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Radio brod, controinformazione in mare aperto

Mentre negli anni Novanta si consumava il peggiore conflitto armato in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, nelle acque internazionali tra l’Italia e l’ex Repubblica socialista federale di Jugoslavia giornalisti serbi, croati, bosniaci e sloveni si affidarono alle onde radio per trasmettere un’informazione imparziale ai propri concittadini. È la storia di Radio brod (Radio barca), un’emittente pirata su una stazione radio galleggiante nel mezzo dell’Adriatico.

A rileggere questa pagina poco nota dell’ultima Jugoslavia quasi non ci si può credere, tanto è radicata in noi l’idea che nei cosiddetti Balcani occidentali, in fondo, si odiassero tutti da sempre, e non ci fosse davvero margine per una convivenza pacifica. Riferimenti a un odio ancestrale, a una terra maledetta da tempo immemore, si sono talmente sedimentati nelle nostre coscienze da farci credere che, alla fin fine, una guerra non potesse che essere inevitabile.

Eppure, già personaggi del calibro di Svetlana Broz, con la sua raccolta di testimonianze di eroismi interetnici collezionata nel corso del conflitto, o di Jovan Divjak, generale etnicamente serbo che decise di difendere la sua Sarajevo dagli aggressori, ci avevano suggerito che il semplicismo dell’odio atavico non calzasse proprio a pennello con la complessa realtà della Jugoslavia di allora.

Ecco allora che questa storia aggiunge un altro tassello al mosaico sulla fine della Jugoslavia. Un tassello prezioso, fatto di intraprendenza, fratellanza, pacifismo e non poco coraggio. Un tassello composto da giornalisti in difesa di un’informazione indipendente, in un’epoca di guerra nella quale, si sa, la prima vittima è sempre la verità.

È la storia di Radio brod, una radio pirata che trent’anni fa, nel bel mezzo del peggiore conflitto armato in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, trasmetteva da una stazione radio galleggiante nelle acque internazionali dell’Adriatico. Qui un gruppo di giornalisti bosniaci, croati, serbi e sloveni, mentre a poche miglia nautiche di distanza i propri connazionali erano risucchiati nel gorgo della violenza nazionalista e della disinformazione, combattevano per la libertà di stampa e inviavano messaggi di pace e speranza ai territori dell’ex Jugoslavia.

Il varo

Come spesso accade l’idea, un po’ pazza e un po’ utopica, ha preso spunto da esempi precedenti. È il 1992, e diversi giornalisti jugoslavi, esasperati e scontenti del clima sempre più soffocante nel quale si trovano a lavorare, emigrano a Parigi. Qui entrano in contatto con diverse organizzazioni impegnate a difendere la libertà di stampa nel mondo, venendo a conoscenza del progetto per un trasmettitore in grado di diffondere dall’estero programmi radio diretti in Cina.

La trovata è di quelle folgoranti. Nel giro di breve tempo – è l’agosto del 1992 – viene costituita l’organizzazione Droit de parole (Diritto di parola), e si cercano soluzioni concrete per trasmettere in tutto il territorio jugoslavo via etere, dall’estero. La scelta inizialmente ricade su un trasmettitore localizzato in Ungheria, ma viene presto abbandonata per paura di possibili sabotaggi.

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La nave Ross revenge

Si fa largo allora l’idea di una stazione radio galleggiante. Viene presa in considerazione la Ross revenge, utilizzata per trasmettere Radio caroline e sequestrata qualche anno prima dalle autorità britanniche. Queste ultime, tuttavia, si rifiutano di concedere all’imbarcazione il nulla osta per riprendere il largo.

Solo nel 1993 l’organizzazione entra in possesso di Cariboo, rinominata per l’occasione Droit de parole. Si tratta di una nave di 60 metri per la ricerca e il rifornimento, rinforzata per il lavoro di rilevamento antartico e dotata di attrezzatura antincendio. Grazie all’esperienza accumulata da altre radio offshore, l’imbarcazione viene equipaggiata di tutto il necessario per diventare un’emittente galleggiante. È il 31 marzo 1993, Droit de parole salpa dal porto di Marsiglia. Direzione: Adriatico. È l’inizio di Radio brod.

Tutti a bordo

A bordo, giornalisti provenienti da diverse repubbliche dell’ex Jugoslavia, tra i quali Mirna Imamović, Konstantin Jovanović, Darko Rundek, Dževad Sabljaković, Nikifor Simsić, Jasmina Teodosijević, Dragica Ponorac, Svetlana Lukić, Ines Sabalić, nonché tecnici, assistenti, traduttori. I finanziamenti provenirono da donazioni private e organizzazioni da tutto il mondo, ma il progetto non avrebbe potuto, è proprio il caso di dirlo, prendere il largo senza i finanziamenti dell’Ue, dell’Unesco e di France libertes association, un’associazione presieduta da niente meno che Danielle Mitterand, moglie dell’allora presidente francese.

