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Foto delle proteste in Kazakhstan (Timur Nusimbekov)
Introduzione e traduzione di Valentina Marcati*, testo di Daniyar Moldabekov
Sono passati già più di tre anni dalle proteste in Kazakhstan: nel gennaio 2022, migliaia di cittadini kazaki si sono riversati nelle strade del paese. Iniziate il 2 gennaio in risposta all’aumento dei prezzi del gas, le manifestazioni hanno acquisito una portata ben più ampia con la domanda di elezioni democratiche e delle dimissioni del governo.
La città di Almaty, ex capitale e cuore culturale del Kazakistan, è stata il teatro principale di quello che successivamente è stato ribattezzato dalla cronaca Qandy Qantar, “gennaio di sangue”. Alla polizia e alle forze speciali, infatti, è stato dato l’ordine di reprimere le proteste in un crescendo di violenza che si è concluso con più di duecento vittime in tutto il paese.
Nei mesi successivi, numerosi manifestanti sono stati sottoposti a processi iniqui, mentre le autorità hanno cercato di occultare il ricorso ingiustificato alla violenza da parte delle forze dell’ordine. La versione ufficiale ha attribuito le proteste a presunti gruppi terroristici, basandosi anche su confessioni ottenute sotto tortura.
Dall’inizio degli eventi, le organizzazioni per i diritti umani continuano a chiedere senza successo al governo maggiore trasparenza e verità su quanto accaduto.
Il giornalista Daniyar Moldabekov, testimone oculare dei fatti di gennaio, ha dedicato gli ultimi anni a cercare di far chiarezza su questi eventi e sui loro strascichi, raccogliendo materiale sulle vittime e sui processi politici che hanno caratterizzato il Kazakhstan contemporaneo.
Il risultato del suo lavoro, il libro God – Janvar’ [rus., L’anno-gennaio], doveva essere pubblicato lo scorso anno dalla Meloman Publishing, una delle principali case editrici kazake. Tuttavia, a pochi giorni dall’uscita, l’intervento delle forze dell’ordine ne ha bloccata la stampa. Nell’ultimo anno l’autore (che, nel romanzo, è uno dei personaggi) ha ripreso in mano il manoscritto ampliandolo e aggiornandolo per includere i risvolti più recenti. Riportiamo qui in traduzione italiana alcuni passaggi tratti dall’ultima versione dell’opera in cui vengono narrate le proteste svoltesi ad Almaty la notte tra il 4 e il 5 gennaio.
Una notte magnifica (estratto dal romanzo)
Ad Almaty migliaia di persone marciavano verso piazza della Repubblica gridando “Şal, ket!” [kaz., Vecchio, vattene!]. Sulle macchine che accompagnavano il corteo erano dispiegate bandiere azzurro-oro. Gli abitanti delle kruščëvki, i vecchi condomini sovietici, si protendevano dai balconi e filmavano il corteo con i loro smartphone. Per trent’anni i vertici del Kazakistan avevano derubato il paese arricchendo le proprie famiglie e dimenticandosi di quelle meno fortunate: ecco il risultato.
“Jinal [kaz., uscite]!”, i manifestanti salutavano così chi li osservava dalle finestre e dai balconi. Agitavano bonariamente le braccia come in segno di solidarietà e continuavano a marciare. Cantavano l’inno nazionale, l’Atameken [kaz., La terra degli avi], scandivano il breve slogan e preghiera con il quale i kazaki per anni avevano cercato di spodestare Nursultan Nazarbaev: “Şal, ket!”.
Alla colonna dei manifestanti si univano da ogni lato nuove persone. Le macchine che procedevano in senso opposto suonavano a lungo i clacson. Gli autisti scendevano dalle macchine, rimuovevano le targhe e prendevano parte alla marcia.
Tra la folla, nella speranza di incontrare quel giorno la sua ex collega e ragazza O. alla quale era ancora fortemente legato, c’era anche il giornalista trentunenne Daniyar Moldabekov. Daniyar fantasticava che un incontro durante la protesta avrebbe riacceso la fiamma ormai spenta.
Marciando con i manifestanti e fumando una sigaretta dietro l’altra, si era distratto per un po’ e si era dimenticato di lei. Nato e vissuto in quella città, il giornalista negli ultimi anni era abituato a vedere la prospettiva Abay congestionata di macchine e non di persone. Vedere lì migliaia di manifestanti gridare “Şal, ket!” e cantare l’inno nazionale era insolito ed emozionante. Uscendo quella sera di casa, era sicuro che per le strade ci sarebbe stato al massimo un centinaio di persone.
