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La repressione di Lukašenka non risparmia nessuno, nemmeno le donne bielorusse

La Belarus’ è l’unico paese in Europa a non aver abolito la pena capitale, che viene tuttora applicata per delitti particolarmente gravi, quali omicidio o terrorismo, salvo alle donne bielorusse e ai minori. Più di 400 sono le condanne a morte che sono state eseguite dagli anni ‘90 a oggi: le esecuzioni avvengono in totale segretezza, con un colpo alla nuca; i familiari della vittima vengono informati della morte solo successivamente, ma non hanno diritto ad alcuna informazione sul luogo di sepoltura.

Attivisti e difensori per i diritti umani, tra cui l’Ong Viasna, hanno ripetutamente sottolineato che tale pena potrebbe essere usata dalle autorità come rappresaglia e minaccia per i membri dell’opposizione in procedimenti penali infondati. Ed è presto detto: una nuova legge, approvata e firmata dal presidente Aljaksandr Lukašenka lo scorso 21 febbraio, va a modificare il Codice penale bielorusso introducendo la possibilità di una sanzione eccezionale – la pena di morte – per alto tradimento commesso da un funzionario di Stato o da un militare. Il canale Telegram dell’opposizione NEXTA ha scritto che le autorità illegittime al potere stanno indubbiamente compiendo il primo passo verso le esecuzioni di massa degli oppositori politici, “riportando l’anno 1937 in Belarus’”.

“Lukašenka ha firmato la legge sulla pena di morte per i funzionari e i militari per alto tradimento. Ha paura della disobbedienza e delle fughe di notizie. Diventa ancora più difficile disintegrare le élite, vista l’atmosfera di paura e le possibili sanzioni per loro”, scrive su Twitter la giornalista bielorussa Hanna Liubakova.

Una legge volta a rafforzare la lotta della Belarus’ contro i “reati di orientamento estremista (terroristico) e antistatale”, come li definisce lo stesso presidente.

Il pugno di Lukašenka rimane di ferro: la repressione è ormai la nuova norma per chiunque cerchi di andargli contro e le condanne in Belarus’ diventano sempre più severe (e quantomeno assurde). La Belarus’ sta sprofondando sempre di più nelle tenebre.

Dai “partigiani ferroviari” ai difensori dei diritti umani: ce n’è per tutti

La mattina del 26 febbraio si sono verificate diverse esplosioni nei pressi della base aerea di Mačuliščy, vicino a Minsk. La responsabilità di tale azione, che ha causato gravi danni a un aereo di sorveglianza russo A-50, probabilmente utilizzato contro l’Ucraina, è stata rivendicata da alcuni attivisti bielorussi appartenenti all’Associazione delle forze di sicurezza della Belarus’, più comunemente nota come ByPol (e riconosciuta come formazione estremista nel paese), che raccoglie un gruppo antigovernativo bielorusso composto da ex ufficiali delle forze dell’ordine, alcuni dei quali si trovano all’estero, il cui obiettivo è ripristinare la democrazia nel paese.

Nonostante il giorno seguente, 27 febbraio, il presidente bielorusso Aljaksandr Lukašenka abbia incontrato il segretario del Consiglio di sicurezza, il ministro degli Interni, il capo del KGB e della sicurezza delle frontiere, nessuna spiegazione è stata fornita in merito alle esplosioni.

Nessun commento, quindi, né da Minsk né tantomeno da Mosca.

Gli uomini di ByPol, intanto, continuano a pianificare ulteriori atti di sabotaggio. Sono loro che, nella primavera del 2022, subito dopo l’invasione su larga scala dell’Ucraina, hanno iniziato a sabotare le ferrovie per ostacolare le spedizioni militari russe. Sono i cosiddetti “partigiani ferroviari”, che sono stati in parte arrestati e in parte condannati per terrorismo a lunghe pene detentive, alcune superiori ai 20 anni di carcere, e che agiscono per interrompere il funzionamento dei semafori lungo la linea ferroviaria e per deviare i treni che trasportano armi ed equipaggiamento militare alle forze armate russe presenti nel territorio bielorusso (su concessione del governo). Questa è una tattica di opposizione alla guerra e al regime di Lukašenka che non rappresenta una minaccia per la vita e la salute dei bielorussi, ma causa danni significativi alle infrastrutture delle ferrovie, soprattutto di tipo economico (il costo di ogni impianto distrutto è di circa 50mila dollari).

Proprio lo scorso 10 febbraio il tribunale regionale di Mahilëŭ (o Mogilëv, città della Belarus’ orientale) ha emesso la sentenza finale per tre residenti di Babrujsk accusati di aver preparato un sabotaggio sui binari della ferrovia alla fine di marzo 2022. Non certo i primi a finire nel mirino della giustizia: le prime condanne ai “partigiani ferroviari” sono iniziate, in realtà, a dicembre 2022 prevedendo spesso minacce di pena di morte. Durante il processo a porte chiuse di questi tre giovani militanti, Dzmitryj Klimaŭ e Uladzimir Aŭramcaŭ sono stati condannati a 22 anni di carcere per terrorismo, tradimento e disattivazione intenzionale di un veicolo o di un mezzo di comunicazione; Jaŭhen Minkevič, invece, a 1,5 anni – anche se è stato rilasciato su amnistia per buona condotta.

