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“C’è solo quello che succede. E come ci si sente”. Intervista a Damir Ovčina, autore di “Preghiera nell’assedio”

Preghiera nell’assedio è il primo romanzo di Damir Ovčina, nato a Sarajevo nel 1973 dove tuttora vive e lavora come scrittore e editore. Il suo libro stato un grande successo letterario in Bosnia ed Erzegovina e nei paesi dell’ex Jugoslavia e ha ottenuto importanti riconoscimenti come il premio Hasan Kaimija nel 2016 per la “migliore opera in prosa” e il premio Mirko Kovač nel 2017.
Damir Ovčina preghiera nell'assedio

Il romanzo è ambientato a Grbavica, un quartiere di Sarajevo controllato interamente dai serbo-bosniaci durante il conflitto dei primi anni Novanta. Il giovane protagonista si ritrova intrappolato lì, catapultato nell’orrore della guerra senza poter tornare a casa, che dista solamente pochi chilometri. La storia, ma in particolare lo stile così originale e diretto, coinvolgono i lettori senza filtri, senza mediazioni. Miljenko Jergović ha scritto sul romanzo: “C’è solo quello che succede. E come ci si sente”. Queste poche parole descrivono in modo essenziale quest’opera.

Ovčina, dal 2016 ad oggi, ha rilasciato numerose interviste e molti importanti esponenti degli ambienti letterari dell’area ex jugoslava si sono espressi sul suo prezioso e originale lavoro. Abbiamo voluto conversare con l’autore non solo a proposito del testo, ma soprattutto a partire da quello che aveva già raccontato di sé e del romanzo. Questo ci ha permesso di andare più a fondo su alcuni aspetti della sua visione e dei processi che lo hanno portato alla stesura di Preghiera nell’assedio.

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In un’intervista per N1, parli dei tuoi sentimenti durante il processo di scrittura. Quali erano? Come descriveresti i loro cambiamenti nel tempo? È stato un processo di pulizia, di guarigione?

Per molto tempo ho sentito la pressione autoimposta a scrivere un romanzo perché è questa la forma più complessa e più importante in letteratura. Probabilmente lo è in ogni espressione artistica. Ed è la forma che i lettori vogliono e di cui hanno più bisogno. Dal momento, però, che avevo 20 anni, sentivo il bisogno di qualcosa in più per scrivere un romanzo. Leggevo e pensavo, cercando una soluzione. E poi ho avuto la sensazione che il tempo stesse scorrendo via, la partita era arrivata al secondo tempo, così dovevo entrare in campo e segnare almeno tre goal, seguendo la metafora calcistica, in meno di mezz’ora, da una grande distanza, oltre trenta metri dalla porta. E così ho fatto.

Ho dovuto lavorare in profondità su diverse opzioni, fino a trovare la migliore per me. Mi sentivo sempre più sicuro nella scrittura senza alcun timore verso le reazioni e i pensieri degli altri. La stesura è stato un processo di pulizia delle frasi. L’idea era semplice. Avevo in testa un’immagine, quella finale nel romanzo, che dovevo raggiungere attraverso il tempo, i personaggi e gli eventi, ma senza perdere di vista la mia idea sulle frasi e sul ritmo.

Hai lavorato nel sistema educativo, com’è la situazione attuale in Bosnia? Se potessi scegliere una sola cosa su cui ha il potere di intervenire, quale sarebbe?

Affrontiamo milioni di problemi. Forse molto più degli altri paesi europei. Ma nulla che sia impossibile da risolvere. Noi, come tutti nel mondo a vari livelli, abbiamo bisogno di un mercato più trasparente. Una maggiore comprensione del sistema che crea benessere e apre le possibilità umane. Una cosa che cambierei subito è la legge sul finanziamento ai partiti politici. Loro e i loro rappresentanti in parlamento almeno, ma forse anche nel governo, dovrebbero essere pagati dal supporto individuale dei cittadini, non attraverso budget e tasse. Questo potrebbe portare a una soluzione.

Dalla matinée di Miljenko Jergović sul romanzo, arrivano molti spunti interessanti sul tuo lavoro. Vorrei dire ai lettori italiani qualcosa di più sul titolo originale Kad sam bio hodža (Quando ero un hodža). Potresti aiutarci a comprendere meglio chi è l’hodža e come questa figura è collegata alla storia, come entra nelle circostanze?

Beh, il mio titolo Quando ero un hodža è già metà del romanzo. L’hodža è un prete per i musulmani bosniaci ed è presente a tutti gli eventi importanti: nell’educazione, ai matrimoni, davanti ai problemi della comunità, ai funerali. È certamente un termine con molti significati. Nella mia storia diventa un ruolo per il protagonista attraverso eventi che non ha potuto prevedere. Il suo carattere gli assegna un dovere, un compito e anche più di questo. Il carattere è un destino.