“Siamo gente comune, non terroristi”
***
I manifestanti procedevano lungo via Momyşuly verso la parte alta della città. La maggior parte erano uomini dai venti ai quarant’anni, ma c’erano anche parecchie donne e ragazze. Mentre la folla si spostava verso la prospettiva Abay si univano nuove persone: anziani, corrieri, tassisti.
Daniyar Moldabekov, Timur Nusimbekov e Dimaş Al’yanov erano stati presenti a quasi tutte le manifestazioni che si erano tenute ad Almaty negli ultimi anni, ma all’Almaty Arena non avevano visto alcun volto noto. Per sicurezza Nusimbekov si era tolto il gilet giallo con la scritta “Stampa”: “Non so come potrebbero reagire”, aveva detto Dimaş. Negli ultimi anni la stragrande maggioranza dei mass media kazaki si era occupata di propaganda e non di giornalismo. In quel frangente il fatto che Nusimbekov fosse un professionista rispettabile non aveva alcuna importanza.
Quando i manifestanti raggiunsero l’incrocio tra le prospettive Abay e Gagarin, Daniyar e Dimaş, agitati per quanto stava accadendo, si lasciarono sfuggire che non sarebbe stato male comprare delle sigarette e dell’acqua, ma sulle porte di tutti i negozi erano appesi cartelli con su scritto “Jabyq” e “Zakryto”, “Chiuso”. Moldabekov rimpianse le sue scelte: “Credevo di rimanere fuori casa per un’ora-un’ora e mezza, per questo non mi sono preparato come si deve e non ho portato nulla con me, né il powerbank, né l’acqua né le sigarette”, pensò.
“Baüyrym [kaz., fratello], di dove sei?”, si rivolse a Dimaş uno sconosciuto sulla trentina. Dalla sua bocca, stretto tra i denti d’oro, sporgeva uno stuzzicadenti. “Finalmente la gente è scesa in piazza contro Nazarbaev, vero?”.
Il giornalista annuì in segno d’assenso. L’uomo con lo stuzzicadenti estrasse un pacchetto di sigarette e ne diede una a Dimaş, quasi per ricompensarlo per il fatto che anche lui fosse felice.
Sembrava che in quel momento tra la folla ci fossero tutti: gli attivisti della DVK [Demokratičeskij vybor Kazachstana, Scelta democratica del Kazakistan, movimento politico fondato nel 2001 dagli oppositori di Nazarbaev; le autorità kazake hanno designato il movimento come organizzazione estremista e ne hanno proibito le attività su tutto il territorio nazionale], del Partito Democratico e dell’“Oyan, Qazaqstan” [kaz., Svegliati, Kazakistan, movimento per i diritti civili fondato ad Almatynel 2019], sobri e allegri, ubriachi e preoccupati, chi credeva sinceramente nei cambiamenti e provocatori. Difficilmente si sarebbero potuti incrociare in occasioni diverse, ma quel giorno stava accadendo…
Timur Nusimbekov faceva fotografie e riprendeva quello che stava succedendo. Un uomo corpulento sulla quarantina, avendo notato la sua attrezzatura, gli si rivolse con un sorriso: “Ehi, voi della stampa, su dai, riprendete!”.
“Abbiamo già ripreso abbastanza. La batteria è scarica”, mentì Daniyar, scacciando il bonario sconosciuto.
“Mi raccomando riprendi in maniera onesta!”, disse il manifestante senza prestare attenzione alla replica del giornalista.
Poco dopo i tre giornalisti unitisi ai manifestanti notarono Inga Imambay, politica dell’opposizione e moglie di Jambolat Mamay [giornalista dell’opposizione e leader del Partito Democratico (non riconosciuto dalle autorità kazake); è stato condannato a sei anni di reclusione per aver preso parte alle proteste del 2022]. Daniyar le si avvicinò per salutarla e scambiare due parole. Alla sua sinistra camminavano due uomini di nazionalità kazaka alti e robusti, che lei presentò come membri del partito. Il giornalista pensò che fossero più simili a guardie del corpo. Inga sorrideva, ma appariva stanca e sconcertata.
“Come sta?”.
“C’è qualcosa di spaventoso”, ansimò lei.
Quando Daniyar tornò da Dimaş e Timur, Dimaş gli tese una sigaretta: ne aveva scroccate due a qualcuno nella folla, una l’aveva tenuta per sé, l’altra l’aveva data all’amico.
