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La macchina della prigionia politica bielorussa non si ferma

Nella notte tra il 9 e il 10 agosto del 2020, le piazze di Minsk e di molte altre città bielorusse sono state invase dai manifestanti, scesi in piazza per protestare contro i risultati delle presidenziali-farsa che hanno rivisto la rielezione di Aljaksandr Lukašenka. 

Da allora, il popolo bielorusso non ha mai smesso di lottare contro la dura repressione del regime di Lukašenka, che ha dato vita a una vera e propria macchina di prigionia politica: le voci dell’opposizione sono state messe a tacere, mentre media e organizzazioni indipendenti sono stati chiusi seduta stante dalle autorità. 

A cinque anni da queste proteste pacifiche antigovernative, le carceri sono ancora piene di prigionieri politici. La severa repressione del regime di Aljaksandr Lukašenka contro attivisti, giornalisti e difensori dei diritti umani, in particolare contro il Centro per i diritti umani Viasna (che al momento conta quattro dei suoi membri dietro le sbarre), rimane fonte di profonda preoccupazione per la Belarus’.

Le rappresaglie contro Viasna e i suoi membri fanno chiaramente parte di una più ampia repressione della società civile nel paese, lasciato senza alcuna piattaforma per i diritti umani che possa operare legalmente.

Per approfondire: Dentro e fuori la Belarus’: voci da una dissidenza che non si arrende

Ales’, Maryja, Viktar… e la lista di nomi infinita

Stando ai dati di luglio 2025, ci sono oltre 1.180 persone ancora detenute arbitrariamente per motivi politici. Tra queste, il premio Nobel per la pace e presidente di Viasna Ales’ Bjaljacki, l’avvocato dell’associazione Uladzimir Labkovič e il vicepresidente della FIDH (Federazione internazionale per i diritti umani) Valjancin Stefanovič, arrestati nel corso di un raid senza precedenti contro la società civile bielorussa il 14 luglio 2021. Il 3 marzo 2023 sono stati condannati, con accuse fabbricate, rispettivamente a dieci, nove e sette anni di reclusione. Sottoposti a condizioni dure e maltrattamenti, ai tre prigionieri politici è stato negato l’accesso a un avvocato.

La situazione di Ales’ Bjaljacki è particolarmente allarmante. La sua corrispondenza con la famiglia è sporadica: sua moglie ha ricevuto l’ultima lettera nel dicembre 2024 ed è probabile che l’uomo non abbia mai avuto modo di leggere, invece, quelle della moglie, che non gli sono mai state recapitate. Non vi sono inoltre prove che egli riceva cure mediche adeguate e tempestive per le sue malattie croniche, il che fa temere che le sue condizioni di salute stiano peggiorando.

Lo stesso vale per Maryja Kalesnikava, condannata a 11 anni nel 2021 con accuse inventate, tra cui “tentativo di presa di potere” nell’ambito della più ampia repressione dei leader dell’opposizione dopo le elezioni del 2020. Il 2 luglio scorso gli osservatori dei diritti umani hanno citato le testimonianze di alcune ex detenute che confermano che Kalesnikava si trova nella colonia penale femminile di Homel’, ma che la sua salute rimane precaria: continua a perdere peso, la sua ulcera non viene curata ed è una delle prigioniere che subisce le torture più dure, in quanto il rifiuto di collaborare con le autorità spesso porta alla perdita di privilegi e all’isolamento.

Prigione di Grodno (Unsplash/Jana Shnipelson)

Viktar Babaryka è un altro dei detenuti di alto profilo che rimane dietro le sbarre. Ex banchiere, filantropo e personaggio politico, è stato escluso dalle elezioni presidenziali bielorusse del 2020 e arrestato poco dopo aver lanciato la sua campagna elettorale. Nel luglio 2021 è stato condannato a 14 anni di carcere con accuse considerate di natura politica: corruzione, evasione fiscale e riciclaggio di denaro.

Per quasi due anni Babaryka è stato tenuto in completo isolamento, senza alcun contatto con la famiglia o gli avvocati. Questa prolungata assenza di comunicazioni è stata definita dalle organizzazioni per i diritti umani come una sparizione forzata. I primi segnali sono emersi all’inizio di gennaio 2025 – una tempistica calcolata, date le elezioni presidenziali del 26 gennaio che hanno riconfermato Lukašenka per un settimo mandato – quando fonti legate allo Stato, in particolare Raman Pratasevič, hanno pubblicato un breve video e alcune foto che mostravano Babaryka, visibilmente emaciato.

prigionia politica
Iniziativa dell’associazione Talaka in Italia per la liberazione dei prigionieri politici bielorussi (Yuliya Yukhno)

Secondo Reporter senza frontiere, dal 2020 circa 390 giornalisti bielorussi sono stati vittime di quelli che il gruppo considera arresti ingiusti, alcuni dei quali detenuti più volte. Anche quelli che sono riusciti a lasciare il paese spesso continuano a subire pressioni da parte delle autorità, che aprono casi contro di loro in contumacia, sequestrano i loro beni all’interno della Belarus’ e minacciano i familiari rimasti nel paese.

