli e compiti per abbracciare personalità e aspirazioni a tutto tondo. Questa dinamica, nel contesto dell’obiettivo che Ghodsee si prepone, risulta paradossale e straniante. 

In ultimo luogo, nel presentare le imprese militari di Ljudmila Pavlichenko, Ghodsee abbraccia una retorica militarista e glorificante, che ignora i traumi della guerra se non per ridurli al compianto dell’amato caduto. Così facendo, l’autrice sceglie di marginalizzare esperienze storiche il cui peso è stato già ampiamente riconosciuto: si pensi alla drammatica esperienza delle veterane sovietiche raccontata nelle testimonianze raccolte dal premio Nobel Svetlana Aleksievič nel suo La guerra non ha un volto di donna (uscito in Italia per Bompiani nel 2015).

Allo stesso modo, alcuni degli insegnamenti che Ghodsee elenca nelle conclusioni al volume rivelano una consapevole faziosità. La riflessione dedicata allo sviluppo di relazioni di mutuo appoggio alternative al modello della famiglia nucleare prende a esempio, fra gli altri, il triangolo fra Krupskaja, Armand e Vladimir Lenin. Ghodsee sottolinea come, senza l’appoggio delle due donne, difficilmente Lenin avrebbe potuto rivestire il ruolo che lo consegnò alla storia. Poche righe dopo, ragionando sull’insegnamento dell’umiltà, Ghodsee stessa sottolinea la problematicità di quel triangolo, poiché la sottomissione di Armand e Krupskaja alle richieste di Lenin fu indubbiamente emblematica (anche) di una dinamica eminentemente sessista e patriarcale. Ghodsee, tuttavia, ascrive la vicenda al valore dell’umiltà, piuttosto sbrigativamente, appiattendo la questione di genere a un vago valore morale e rinunciando a una riflessione più approfondita su quanto quella stessa relazione (e forse, la stessa discutibile virtù dell’umiltà) non fosse essa stessa specchio di dinamiche che il femminismo socialista si propone di eradicare. 

Valchirie rosse si posiziona esplicitamente come opera volta a mostrare le vie alternative del femminismo neoliberale, il “femminismo alla #Girlboss” che l’autrice critica aspramente nell’introduzione al volume. Ghodsee intende mostrare come, nella storia, un diverso tipo di lotte, di stampo collettivo e radicale, ha portato a risultati concreti e a cambiamenti rivoluzionari, anche e soprattutto per le donne che le hanno portate avanti. L’opera di Ghodsee, tuttavia, scivola spesso in una glorificazione acritica di dinamiche sociali e politiche che finisce per silenziarne gli aspetti negativi e problematici al fine di irrobustire la propria capacità argomentativa. 

Se la riflessione su teorie e prassi femministe dovrebbe senza dubbio allargare il proprio sguardo alle esperienze non occidentali del passato largamente ignorate, in un momento storico in cui il sistema capitalista sta svelando tutte le sue gravi fallacie, questa riflessione non può prescindere da uno sguardo onnicomprensivo. Tale sguardo deve includere anche le ombre di queste lotte, le conseguenze insperate, le contraddizioni che hanno attraversato. Nonostante sia chiaro, e in larga parte condivisibile, l’obiettivo delle scelte analitiche di Ghodsee, il silenziamento delle implicazioni negative e contraddittorie dell’esperienza sovietica rimane una caratteristica problematica del suo lavoro. 

Una riflessione sulle contraddizioni del femminismo socialista e sui paradossi dell’esperienza delle cinque rivoluzionarie non avrebbe in alcun modo tolto valore all’alternativa – senz’altro valida – che Ghodsee propone al femminismo liberale individualista. Avrebbe invece arricchito il dibattito di ulteriore profondità storica e sociologica, nonché avrebbe fornito ulteriori strumenti per provare a superare i limiti stessi di un’ideologia che si vuole riscoprire. Non saranno queste ombre a svilire l’importanza delle lotte delle donne, per le donne, che hanno sfidato le logiche del profitto e dello sfruttamento, che hanno combattuto per una visione del mondo più equa e più giusta. 

Al contrario, una riflessione che affronti senza paura le contraddizioni e le conseguenze dell’attivismo delle donne sovietiche scongiurerebbe fuorvianti romanticizzazioni del passato e offrirebbe la possibilità di recuperare il contributo prezioso di lotte che oggi più che mai andrebbero reintegrate nell’agenda femminista.

Valchirie rosse, Kristen R. Ghodsee, traduzione di Mauro Pace, Donzelli, 2022.

*Maria Chiara Franceschelli è dottoranda in Scienza politica e sociologia alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Si occupa di movimenti sociali e società civile nello spazio post-sovietico. Fa parte della redazione de «Gli Asini» e delle Edizioni dell’Asino e collabora con diverse testate, riviste e istituti di ricerca.

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