“Chissà dove sono gli sbirri”, chiese Daniyar dopo essersi messo a fumare.
“Forse si sono spaventati”, scherzò Dimaş. Daniyar si ricordò delle parole di Inga: “C’è qualcosa di spaventoso”…
Si mossero seguendo i manifestanti.
La folla procedeva in direzione della piazza. Per raggiungerla mancava ancora una mezz’ora. Più la piazza era vicina, più i partecipanti alla marcia aumentavano. Di tanto in tanto Daniyar e Timur si arrampicavano su un qualche punto sopraelevato per calcolare il numero dei partecipanti al corteo, ma era inutile: i kazaki in rivolta coprivano l’orizzonte.
“Eccoli gli sbirri”, disse Dimaş muovendo il braccio in direzione di una vettura della polizia stradale, accanto alla quale, come se nulla fosse, se ne stava un poliziotto corpulento con gli occhiali. In mano stringeva una paletta per il traffico.
“Forse pensa che lo possa aiutare”, venne in mente a Daniyar mentre la folla gli si avvicinava abbastanza da poterlo centrare con un qualche oggetto pesante. Lo sbirro si nascose in macchina. La circondarono. Iniziò una discussione: alcuni dicevano che lo scopo della protesta era un altro e che bisognava procedere, altri volevano riversare sul poveraccio in uniforme tutte le lamentele contro il sistema. Alla fine il vigile era stato imprigionato nella macchina e un gruppo di manifestanti l’aveva accerchiata per impedire che finisse mangiato vivo.
Il corteo si avvicinava a piazza della Repubblica. Daniyar e Timur si fermarono vicino all’istituto di veterinaria e si guardarono attorno: avevano perso Dimaş. Si era fermato in prossimità della macchina della polizia attorno alla quale si erano raggruppati i manifestanti. Timur prese il telefono e lo chiamò.
Mentre gli telefonava, quattro ragazzi della folla si erano seduti su una panchina di fronte all’istituto di veterinaria e avevano iniziato a bere acqua da una bottiglia da un litro che si passavano l’un l’altro. Erano ragazzi giovanissimi, magri e scuri di carnagione, portavano jeans e giacche sportive, era evidente che fossero abituati dall’infanzia a una vita difficile.
Daniyar non aveva mai visto prima ragazzi del genere alle proteste organizzate in città. In Kazakhstan durante gli anni dell’indipendenza i diversi movimenti di opposizione non erano stati in grado di unirsi e di solito le manifestazioni di protesta riuscivano a radunare nel migliore dei casi duecento persone.
Solo quando volevano cambiare il nome alla città [il 23 marzo 2019 su decreto presidenziale la capitale Astana è stata rinominata Nur-Sultan inonore del primo presidente del Kazakistan Nursultan Nazarbaev; il nome della città è stato dinuovo cambiato in Astana nel settembre 2022] e durante le elezioni presidenziali del 2019 la vita politica si era risvegliata per un po’ e alcune migliaia di manifestanti erano state portate nei centri di detenzione delle due maggiori città del paese. Era sembrato che quello fosse il limite del potenziale di protesta, destinato a rimanere ancora a lungo insuperato.
Per la prima volta dopo anni di carriera da reporter vedeva una folla di diverse migliaia di persone, composta per lo più da giovani, che, a quanto pareva, non aveva alcuna intenzione di indietreggiare. Gridavano “Şal, ket!” ed era evidente che la questione del prezzo del gas non avesse più alcun legame con quanto stava accadendo…
Una mano, appoggiata sulla sua spalla, lo distrasse da questi pensieri. Il giornalista sobbalzò per la sorpresa, si voltò e vide Timur.
“Ho ritrovato Dimaş”, disse facendo cenno verso la figura tarchiata del politologo che si avvicinava pensieroso.
Ormai mancava poco per raggiungere piazza della Repubblica. I manifestanti svoltarono su via Jeltoksan. Il monumento “L’alba della libertà” era avvolto da una coltre di gas lacrimogeno. L’autore del monumento, l’architetto e artista Timur Suleymenov, per soli quattro anni non era riuscito a sopravvivere fino a quel momento…
Finalmente il corteo raggiunse la piazza in cui già protestavano alcune centinaia di persone. Nel frattempo tutti i lampioni erano stati spenti, ma l’akimat, il municipio, era illuminato. Un certo numero di persone si fermò vicino al monumento. Davanti all’akimat se ne stavano le forze dell’ordine armate di scudi e manganelli. L’edificio era accerchiato.