Ales’, Maryja e Viktar sono solo gocce nell’oceano di questa prigionia politica. Molti altri cittadini, uomini e donne, finiti dietro le sbarre con accuse inventate, denunciano maltrattamenti estremi: isolamento forzato, mancanza di cibo, indumenti caldi, medicine o contatti con la famiglia e gli avvocati. Anche i decessi non mancano.

Le amnistie di Lukašenka per il rilascio dei prigionieri politici

Nonostante l’intensità delle repressioni non sia calata, tra luglio 2024 e gennaio 2025 il presidente bielorusso ha concesso la grazia a oltre 200 prigionieri politici che, in cambio della libertà, hanno ammesso la propria colpevolezza e hanno formalmente chiesto clemenza.

Le grazie concesse da Lukašenka sono state periodiche e ben mirate. Anche il rilascio di un numero relativamente esiguo di persone – perlopiù quelle con problemi di salute o vulnerabilità familiari – è stato ampiamente interpretato come un gesto politico, rivolto al pubblico occidentale in un contesto di elezioni (quelle di recente vinte da Lukašenka con l’87,6% dei voti) e di sanzioni europee e statunitensi contro la repressione del dissenso e l’allineamento del governo bielorusso con Mosca relativamente alla guerra in Ucraina.

Tra i rilasci di alto profilo, e alquanto inaspettati, che spiccano negli ultimi mesi, figura il blogger dell’opposizione Sjarhej Cichanoŭski. Aspirante candidato alla presidenza nel 2020, è stato rilasciato lo scorso 21 luglio, dopo quasi cinque anni di detenzione, insieme ad altri 13 prigionieri politici. Dal suo luogo di detenzione è volato direttamente in Lituania, dove ha potuto ricongiungersi con la moglie, l’attuale leader dell’opposizione bielorussa in esilio, Svjatlana Cichanoŭskaja.

Il rilascio di Sjarhej è stato preceduto da un intervento diplomatico di alto livello mediato dagli Stati Uniti, la prima visita di un inviato statunitense a Minsk da anni: Keith Kellogg.

La macchina della prigionia politica non si ferma

Nonostante alcune liberazioni, l’apparato repressivo rimane intatto. Le autorità continuano a ricorrere a tattiche quali accuse di “estremismo” nei confronti di giornalisti e personalità della cultura, arresti arbitrari, detenzioni in isolamento forzato, proroghe multiple delle condanne, processi farsa, rappresaglie contro le famiglie e persecuzioni transnazionali dei dissidenti in esilio.

Gli organismi internazionali, tra cui la delegazione dell’Unione Europea presso il Consiglio d’Europa, non smettono di chiedere il rilascio completo e incondizionato di tutti i prigionieri politici, la loro riabilitazione, delle indagini indipendenti e il risarcimento. Il regime, però, continua a presentare questi rilasci (limitati come un contagocce) come semplici gesti di buona volontà.

Mappa della Belarus’ con i colori della bandiera dell’opposizione democratica (Wikicommons)
Mappa della Belarus’ con i colori della bandiera dell’opposizione democratica (Wikicommons)

Il 3 luglio, a Vienna, 37 Stati partecipanti all’Osce, tra cui i membri dell’Unione Europea, il Regno Unito, il Canada e l’Ucraina, hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui si chiede al presidente bielorusso di rilasciare immediatamente e incondizionatamente tutti i prigionieri politici:

Continueremo a sostenere l’aspirazione del popolo bielorusso a una Belarus’ libera, democratica e indipendente.


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Claudia Bettiol
Claudia Bettiol

Traduttrice e redattrice, la sua passione per l’est è nata ad Astrachan’, alle foci del Volga, grazie all’anno di scambio con Intercultura. Gli studi di slavistica all’Università di Udine e di Tartu l’hanno poi spinta ad approfondire le realtà oltrecortina, in particolare quella russa e quella ucraina. Vive a Kyiv dal 2017, collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso, MicroMega e Valigia Blu. Nel 2022 ha tradotto dall’ucraino il reportage “Mosaico Ucraina” di Olesja Jaremčuk, edito da Bottega Errante.