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“L’angelo ribelle” di Kusturica: un volo in direzione contraria

Emir Kusturica è uno dei più famosi e apprezzati registi viventi. Film come Il tempo dei gitani o l’ancora più importante Underground sono tra le pietre miliari della cinematografia contemporanea. Kusturica è un artista poliedrico, a tutto tondo, che riesce ad esprimere i suoi pensieri e le sue posizioni attraverso la musica e la scrittura. All’artista, però, si affianca anche l’uomo Kusturica, con le sue prese di posizioni nette, stridenti, a volte feroci e dolorose: come dimenticare il film-documentario su Maradona, grande atto di denuncia verso gli Stati Uniti attraverso la storia del campione?

In questo senso, il denso materiale che compone le pagine del suo primo romanzo, intitolato L’angelo ribelle, edito da La Nave di Teseo (2023), può essere letto contemporaneamente come operazione artistica e critica sociale e politica all’Occidente. Di seguito si proverà ad offrire alcuni spunti di lettura dell’opera, che offre alcune suggestioni e lascia aperti dubbi riguardanti posizioni difficili da esternare o da condividere.

L’angelo ribelle

L’angelo Ribelle di Emir Kusturica (La nave di Teseo, 2023)

A un primo giudizio L’angelo ribelle è un libro suggestivo, di gradevole e scorrevole lettura, articolato in tredici capitoli e preceduto da un’introduzione, vera e propria dichiarazione di intenti dell’autore. Sin da subito, il titolo fornisce la prima chiave di lettura interpretativa: ovvero il volo come dimensione sospensiva tra il cielo e la terra, come esercizio di fantasia e ricerca di una possibilità di trasformazione.

Entrando nel dettaglio, il libro resta sospeso tra le storie e i sogni, tra gli eventi e la produzione onirica. Come in Underground, il continuo ribaltamento del piano narrativo rende ancora più coinvolgente la lettura, mischiando frammenti biografici ed eventi immaginari.

Il nocciolo narrativo ruota intorno alla premiazione, a Stoccolma, per il Nobel per la letteratura 2019 dello scrittore austriaco Peter Handke. Una scelta che indirizza già verso una precisa postura ideale: l’amicizia con lo scrittore, per Kusturica, diventa la dichiarazione di intenti di una precisa visione del mondo, la testimonianza di una idea di amicizia che travalica il piano artistico e si inscrive nel mondo reale, costellato da guerre, divisioni, anatemi. Handke e Nietzsche, per l’artista sarajevese, sono i suoi personali Virgilio che lo guidano nella propria ricerca di Giustizia.

Handke, in particolare, è il vero protagonista del libro. Kusturica sceglie di chiamarlo “Pietro Apostolo Speleologo”, con estrema valenza metaforica: apostolo che scende nelle profondità del mondo per riportare alla luce la giustizia e la verità. E attraverso questa ricerca si snodano i piani più scivolosi della narrazione.

La fascinazione per Peter Handke

Handke è, per Kusturica, uno scrittore occidentale, un intellettuale pienamente inserito nel consesso globale, che si dimostra critico rispetto agli interventi militari e “umanitari” delle forze internazionali nel conflitto che ha coinvolto tutti i paesi della Jugoslavia negli anni Novanta. Questa forza critica, questa ricerca di una verità differente rispetto a quelle prodotte dai tribunali internazionali è ciò che per il regista rende Handke una figura unica. Ciò che infatti li accomuna è la denuncia delle forme perverse di quello che Kusturica definisce “globalismo”, che nella sostanza è la via occidentale e statunitense alla globalizzazione.

Un primo piano di Peter Handke (Wikimedia Commons/Wild + Team Agentur – UNI Salzburg)

Handke, nell’immagine tratteggiata dal regista, è colui che rende giustizia al popolo serbo prendendone le parti, senza trarne vantaggio personale alcuno. Questa scivolosa ricerca della verità, però, rischia di precipitare in una forma di negazionismo delle tragedie che quella guerra produsse, tanto nel corpo quanto nelle anime delle popolazioni. Handke è anche colui che in maniera più netta si è spinto a difendere lo Stato serbo e i suoi uomini al potere durante le guerre jugoslave, confondendo spesso la giusta e necessaria critica al cosiddetto “pensiero unico occidentale” con una narrazione eccessivamente accondiscendente e giustificazionista della politica serba di quegli anni.

Come in riferimento al genocidio di Srebrenica, a volte negato altre giustificato dallo scrittore austriaco come reazione ai massacri compiuti dai soldati musulmani nei paesi limitrofi la cittadina bosniaca abitati da serbi. Emblematica poi la sua presenza ai funerali di Slobodan Milošević, accompagnata da una breve lettura e da un articolo inviato al giornale Focus dal titolo Le ragioni del mio viaggio a Pozarevac, in Serbia, sulla tomba di Slobodan Milošević. Nell’articolo si legge:

Contrariamente alla “opinione generale”, di cui metto in dubbio il carattere generale, non ho reagito “con soddisfazione” alla notizia della morte di Slobodan Milošević. […] No, Slobodan Milošević non era un “dittatore”. No, Slobodan Milošević non deve essere qualificato come “macellaio di Belgrado”. No, Slobodan Milošević non era un “apparatčik”, né un “opportunista”. No, Slobodan Milošević non era colpevole “senza alcun dubbio” […].