Nessuno dei nuovi arrivati aveva fatto in tempo ad avvicinarsi all’akimat, ma là era già in atto una colluttazione. O nel frattempo una parte dei manifestanti aveva raggiunto l’akimat passando dall’altro lato o si trattava di una provocazione. Mentre in prossimità dell’akimat continuavano gli scontri, al di là del monumento attorno a cui si erano radunati i manifestanti si trovavano le pattuglie e la SOBR, la Squadra Speciale di risposta rapida.
Circa trenta persone avevano attorniato il monumento dell’Indipendenza; alcuni, ridendo e fischiando con esultanza, si arrampicavano sul basamento sul quale torreggiava la figura bronzea di un puledro cavalcato da un bambino. Due avevano sulle spalle la bandiera nazionale: il sole e un’aquila reale d’oro sullo sfondo azzurro. Alcuni stringevano in mano gli scudi dei soldati della SOBR e dei manganelli. Sopra i manifestanti si ergeva una stele coronata dalla statua dell’Uomo d’Oro, un guerriero sacio i cui resti e la cui armatura d’oro furono ritrovati dagli archeologi nel 1969 presso le rive del fiume Issyk […].
Vicino alla prospettiva Furmanov c’erano le squadre dei combattenti della SOBR. Il monumento dell’Indipendenza era coperto dal fumo denso dei lacrimogeni. Al posto delle risate risuonava una tosse prepotente. Le persone si allontanavano di corsa. Si affrettavano a tirarsi fuori dalla nuvola di fumo afferrando i propri compagni per i vestiti per non perdersi e per non cadere.
Molti manifestanti portavano le mascherine che in quel momento non erano di alcun aiuto. Se le strappavano per grattare la pelle in fiamme. Tossivano, sputavano, piegandosi o accovacciandosi. Alcuni vomitavano sulla neve annerita.
“Figli di puttana!”, urlò qualcuno alla polizia.
Indietreggiando su via Jeltoksan, i dimostranti formarono un muro umano. Il giornalista trentunenne Daniyar Moldabekov riprese quanto stava accadendo con il suo smartphone. Due ragazzi in passamontagna che si erano uniti al muro non sembravano esserne troppo contenti.
“Faresti meglio a schierarti con noi invece che riprendere”, disse uno dei due.
“Sono un giornalista. Bisogna documentare questo momento storico”, rispose Daniyar.
I ragazzi restarono in silenzio. Il giornalista avvicinò lo schermo dello smartphone ai loro volti, proprio in prossimità delle fessure per gli occhi dei passamontagna, e cancellò il breve video che aveva appena ripreso.
“Ecco vedete, sono corretto”, disse lui.
Dopo aver organizzato il muro, la folla provò a ritornare in piazza, ma la polizia lanciava ripetutamente granate stordenti e la nuvola di fumo, come una frusta, scacciava i manifestanti sulle vie Jeltoksan e Seyfullin.
“Il popolo del Kazakhstan non è terrorista”
***
Due mezzi corazzati, un camion militare e un fuoristrada UAZ con un cannone sul rimorchio si dirigevano verso la piazza lungo via Jeltoksan, e una decina di giovani correva loro incontro urlando con esultanza. Da qualche parte apparve un piccolo autocarro sul quale si trovavano quattro uomini. Uno di loro sventolava così solennemente una bandiera con raffigurata l’aquila d’oro sul cielo azzurro che sembrava avesse espugnato il Reichstag e non un semplice autocarro. Sfrecciarono lì accanto cinque scooter con in sella dei ragazzi. Portavano in spalla dei grandi zaini dai quali, frenando, estraevano acqua e la distribuivano a tutti coloro che volevano calmare la sete. E questi bevevano facendo andare su e giù il pomo d’Adamo.
Quando i manifestanti incominciarono a tornare verso la piazza risalendo lungo via Seyfullin, Daniyar notò una vecchietta fuoriuscire dalla nube di fumo. Camminava a passo svelto, dirigendosi con sicurezza verso la piazza per “resistere fino alla fine”. Aveva condiviso le sue intenzioni a Daniyar il quale, osservata la sua anziana figura, cercava di dissuaderla dal “resistere fino alla fine”.
“Là usano il gas, rischia di soffocare”, le disse.
“E che cos’ho da perdere? Ho già vissuto. Se devo morire, morirò. Sei un blogger?”
“Un giornalista”.
“Allora, giornalista, scrivi che Roza-apa [kaz., zia, madre] non ha paura di niente”.