Jergović evidenzia che nel romanzo non menzioni mai alcune parole che sono molto importanti per la narrazione presente e passata sulla guerra in Jugoslavia, come “musulmani, serbi, croati, islam, ortodossia” e così via. Che cosa significa scrivere un romanzo su questo conflitto senza usare questi termini? È stato facile per te, è stato spontaneo?

Volevo scrivere una storia sul mio mondo. La mia infanzia. La strada. Il tetto. La neve. La scuola. Ho iniziato con la neve su un tetto nella strada in cui sono cresciuto e sono tornato nello stesso posto quattro anni dopo. Tutto quello che è accaduto nel frattempo, guerra, etnie, religioni, crimini, ho dovuto raccontarli, certo, ma nel mio modo per evitare la banalità e i luoghi comuni. Una volta trovato il ritmo della frase, avevo il passo che stavo cercando.

Raccontami qualcosa di più sulla tua relazione con i personaggi e il modo in cui li crei: leggere il tuo romanzo mi ha dato una sensazione particolare. I personaggi non hanno nomi, non sono presentati, descritti, ma l’intimità arriva immediatamente e non segue la via dell’empatia, ma si produce attraverso una sorta di presenza silenziosa, come se il lettore fosse proprio accanto ai personaggi, osservando la scena e partecipando sullo sfondo.

I personaggi sono una questione delicata. La sfida più difficile nel processo. La mia esperienza è smettere di giudicarli, di descriverli perché io non li conosco. Io posso solo scrivere quello che loro mi mostrano. Non avevo nessun piano di ciò che sarebbe successo e di chi sarebbe arrivato. Lascio solo che procedano davanti a me. I personaggi, come le persone ma forse di più, hanno bisogno di libertà. Se non sono liberi, non vogliono parlare con me.

Per esempio prendiamo il mio personaggio principale: la ragazza che lo nasconde compare perché il mio protagonista entra nell’edificio e la vede. L’ho semplicemente seguito. Allo stesso modo con il comandante. Quando è apparso sembrava orribile, ma mi sbagliavo. Lui ha sovvertito la storia. Dovevo solo scrivere che cosa faceva. Non volevo che il mio protagonista facesse tutto quello che ha fatto. Ma lui mi ha aggirato. Tutto quello che hai detto sul mio modo di seguire i personaggi è un enorme incoraggiamento per me.

Damir Ovčina
Damir Ovčina accanto all’edizione originale di Preghiera nell’assedio (Cromoda)
Dall’intervista a Express emergono due temi importanti: le relazioni umane e la ricerca della verità. Hai detto che ogni relazione umana è un tipo di conflitto: come ti poni rispetto a questo? Quale dovrebbe essere lo scopo, se ce n’è uno, delle persone? Superare il conflitto oppure abbracciarlo e conviverci?

Sento che i conflitti costruiscono le persone. In letteratura si parla di conflitto interno e con altri. Le persone dovrebbero lottare per una maggiore libertà. E maggiore indipendenza. Per una più intensa passione di vivere. La letteratura predica la libertà attraverso la decenza.

A proposito del tuo bisogno di essere autentico e di cercare la tua verità: hai sfidato le regole convenzionali del linguaggio e dell’ortografia ed è proprio superando questi vincoli che emerge il tuo modo speciale di comunicare: diretto, assolutamente vero, la storia avviene proprio mentre il lettore posa lo sguardo sulle pagine. Che cosa significa per te appropriarsi della tua verità attraverso il linguaggio?

Proprio come dici. Questo è ciò che speravo di trovare, dal momento che il romanzo doveva essere qualcosa di unico e nuovo. Qualcosa di inaspettato e imprevisto. Similmente a ciò che avviene con tutti i nuovi prodotti importanti. Innovazioni. Le persone si aspettano arte, ma anche altri prodotti portano qualcosa di nuovo e di valore. Qualcosa di fresco utile autentico bellissimo.

E qual è il ruolo della letteratura nella ricerca della verità?

La letteratura è l’invenzione più grande del genere umano. È il mezzo migliore, senz’altro a lungo termine, per trovare la verità. L’unico strumento di persuasione. È un modo di vivere e apprendere. Di migliorare le vite attraverso la comprensione. 

A Urbanmagazin hai detto “La letteratura non tollera le menzogne”; chiarisci poi che il tuo modo di scrivere è completamente tuo perché assomiglia al tuo modo di pensare. Sono molto colpita dalle tue affermazioni, in particolare perché aderiscono alla lettera con quello che hai reso concreto nel romanzo. Molti scrittori sostengono di ambire alla stesura di storie plausibili e ci riescono. Ma raramente una verità arriva al lettore con il potere con cui tu hai modellato la tua storia. Quanto è importante questo per il lettore e quanto è necessario applicare un filtro per raggiungere la verità?