La fune d’acciaio

Ciononostante, o meglio proprio per queste posizioni, Handke è per Kusturica colui che, dopo Ivo Andrić, vive in prima persona e scrive della ricchezza delle differenze multiculturali, che prova ad attraversare e unire le due sponde della Drina. Qui la seconda chiave di lettura del libro che riguarda proprio la metafora dell’attraversamento di una fune, sospesa tra i due lati del ponte, esercizio di libertà che si manifesta nella difficile ricerca dell’equilibrio sospesi nel vuoto. La fune d’acciaio è il tratto che, per Kusturica, unisce sogno e realtà, ed è dunque il filo rosso che lega i differenti capitoli. Il ritorno costante delle metafore aeree, di cui la fune è l’espressione più ricorrente, esprime la condizione di Kusturica, sospeso tra i ricordi di infanzia e le esperienze adulte, rincorso dalla fama ma voglioso di schivarla, attratto dal mondo ma rifiutandone le coordinate etiche e culturali contemporanee. Fondamentale è la ricerca dell’equilibrio, lo stare tra il bene ed il male cercando di servire la verità e la giustizia.

L’autore, come narratore o come spettatore della traversata di Handke, è sempre sul punto di cadere, sul punto di scoprire l’altro lato del mondo, ma riesce al contempo a rimanere ancorato al suolo e proiettato verso altri tempi e altri luoghi. L’esperienza così è un ponte tra passato e futuro, come il satellite lanciato nell’infanzia a Sarajevo e che i lettori possono ritrovare tanto nelle pagine di apertura quanto in quelle di chiusura del volume. Ma l’equilibrio è incarnato anche in Handke, l’uomo che può stare sulla fune sulla Drina, che cammina a piedi sulle strade serbe e bosniache tragicamente solcate da guerre e violenza e che riceve il Nobel a Stoccolma. Ed è colui che suggerisce al regista di non liberarsi mai dei propri demoni, di portarli sempre dentro. I demoni in questione, in fondo, sono quelli presenti nelle tessere di questo puzzle narrativo. Kusturica rivendica la sua appartenenza all’universo culturale occidentale, pur criticandolo, pur non condividendone le narrazioni autoaffermative. Rivendica le sue radici europee, pur assumendo delle sfumature ambigue. Egli guarda con sdegno al presente ricercando opzioni per il futuro.

Volare in direzione contraria

La frattura della guerra, infatti, è per Kusturica lo spartiacque che incentiva la sua feroce critica a quello che per lui si configura come “doppio regime di verità” sulle tragedie e sulle successive scelte politiche e culturali. Ciononostante, egli continua a considerare l’Europa un baluardo di civiltà, l’unico in grado di poter porre un freno all’avanzata di quelli che considera “nemici della civiltà” (e in questo si trova in compagnia di altri importanti autori come Michel Houellebecq). In questo senso la sua figura e quella di Handke diventano testimoni di un’altra narrazione, specularmente opposta a quella globale (che più volte nel libro egli definisce con toni satirici e sprezzanti), che dunque assume tonalità morali. È presente, infatti, in questa scelta poetica e narrativa, una idea di giustizia per i popoli oppressi, che viene però caricata di temi scivolosi e che, al di fuori delle posizioni del regista, meriterebbero ben altri approfondimenti storici.

Il legame di Peter Handke con la sorte del popolo serbo ha rappresentato l’atto di un uomo amante della giustizia, la difesa di un popolo umiliato e percosso e, senza dubbio, è stata un’utopia degna del Don Chisciotte di Cervantes.

E, in fondo, nella critica che muove all’amministrazione della giustizia globale da parte delle potenze egemoni si possono ritrovare degli spunti di analisi condivisibili, anche per quanto riguarda il rapporto tra potenza economica e potenza narrativa di coloro che sono pubblicamente riconosciuti come vincitori. Ma, scegliendo la parte dei vinti, Kusturica si affida all’immaginazione e al sogno per rifuggire la tristezza e la brutalità presente, continuando a cercare un difficile equilibrio sulla fune d’acciaio che lega arte e vita.

Provando a definire le traiettorie possibili del volo, Kusturica con questo libro ha offerto una chiara ed esaustiva dimostrazione di ciò che può fare la fantasia di un artista visionario, da prendere certamente con le pinze, ma che riesce sempre con maestria a illustrare, con le immagini e con le parole, come si possa sognare pur essendo circondati da macerie.

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Vincenzo Di Mino
Vincenzo Di Mino

Laureato in Scienze della Politica, è ricercatore indipendente in teoria politica e sociale. Ha collaborato con alcune riviste tra cui Machina.