Osservandola meglio, Daniyar riconobbe in lei una degli attivisti per i diritti civili. Partecipava regolarmente ai picchetti, indossava magliette con raffigurati i prigionieri politici e rimaneva in piedi per ore come un eroe solitario nel centro della città per chiedere la liberazione dei prigionieri del regime. L’avevano interrogata per l’affare della DVK e l’arrestavano prima dei raduni organizzati da questo movimento vietato dalle autorità kazake.
Molto vicino – a Daniyar sembrò proprio nel suo orecchio sinistro – risuonò un’esplosione. Roza-apa prese il giornalista per il gomito.
“Se devo morire, morirò!” ripetè.
Il petto incominciò a fargli male e scoppiò in singhiozzi. Un giovane sconosciuto con una bandiera del Kazakistan in mano lo abbracciò.
“Fratello, va tutto bene! Sei un grande! Siamo tutti dei grandi, fratello!”, le parole del ragazzo fluirono gradualmente in un fragoroso “Şal, ket!”.
Lo slogan risuonava ancora più insistentemente di prima, quando i manifestanti marciavano verso la piazza.
Daniyar non potè trattenersi e ancora una volta trasgredì alle regole giornalistiche: iniziò a scandire “Şal, ket!”. In quel momento non gli importava se fosse corretto o meno dal punto di vista dell’etica professionale. Di solito si sentiva a disagio tra la folla, ma quella notte era particolare. Quella notte gli sembrò di aver assistito a una rinascita. Era come se il paese si fosse svegliato desiderando liberarsi dalla schiavitù a cui l’avevano costretto i suoi governanti avidi ed egoisti. Daniyar era disoccupato, si sentiva perso e abbandonato.
Ed ecco che provò di essere tutt’uno con la folla, con dei disgraziati senza diritti come lui che ora erano diventati qualcosa di più grande, un paese con un’idea e un futuro comuni…
La fiumana di persone si riversò di nuovo nella piazza nell’ennesimo tentativo di sfondare e far retrocedere la polizia che sembrava avesse a disposizione un arsenale inesauribile di equipaggiamento antisommossa. Il miscuglio di odori di peperoncino, acido e agenti chimici era percepibile già nelle vicinanze di via Satpaev. Un odore inconfondibile che i partecipanti non avrebbero mai potuto dimenticare.
“Resistiamo fino alla fine!”, gridò Roza-apa.
“Le forze di pace armate non sono forze di pace”
Roza-apa, Daniyar, Dimaş, Timur e Musa si strinsero l’un l’altro formando un muro. Davanti a loro c’erano tre o quattro file di manifestanti che procedevano tenendosi in catene scomposte: i più infervorati e meno organizzati cercavano di reggersi gli uni agli altri, ma non sempre riuscivano a muoversi in formazione.
Daniyar tentò di distinguere le forze dell’ordine nella piazza, ma a causa della coltre di fumo non poteva vedere nulla. I manifestanti indietreggiarono di nuovo. Perfino Roza-apa che un momento prima aveva urlato di “resistere fino alla fine” fu costretta a retrocedere.
Riuscirono a fermarsi solo all’incrocio tra Satpaev e Jeltoksan. I manifestanti si divisero in gruppi: ciascuno si unì ai suoi amici e conoscenti.
Cercando di dominare la tosse, pianificavano le mosse successive. Ma la tosse ebbe la meglio. Una parte dei manifestanti fu presa dal panico, le persone iniziarono a disperdersi. Sicuro del fatto che le autorità avevano aperto fuoco, anche Daniyar fuggì. Inciampò e cadde, battendo il ginocchio sull’argine del canale di scolo. Il suo grido fu coperto da una moltitudine di altri.
Gruppi di manifestanti procedevano lungo via Timiryaev in direzione opposta alla piazza. Di tanto in tanto sfrecciavano scooter e macchine senza targa. Da una macchina uscì un ragazzo con indosso una giacca leggera, inadatta per la stagione. Si avvicinò al bagagliaio, lo aprì e ne estrasse un bottiglione d’acqua da cinque litri. Gli chiesero di dare da bere a Roza-apa e lui le porse immediatamente la bottiglia. Dopo di lei a turno bevvero tutti.