Direi che lo scrittore è una rarità. Molte persone scrivono, ma poche lo fanno bene. Pochissimi sono bravi scrittori. Questo è in qualche modo una sorpresa. Scrivere è lo sport con più tentativi e meno risultati. La verità, come la bellezza, è difficile da catturare. Ancora più difficile da presentare in un modo vero e bello. Ecco perché la letteratura è preziosa e insostituibile.

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Ancora sul ruolo della letteratura, hai detto che essa non deve spiegare nulla, che non c’è bisogno di condannare o glorificare l’autore. Come districarsi in un ambiente letterario dove la maggior parte del tempo e delle energie è investito nel fare questo?

Non è semplice. Leggere non è semplice. L’abilità umana di produrre libri è enorme, ma pochi di loro meritano di essere letti. La maggior parte sono spazzatura. Attraverso la lettura e il pensiero uno può sviluppare un strumento per riconoscere e allontanarsi da lavori frivoli e banali. Il mondo è pieno di menzogne e prodotti scadenti. Specialmente nel mondo dei libri. In letteratura e anche nell’arte.

Una delle domande dell’intervista porta l’attenzione sul fatto che crimini terribili accadono da vite molto piccole e semplici, da persone perfettamente ordinarie. Cosa puoi dirci di questo? Quali sono le tue sensazioni al riguardo?

La capacità umana nel fare del male è infinita. Una cosa è prevedibile: creare un ambiente con menzogne crimini omicidi attrarrà killer prima invisibili. Le persone ordinarie diventano facilmente non ordinarie nel male, ma difficilmente e raramente accade il contrario. Il bene è raro esattamente come il coraggio e qualsiasi altra cosa di valore. 

Proprio rispondendo a quella domanda, hai sollevato un tema controverso: l’idiozia occidentale per cui i Balcani sono una polveriera sempre pronta ad esplodere e che la guerra e il conflitto fanno parte della natura delle popolazioni che ci vivono. Molto è stato scritto, e studiato, su questo stereotipo, vuoi dirci qualche parola secondo la tua esperienza e la tua visione?

Sì, i Balcani sono spesso mistificati, specialmente dalle stesse popolazioni che ci vivono. Questo è ciò che alcuni famosi scrittori di qui hanno cercato di fare per guadagnarsi premi e riconoscimenti. I Balcani hanno determinate caratteristiche. Ma ogni angolo del mondo ha le proprie, nulla è lo stesso e non è semplice da nessuna parte organizzare la vita. La menzogna principale sui Balcani occidentali è che abbiamo bisogno di un quadro politico estremamente complicato. Ma il mondo fuori non si preoccupa molto di noi così come raramente si preoccupa di queste questioni altrove. Nessuno può risolvere i nostri problemi. 

Parli dei due ruoli contrapposti della vittima e della persona con carattere, nella letteratura e nella vita. Un essere umano può essere una vittima in senso oggettivo, concreto, ma anche nell’attitudine, nel modo in cui pone se stesso verso la propria esperienza. Come può relazionarsi con persone (o personaggi) con carattere? Una persona con un’attitudine da vittima può avere successo nel metterla da parte e esprimere carattere?

Questa è un’enorme parte del problema. È semplice sentirsi una vittima, ma non lo è conviverci ed è praticamente impossibile raggiungere alcun obiettivo con quell’idea della vita. Essere una vittima è una condizione che la vittima stessa deve superare. È una sfida molto importante. Poche persone lo fanno.

Come società, sentiamo spesso che qualcun altro, come l’America o l’Europa, ci debbano qualcosa. Non ci devono nulla. È necessario risolvere il più possibile da soli, soltanto in seguito altri dal mondo libero potrebbero essere utili in qualche modo. Una parte dell’errata comprensione è il mito spesso condiviso dall’intellighenzia per cui il socialismo era un buon sistema e dovrebbe essere reintrodotto. Il socialismo è una malattia. Tutti sono vittime nel socialismo, rende le società infantili. 

Preghiera nell’assedio, Damir Ovčina, traduzione di Estera Miočić, Keller Editore, 2023.


Traduzione dall’inglese di Serena Prenassi

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Serena Prenassi
Serena Prenassi

Appassionata di Est Europa e in particolare di ex Jugoslavia. Studia mediazione culturale presso l’Università degli Studi di Udine, approfondendo la conoscenza del serbo-croato e del russo. Ha partecipato (e lo farà ancora) a diversi progetti europei nei Balcani.