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Il matrimonio e la Golf bianca: quando è cominciata la guerra in Bosnia?

Non di rado al noto superpoliziotto Dragan Vikić è stato chiesto quando, precisamente, è cominciata la guerra in Bosnia ed Erzegovina. La risposta, in genere, è sempre la solita: la guerra è scoppiata all’inizio della primavera del 1992 (praticamente l’incipit di Metodo Srebrenica di Ivica Đikić), all’indomani del referendum sull’autonomia del 29 febbraio e del 1° marzo dello stesso anno.

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Più precisamente, era il 5 aprile 1992, quando una raffica di proiettili e una granata lanciati contro il corteo spontaneo per la pace composto da decine di migliaia di persone, tra cui musulmani, serbi e croati, uccisero sul ponte di Vrbanja Suada Dilberović, studentessa ventenne di Medicina a un mese dalla laurea, e Olga Sučić. Il giorno dopo, il 6 aprile, gli Stati Uniti e la Comunità Europea riconobbero l’indipendenza della Bosnia ed Erzegovina. Sì, ecco, è questa la data corretta: il 6 aprile 1992 scoppia la guerra.

guerra in bosnia
Targa commemorativa in onore di Suada Dilberović e Olga Sučić a Sarajevo, prime vittime della guerra in Bosnia ed Erzegovina (Meridiano13/Lorenzo Mantiglioni)

I dubbi di Dragan Vikić

Eppure Dragan Vikić, che in quelle ore concitate del ‘92 era lì, tra l’Holiday Inn e la spianata del Parlamento, a pochi passi dal ponte di Vrbanja e dalla Miljacka, non ne è affatto convinto.

Vikić è un erzegovese di origine croata, in passato è stato a capo dell’antiterrorismo e durante la guerra si occupava, con le forze speciali, di scovare e arrestare i cecchini. All’ex ufficiale dell’esercito della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina la narrazione classica sull’inizio della guerra non ha mai convinto.

Com’è noto, le cose nei Balcani – e soprattutto per quanto concerne quegli anni – non sono mai così semplici. Spesso nascondono fatti meno noti, nascosti o esasperati dalla propaganda di quella o di quell’altra etnia.

E poi c’è un altro elemento: nei paesi della ex Jugoslavia, figuriamoci nei primi anni Novanta, molti fatti avevano una valenza politica, e Dragan Vikić si ricorda chiaramente che la prima vittima non cadde sul ponte di Vrbanja il 5 aprile, ma circa un mese prima, il 1° marzo, sul sagrato della Chiesa ortodossa della Baščaršija, nel cuore di Sarajevo.

Dragan Vikić in una foto del 2006 (Wikipedia)

Questo matrimonio non s’ha da fare

Tutto comincia in un’area a nord della città, a Novo Sarajevo, tra Dolac Malta e Gorica, dove vive la famiglia Gardović. È un giorno di festa, un giorno non ordinario, uno di quelli da ricordare e da imprimere nella memoria: Milan Gardović, giovane arciprete ortodosso, e Diana Tambur convoleranno a nozze. Un momento importante, tanto da esporre fieramente la bandiera serba sul balcone. Quel giorno non è però cruciale solo per i Gardović, ma per tutta la Bosnia ed Erzegovina: in quelle stesse ore, infatti, si consuma il referendum dell’autonomia, disertato dai serbo-bosniaci.

E quella bandiera dà fastidio. Sì, dà fastidio. È un gesto provocatorio? Un attacco diretto ai musulmani e a tutti coloro che a Sarajevo e così in tutto il paese vogliono rivendicare la propria indipendenza da Belgrado? Oppure è solo un gesto inopportuno?

I mugugni non mancano sotto quel balcone, corrono per le vie strette e acciottolate della capitale, fino a giungere all’orecchio di qualcuno, più potente, più bellicoso. Non a caso, viene messo su un blitz da una decina di persone per provare a rimuovere il vessillo.

Niente da fare però, la bandiera rimane lì, aggrappata al balcone. Ma questo purtroppo non vuole dire arrendersi. Sarajevo in quelle ore è un vortice di emozioni, nazionalismi, sciovinismi e paura. La gente si divide, i serbi sono guidati da Radovan Karadzić, un po’ psicologo e un po’ poeta, incline alle bugie e aspirante politico di successo, dall’altra parte ci sono i bosgnacchi, capitanati dall’intellettuale e ambiguo Alija Izetbegović, mentre la minoranza croata si trova stretta tra le due etnie di maggioranza.

No, quella bandiera è un affronto.

La sparatoria

La (“sporca”) decina non si arrende e circonda la chiesa dopo la cerimonia di nozze di Milan e Diana. Battistini e Mian, sempre in Maledetta Sarajevo, riportano le grida del gruppo filo-bosniaco: “Andate a casa vostra!”, “Questa non è Serbia!”.