Il regime di Lukašenka è ben noto per queste pratiche contro chiunque si opponga alla sua dittatura (anche se lui non la definisce come tale). Lo dimostrano le sentenze di due processi che hanno avuto una certa risonanza anche in Occidente: quello alla leader dell’opposizione Svjatlana Cichanoŭskaja e quello a Viasna, la più grande organizzazione bielorussa per i diritti umani. Il verdetto sul caso degli attivisti di Viasna, emesso a Minsk lo scorso 3 marzo, ha visto il premio Nobel Ales’ Bjaljacki condannato a 10 anni di carcere, il vicepresidente dell’organizzazione Valjancin Stefanovič a 9 e l’avvocato Uladzimir Labkovič a 7. I tre difensori dei diritti umani sono stati accusati di contrabbando di denaro e di finanziamento delle proteste antigovernative sotto forma di assistenza alle vittime di persecuzioni per motivi politici.

Pochi giorni dopo, lunedì 6 marzo, è arrivata anche la condanna a 15 anni di carcere a Cichanoŭskaja, processata in contumacia in quanto fuggita in Lituania in seguito alle proteste dell’agosto 2020. La quarantenne è stata accusata di cospirazione per la presa del potere e alto tradimento e processata insieme ad altri quattro esponenti dell’opposizione in esilio, tra cui l’ex ministro della Cultura bielorusso Pavel Latuška, condannato a 18 anni. Cichanoŭskaja ha respinto la legittimità del tribunale, considerando il suo processo una farsa.

“15 anni di carcere. È così che il regime ha “premiato” il mio lavoro per i cambiamenti democratici in Belarus’. Ma oggi non penso alla mia condanna. Penso a migliaia di innocenti, detenuti e condannati a pene detentive reali. Non mi fermerò finché ognuno di loro non sarà rilasciato.” (Svjatlana Cichanoŭskaja su Twitter)

“Il regime bielorusso continua la sua brutale repressione”, denuncia Josep Borrell, l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza. “L’Ue condanna queste sentenze assurde, basate su accuse infondate di tradimento, estremismo, cospirazione e incitamento all’odio. Si tratta di un altro deplorevole esempio della continua parodia della giustizia e dell’abuso politico del sistema giudiziario da parte di Lukašenka”, aggiunge sottolineando che l’Ue continuerà a sostenere tutti coloro che si battono coraggiosamente per una Belarus’ indipendente e democratica, messaggio condiviso da Dunja Mijatovič, Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa.

La sentenza emessa nei confronti di Viasna è stata condannata anche dalle Nazioni Unite e commentata dal primo ministro polacco Mateusz Morawiecki che l’ha definita “vergognosa quanto il sostegno di Lukašenka alla guerra di Putin”.

In un’intervista a Radio Svaboda, Oleg Orlov, uno dei fondatori dell’organizzazione russa per i diritti umani Memorial (anch’essa vincitrice con Viasna e il Centro per le Libertà Civili dell’Ucraina del Premio Nobel per la Pace 2022) e che ha potuto assistere di persona al processo a Viasna, osserva che era convinto che la Russia avesse toccato il fondo “ma quando ti ritrovi in ​​​​Belarus’, vedi che la Russia ha ancora spazio per cadere in basso. In tribunale in Belarus’ è vietato persino salutare le persone “in gabbia” [i box che ospitano i detenuti durante il processo, N.d.A.]. L’accusa è assolutamente folle”.

Qui per altri approfondimenti sulla Belarus’ 

L’otto marzo e le donne bielorusse

L’8 marzo è stata celebrata la Giornata internazionale di solidarietà per i diritti delle donne, una festa che in Ucraina, Russia e Belarus’ è particolarmente sentita e rispettata. Ma se in Ucraina, soprattutto nell’ultimo decennio, si cerca di disfarsi degli stereotipi tradizionali per abbracciare quelli europei ed è sempre più presente una società civile che lotta per i diritti delle donne e per la parità di genere, Belarus’ e Russia continuano a difendere i valori tradizionali e il ruolo sacro delle donne e della famiglia, fondamento su cui si basa la salute spirituale e fisica della società. In Belarus’ le donne che hanno dato alla luce più di cinque figli ricevono il riconoscimento statale dell’Ordine della Madre. Come da tradizione, anche quest’anno il presidente bielorusso ha dedicato un discorso di augurio alle donne, approfittando però della cerimonia, che ha avuto luogo il 7 marzo nel Palazzo dell’Indipendenza, per premiare anche soldati e comandanti uomini. “Alle donne, voglio solo augurare questo: non preoccupatevi, faremo di tutto per la pace e la tranquillità nella nostra terra affinché possiate crescere i vostri figli in pace. Chi non ha figli può averne tanti quanti quelli che siedono in questa sala”, ha esordito il leader bielorusso con un tocco di umorismo. “Vi auguro felicità, benessere, successo nelle vostre vite e, cosa più importante, salute a voi e ai vostri figli”, ha concluso.