Droit-de-parole
L’imbarcazione Droit de parole (foto di Pascal Riteau, tratta da shipspotting.com)

Il primo programma radiofonico fu trasmesso il 7 aprile 1993, da qualche parte al largo di Bari. Per evitare la confisca e spiacevoli incontri con la marina militare croata o serba, la nave si mantenne in continuo movimento, senza mai attraccare sulla terraferma o far conoscere la propria posizione. Per le convenzioni internazionali si tratta di un’azione illegale: non è consentito trasmettere da acque internazionali verso un paese costiero. Lo spiegò Thierry Lafabrie, comandante della nave, ai microfoni di Tv7, settimanale del TG1: “Tecnicamente siamo una nave pirata”, ammise, “ma sono le leggi inadeguate, noi stiamo facendo la cosa giusta”.

Fare la cosa giusta, d’altronde, era probabilmente l’intenzione dell’intero equipaggio. Ma rendere onore a questo precetto morale in tempo di guerra significa parteggiare, significa esporsi. Fu proprio per questo motivo che Lukić perse il suo lavoro come inviata per la radiotelevisione serba: raccontava il conflitto con la Croazia in modo troppo indipendente, non in sintonia con la linea editoriale. Sabalić, che lavorava per un editore di Spalato, se ne andò invece volontariamente: il clima con la guerra era cambiato, non c’era più spazio per il dissenso.

Per Sabljaković, capo redattore di Radio brod, le singole repubbliche nazionali erano diventate dei compartimenti stagni: “Nessuno a Zagabria sa più cosa succede a Belgrado”, disse in un’intervista, paragonando il lavoro della sua redazione a quello dei pompieri: “Noi vogliamo spegnere l’incendio dell’odio, non siamo schierati con nessuna parte in lotta. La gente deve tornare a parlarsi e a convivere in pace”. A posteriori Imamović ricorda ai microfoni di Rai 3 come all’epoca non esistevano più nemmeno collegamenti telefonici stabili tra le repubbliche dell’ex Jugoslavia.

A vele spiegate

Nonostante le difficoltà tecniche non indifferenti, la redazione radiofonica fu presto in grado di mettere in piedi una programmazione complessa, composta da rubriche che dal primo giugno arrivarono a coprire 24 ore su 24 di trasmissioni. Degni di nota furono i bollettini informativi quotidiani in serbo-croato, inglese e francese: potendo fare affidamento su una rete capillare di corrispondenti, spesso anonimi o nascosti, Radio brod era in grado di offrire un’informazione oggettiva e di qualità, al riparo dalla distorta propaganda di regime divulgata da una parte e dall’altra delle parti in causa.

Ma anche altre rubriche meritano una menzione particolare. Desperately Seeking mandava giornalmente in onda i messaggi dei profughi raccolti sul campo, sia in forma scritta che orale. Queste testimonianze permettevano a parenti e conoscenti in ascolto dai campi profughi in tutta Europa di avere notizie riguardo ai propri cari, consentendo eventualmente anche dei ricongiungimenti. Imamović, responsabile del programma, ammise che non si resero conto dell’impatto effettivo del proprio operato finché la redazione non ricevette una lettera di ringraziamenti. Grazie a Radio brod un uomo di Trebigne, in Bosnia Erzegovina, era riuscito a ricongiungersi con i nipoti, rimasti orfani, in un campo profughi in Danimarca. Il programma Exodus, a tal proposito, per tre volte a settimana forniva consigli pratici ai richiedenti asilo provenienti dalle ex repubbliche jugoslave.

Poi ovviamente c’era la musica, dal rock al folk. Miriam Dizdarevič organizzò un programma di musica classica, che su sua stessa ammissione non conosce nazionalismi, non conosce confini, parla una lingua universale e in quanto tale non può che unire. Rundek, uno dei musicisti più famosi dell’ex Jugoslavia, curava la rubrica Planet Ear, un programma di “fantascienza radiofonica”, attraverso il quale l’ascoltatore abbandonava il suo misero presente per viaggiare verso “diversi pianeti sonori”. Come gli altri nemmeno Rundek poteva conoscere la propria audience invisibile, non sapeva quante persone fossero effettivamente dall’altra parte del trasmettitore. Solo a posteriori venne a sapere che la gente si radunava attorno alla radio per ascoltare insieme il loro programma. “Questo è ciò che mi ricordo con più affetto”, ammette, “abbiamo rallegrato il nostro pubblico”.

Ascolta anche: Radio Brod. l’ultima Jugoslavia trasmessa via etere, di Andrea Borgnino e Marina Lalović.