Daniyar e Musa, giunti alla conclusione che tutto fosse finito, discutevano della portata storica di quella notte. Erano d’accordo sul fatto che in strada fossero scese molte più persone che nel 1986 [si fa qui riferimento alle proteste che si svolsero ad Almaty tra il 16 e il 19 dicembre 1986 in risposta alla sostituzione del leader kazako Dinmuсhamed Kunaev con il russo Gennadij Kolbin. Le proteste furono brutalmente sedate nel sangue].
Daniyar si allontanò, guardò i gruppi sparsi di manifestanti e si accese una sigaretta. Vicino a lui Timur Nusimbekov controllava la qualità degli scatti che aveva fatto. La sua giacca aveva una moltitudine di tasche, tanto da ricordare un negozio di elettronica, e Timur di tanto in tanto ne estraeva qualcosa. Quella notte aveva fatto molte fotografie e riprese.
Presto si avvicinò a lui un uomo sulla trentina. Gli mostrò una cartuccia composta da un bossolo rosso e da una capsula dorata. La cartuccia se ne stava comoda nella mano dell’uomo come un bambino nella culla.
“Guarda fratello”, si rivolse l’uomo contemporaneamente a Daniyar e Timur, “guarda con che cosa sparano alla gente”, disse con accento caucasico.
“Porca puttana!”, rispose Daniyar.
“Fratello, è un calibro 12. Vai a caccia?”.
“No”.
“Con questo ci sparano alla selvaggina”.
“È un proiettile di gomma?”.
“No, fratello, da guerra. Ci sparano alla selvaggina.”
Timur fotografò la cartuccia. Dopodiché si diressero verso la fermata dell’autobus dove, sotto la tettoia di vetro, Roza-apa sedeva su una panchina. Timur distolse lo sguardo dalle fotografie e chiese a Roza-apa di che cosa si occupasse quando non partecipava alle proteste. Lei rispose che ora era in pensione, ma che prima era geologa. Negli ultimi anni si era dedicata all’attivismo politico, facendo picchetti solitari per domandare la liberazione dei prigionieri politici, la cui esistenza era ostinatamente negata dallo stato. […]
Mentre Roza-apa raccontava di sé, Daniyar si stirava la gamba. Non era sicuro di poter ancora scappare dalla polizia. Il dolore fastidioso alla gamba gli suscitava penosi ricordi e riflessioni sugli eventi recenti: il licenziamento dalla redazione a cui aveva dedicato gli ultimi anni della sua vita, la rottura di una relazione che non voleva affatto, la depressione che prima non conosceva e per la quale ora era costretto ad assumere antidepressivi…
Timur fu chiamato al telefono da sua moglie e collega Malika. Gli disse che il presidente Tokaev aveva introdotto lo stato d’emergenza ad Almaty e nella regione di Mangystau. Il telefono di Daniyar era scarico. Ma d’altra parte non aveva nessuno da chiamare… E se O. l’avesse chiamato proprio ora e non fosse riuscita a mettersi in contatto con lui?
I manifestanti dispersi, non potendo tornare in piazza della Repubblica, si diressero verso lo Stadio centrale probabilmente con l’intenzione di raggrupparsi. Daniyar saltò su una gamba sola per tutto il tragitto dalla fermata di via Timiryasev allo stadio. Il silenzio di tanto in tanto era rotto dallo scoppio delle granate stordenti.
Due ragazzi sulla ventina che passavano lì accanto notarono la gamba di Daniyar:
“Fratello, vuoi che ti portiamo in spalla?”.
“Devi tornare a casa, fratello”.
Gli amici dissero lo stesso al giornalista. Allo Stadio centrale lo misero su un taxi.
Nel salone della macchina oltre all’autista c’erano anche una ragazza e un bambino di circa cinque anni. Quest’ultimo stava in piedi tenendosi con le mani allo schienale del sedile anteriore. Il bambino iniziò a battere i pugni contro il sedile sul quale, sopportando con calma le monellerie del figlio, era seduta la madre. L’autista rifiutò di essere pagato.
“Ma quali soldi, fratello”, disse nel congedarsi. “È una notte magnifica!”.
Il ritmo che il bambino aveva scandito in macchina continuò a risuonare nelle orecchie di Daniyar anche quando entrò in casa.
*Valentina Marcati è dottoressa di ricerca in Slavistica, ha studiato e lavorato nella Federazione Russa e in Kazakhstan. Si è occupata di letteratura in lingua russa nel contesto nord caucasico in un’ottica postcoloniale. Più in generale, si interessa dei processi culturali e politici nell’areale post-sovietico.
Le immagini nel testo sono state gentilmente messe a disposizione da colleghi dell’autore che hanno chiesto di rimanere anonimi.