Poi arriva il momento del banchetto, nella chiesa di santa Tekla, nel cortile del tempio ortodosso. Sulla tavola campeggiano i ćevapčići, spiedini e la birra. Sì, anche la birra perché nella Sarajevo dei primissimi anni Novanta, quella ancora titina, “reduce” dalla Jugoslavia e a forte trazione atea, si possono bere alcolici e lo si può fare anche nella capitale, anche nel luogo a maggioranza (etnica) musulmana.

Però la Sarajevo dei primissimi anni Novanta, quella titina, reduce dalla Jugoslavia e a forte trazione atea, è anche violenta, sempre più dilaniata dalle questioni etniche e avvelenata dalla propaganda.

E proprio mentre la birra scorre a Novo Sarajevo, giunge una Golf bianca. Dall’automobile scendono quattro criminali, quattro personaggi di cui tre dalle identità sconosciute. Tranne uno. Sì, uno si conosce e, guarda il caso, è a capo di quella combriccola sanguinaria: Ramiz Delalić, detto Ćelo.

Ed è proprio quest’ultimo a sparare, mirando allo sposo ma finendo per ferire a morte il padre, Nikola Gardović, appunto. Poi succede un fatto strano, uno di quelli che si confonde tra il reale e la leggenda, dal forte sapore politico: secondo alcuni testimoni, pare che lungo la via, poco dopo lo sparo e la chiamata dei soccorsi, siano passate ben tre ambulanze, senza che nessuna si fermasse per soccorrere Nikola e altri due feriti, invitati alle nozze. Tre serbi.

Il ruolo delle forze dell’ordine

Se però a quanto pare i soccorsi non sono stati efficienti, certo non si può dire la stessa cosa per le forze dell’ordine: grazie a una decina di testimonianze, Ramiz Delalić, detto Ćelo, viene immediatamente arrestato.

Ma Ćelo non è un uomo qualunque, è un’ombra onnipresente nella storia della Bosnia ed Erzegovina tra gli anni Novanta e i primi Duemila, che gode di conoscenze importanti e sa che per lui le cose vanno sempre diversamente. Non a caso, la sera stessa dell’omicidio, viene rilasciato. A quel punto sparisce per circa un mese dalla circolazione per poi riapparire a Sarajevo con il titolo di comandante della Nona brigata musulmana, ottenendo in dotazione una pistola con tanto di dedica dal presidente Alija Izetbegović.

Un fatto curioso per un uomo accusato di omicidio che sarà processato solo dopo la fine della guerra, senza però mai giungere a sentenza definitiva. Ćelo, infatti, poco prima della conclusione del processo, fu assassinato a colpi da arma da fuoco nella tarda notte del 27 giugno 2007, nell’androne di casa sua, in ulica Odobašina, a Sarajevo.

Secondo il giornalista montenegrino Fahrudin Radoni, come riportano Battistini e Mian in Maledetta Sarajevo, l’esecuzione di Ramiz Delalić, detto Ćelo, fu ordinata dallo stesso Alija Izetbegović, lasciando così l’eterno dubbio sulle eventuali identità dei mandanti dell’omicidio di Nikola Gardović.

Ma sembra, e così più volte è stato ribadito, che su quella Golf bianca che rovinò il matrimonio tra Milan e Diana ci fosse anche il figlio del fondatore dei Berretti Verdi, l’unità paramilitare delle forze armate bosniache, ovvero Bakir Izetbegović.

Quando è cominciata la guerra in Bosnia?

E allora quando è cominciata la guerra in Bosnia ed Erzegovina? Sui libri di storia c’è chiaramente scritto il 6 aprile, il giorno dopo l’uccisione di Suada Dilberović e Olga Sučić, eppure il superpoliziotto Dragan Vikić, ricorda benissimo che il 1° marzo, subito dopo l’imboscata del futuro comandante della Nona brigata musulmana, Radovan Karadzić ordinò il blocco delle strade e divise la capitale con le barricate. Da una parte i serbi e dall’altra i musulmani.

La guerra, allora, era già cominciata.

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Lorenzo Mantiglioni
Lorenzo Mantiglioni

Giornalista e dottore in Giurisprudenza, attualmente cura l’ufficio stampa del Comune di Capalbio e collabora il progetto divulgativo Frammenti di Storia. Nel 2019 è stato selezionato per partecipare, in Bosnia ed Erzegovina, all’International Summer School Rethinking the culture of tolerance, organizzata dai tre atenei di Sarajevo, Sarajevo Est e Milano-Bicocca. Autore del libro Stante così le cose, edito da Edizioni Creativa.