Primi incagli e fine delle trasmissioni

I problemi, però, non tardano ad arrivare. Un simile esempio di cooperazione e convivenza tra popoli, con tutto il suo portato pacifista, è mal digerito dai vari regimi nazionalisti che si sono instaurati dall’altra parte dell’Adriatico: i detrattori certo non mancano. Come ebbe a dire Ponorac, “questa nave da fastidio a tutti: la libertà di espressione è oggi il problema più grave in Jugoslavia”.

Il pretesto legale per pretendere la cessazione delle trasmissioni arriva a soli due mesi dalla prima messa in onda, a giugno. Le autorità serbe convocarono formalmente l’Unione internazionale delle telecomunicazioni (Itu), denunciando l’utilizzo fraudolento della frequenza utilizzata da Radio brod, assegnata alla Jugoslavia. Secondo l’accusa, le trasmissioni della nave pirata interferivano con il legittimo operato di Radio Podgorica. Ai cavilli legali si aggiunse l’insinuazione politica: Belgrado criticò pubblicamente la scarsa qualità dei programmi, insinuando la non attendibilità delle notizie diffuse.

Droit de parole si ritrovò quindi al centro di un vero e proprio contenzioso internazionale. A seguito di un breve scambio con l’Itu – che peraltro ammise di non avere nessun potere coercitivo nei confronti di eventuali stati inadempienti rispetto alla Convenzione di Ginevra del 1959, che mise ufficialmente al bando le radio offshore – Kingstown decise di ritirare la registrazione dell’imbarcazione, battente bandiera di Saint Vincent e Grenadine.

Senza più una bandiera e quindi formalmente senza stato, il 28 giugno 1993 Droit de parole si trovò costretta a dirigersi verso Bari, interrompendo le trasmissioni. Dopo una serie estenuante di negoziazioni con il governo sanvincentino, l’intervento di diverse istituzioni europee e quattro settimane di ormeggio forzoso, l’imbarcazione poté finalmente riprendere il largo ad agosto.

Ma ai problemi politici, purtroppo, si sommarono anche le difficoltà economiche. Il mantenimento di Radio Brod era infatti molto dispendioso, e presto la notizia che gli operatori lavorassero con 3 mesi di arretrati giunse alle orecchie delle istituzioni europee. In virtù di questi problemi di liquidità, la Commissione europea decise di non rinnovare il finanziamento per Radio brod. L’associazione perse così il suo sponsor principale e fu costretta a spegnere i ripetitori allo scoccare della mezzanotte del 28 febbraio 1994, sancendo la conclusione di un esperimento unico nel suo genere.

Il lascito di Radio brod

Al ricordo per aver tentato di fare la cosa giusta in un momento tanto traumatico e cruciale si aggiunge però il rammarico. Lukić rammenta con dispiacere quell’esperienza, in quanto simbolo di un fallimento personale e generazionale. Volevano fermare la violenza, fare controinformazione, ma si è trattato di una battaglia contro i mulini a vento: i pacifisti hanno perso, “i nazionalisti hanno trionfato e hanno distrutto il paese, sono i diretti responsabili della guerra e ora sono al potere”. E questo, chiosa, inficia tutto quello che hanno tentato di costruire in trent’anni di attivismo.

Qualcosa di positivo, però, resta. Restano 11 mesi di trasmissioni, 2 milioni di radioascoltatori raggiunti solo nei paesi in guerra. Resta l’aver dimostrato che, anche nei periodi più aspri, il giornalismo indipendente può tenere la schiena dritta, immaginando espedienti originali e innovativi per condurre il proprio lavoro in maniera etica e professionale. Resta chi, grazie a Radio brod, è riuscito a ricongiungersi con i propri cari, o anche semplicemente a venire a conoscenza del fatto che erano ancora in vita, che stavano bene. Resta il merito incommensurabile di aver allietato, sebbene per poco, una popolazione in guerra, smarrita dal dismembramento del proprio paese natale e assediata dal martellamento mediatico dei pennivendoli di regime.

Nella speranza che, chissà, con lo stesso pizzico di follia e di sana utopia che ha contraddistinto Droit de parole, la storia di Radio brod possa ispirare future crociere in difesa del giornalismo indipendente, dell’informazione e della libertà di parola.

Basta levare l’ancora e prendere il largo.

Foto di copertina: la nave Droit de parole (foto di Pascal Riteau, tratta da shipspotting.com)

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Nicola Zordan
Nicola Zordan

Mosso da un sincero interesse per la storia e la cultura della penisola balcanica, si è laureato in Studi Internazionali all’Università di Trento, per poi specializzarsi in Studi sull’Europa dell’Est all’Università di Bologna. Ha vissuto in Romania, Croazia e Bosnia ed Erzegovina, studiando e impegnandosi in attività di volontariato. Tra il 2021 e il 2022 ha scritto per Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa. Attualmente risiede in Macedonia del Nord, dove lavora presso l’ufficio di ALDA Skopje.