In questa data (e non solo) ci sono state però voci dissidenti che non seguono la linea del bat’ka. Per la prima volta, le iniziative della società civile e delle donne in Russia e Belarus’ sono state raccolte in una serie di appelli collettivi per evidenziare le difficoltà affrontate dalle donne in questi paesi. Le attiviste hanno scelto nove temi, che la testata indipendente Meduza ha raccolto in un articolo approfondito: la violenza di genere, la limitazione dei diritti sulla riproduzione, la femminilizzazione della povertà, l’impatto della guerra e della militarizzazione su madri e bambini, la repressione politica, la discriminazione delle donne indigene in Russia, le donne rifugiate, lo sfruttamento lavorativo e sessuale, la situazione delle donne con disabilità.

donne bielorusse viasna
Carcere di Homel’ (Viasna/Ol’ha Prankevič)

In questa lista figurano anche tutte le donne bielorusse che, al pari degli uomini, sono state attivamente coinvolte nella lotta per la libertà della Belarus’ dal 2020 fino ad oggi e che sono state sottoposte a repressione. Oggi sono 155 le donne prigioniere politiche in carcere. A causa delle proteste contro l’attuale governo e la guerra in Ucraina, dal 2020, 165 donne sono finite in carcere, 304 agli arresti domiciliari (la domašnjaja chimija, una misura cautelare che prevede una restrizione della libertà senza il rinvio in un istituto carcerario), 60 al regime di semilibertà (la chimija, che funziona come un ‘carcere aperto’ dove il detenuto è tenuto a lavorare e rispettare determinati orari ma ha dei permessi per uscire), 4 agli arresti per un periodo di 1-3 mesi e una al trattamento forzato (disturbi mentali).

La maggior parte di queste donne ha quindi festeggiato l’8 marzo dietro le sbarre.

La repressione di Aljaksandr Lukašenka, oltre a colpire le numerose donne che hanno partecipato alle proteste al fianco delle tre leader dell’opposizione Svjatlana Cichanoŭskaja, Veranika Capkala e Maryja Kalesnikava (arrestata nel 2020 e da settembre 2021 condannata a 11 anni di carcere per la sua attività politica), si abbatte anche sulle donne più o meno giovani che osano esprimere il proprio dissenso nei confronti dell’invasione russa su larga scala in Ucraina e contrastare le politiche del governo in merito al conflitto in corso. Tra queste, la professoressa e miglior italianista bielorussa Natallia Dulina, condannata a 3 anni e 6 mesi di reclusione per aver partecipato alle proteste pacifiche contro le elezioni-farsa del 2020 e “aver agevolato delle attività di carattere estremista”, nonché essersi espressa più volte contro la guerra in Ucraina. Anche contro Ljudmila Kohan, 68 anni, di Brėst, è stato avviato un procedimento penale per aver scritto “Žyve Belarus’” (Viva la Belarus’) e “No alla guerra” a una fermata dell’autobus ed è stata condannata a un anno di semilibertà per profanazione di edifici e danni alla proprietà (art. 341 del Codice penale bielorusso).

Dietro le sbarre anche tre giornaliste: Larysa Ščyrakova, di Homel’, per aver discreditato pubblicamente la Repubblica di Belarus’ è in custodia cautelare a da tre mesi, mentre il 9 gennaio è iniziato il processo alla caporedattrice Maryna Zolatava e alla direttrice Ljudmila Čekina del portale di informazione indipendente Tut.by. Il caso si è trasformato da economico a politico e le due donne, entrambe agli arresti dal marzo 2021, sono ora processate per “incitamento all’odio sociale” e “esortazione a commettere azioni volte a danneggiare la sicurezza nazionale della Belarus’”.

Nonostante il rispetto apparente che il presidente bielorusso sembra dimostrare nei confronti delle donne, anche la lista delle prigioniere politiche donne sembra aumentare invece di diminuire. Insomma, non è una questione di genere: l’opinione del bat’ka non va contrastata. Punto.

Foto di copertina: Viasna

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Claudia Bettiol
Claudia Bettiol

Traduttrice e redattrice, la sua passione per l’est è nata ad Astrachan’, alle foci del Volga, grazie all’anno di scambio con Intercultura. Gli studi di slavistica all’Università di Udine e di Tartu l’hanno poi spinta ad approfondire le realtà oltrecortina, in particolare quella russa e quella ucraina. Vive a Kyiv dal 2017, collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso, MicroMega e Valigia Blu. Nel 2022 ha tradotto dall’ucraino il reportage “Mosaico Ucraino” di Olesja Jaremčuk, edito da Bottega Errante.