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La lezione degli arbëreshë di Calabria

di Tiziana Barillà *

26 marzo 1451, Gaeta. Il condottiero albanese Gjergj Scanderbeg e re Alfonso I di Aragona siglano un accordo per il transito degli albanesi in fuga dall’invasione ottomana. Uno è un principe cristiano, capo della resistenza albanese contro gli “infedeli”; l’altro è il re di Napoli dal 1442 e vuole raggiungere la riva orientale dell’Adriatico. Nella guerra contro il sultano, Scanderbeg può contare sulla simpatia e vicinanza del papato, mentre il re di Napoli gli garantisce tre navi e, soprattutto, ospitalità. Con la firma del trattato, Gjergj diventa vassallo di Napoli e i “suoi” albanesi sudditi napoletani.

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Da sud a sud

Ha inizio l’esodo. Non abbiamo idea di come fossero vestiti, possiamo immaginarli coperti di stracci salire a bordo di barche di fortuna e dirigersi verso il Regno di Napoli, approdo naturale per lo sbarco, sia geograficamente che politicamente. Come ogni migrazione, non ha una sola causa né una sola motivazione. Esausti per la repressione turca, asfissiati dalle condizioni di povertà e schiavitù ormai insopportabili, e fiduciosi nell’accoglienza che avrebbero ricevuto dagli aragonesi, gli albanesi cominciano a migrare verso l’Italia. Da un Sud all’altro.

Così, alla fine del XV secolo, un re e un condottiero mettono in piedi dei rudimentali corridoi umanitari. Un flusso continuo di sbarchi accompagna nel profondo Sud italiano centinaia, migliaia, di arbëreshë. Lentamente e a più riprese, i profughi cominciano a stanziarsi nel Sud. Solo qualche fortunato riesce a sbarcare a Messina, la gran parte approda in Puglia dove li attende una lunga marcia a piedi nudi fino in Calabria. Da quel momento le loro mani hanno usato zappe e vanghe, non più fucili. I loro corpi e le loro vite hanno ripopolato i borghi, i villaggi e le terre abbandonate del Meridione d’Italia.

Anche questa è “storia d’Italia”, la nostra storia. Altro che “sostituzione etnica” e “stop invasione”. Secoli fa, un re e un condottiero hanno trovato un accordo capace di guardare più avanti di ogni politica contemporanea. Se il Sud Italia di oggi è in vita, è anche grazie al Sud Albania di ieri, che venne a ripopolare il deserto scappando dalla fame e dall’invasore turco. Intere città fondate dai profughi nel Sud Italia, specie in Calabria dove lo spopolamento spinge ancora e forte il piede sull’acceleratore. Nel tempo dei respingimenti e della paura dell’altro, è tragicamente curioso scoprire che diversi secoli fa un regno non vide una minaccia di invasione in un “esercito” di fame, stracci e miseria. Ma attenzione, sarebbe un errore credere – o lasciar credere – che sia filato tutto liscio come l’olio.

arbëreshë di Calabria
Icona dell’arrivo degli esuli albanesi in Italia, conservata nella Chiesa del Santissimo Salvatore a Cosenza

Gli albanesi arrivano al Sud portando con sé una lingua incomprensibile e alcuni preti orientali di rito ortodosso, con barbe lunghe e mogli al seguito. Popolano interi paesi, talvolta li ricostruiscono ex novo affittandone le terre oppure come coloni parziali dei latifondisti. E, tutti, vengono tacciati d’esser gente incline alle armi, banda di ladri e briganti. Reclusi nei campi, al limite della sopravvivenza. Gli albanesi lavorano la terra dei signorotti locali in regime di stenti e povertà. Costantemente controllati dai “guardiani” e invisi ai contadini del posto che li guardano come usurpatori. Al Sud trovano nuovi oppressori pronti a impossessarsi delle loro vite. Il re, è evidente, non accoglie nuovi cittadini ma nuovi servi pronti all’uso. Braccia e schiene per cercare di rimettere in moto l’economia di quel pezzo di impero in rovina, devastato da guerre tra aragonesi e angioini, lotte di incoronazione, pestilenze, terremoti.

Sfruttati in terra di sfruttati, rivoltosi in terra di rivolta. Gli albanesi d’Italia restano per secoli, sopportando e combattendo. Si vidi nu ghjeghju e nu lupu, spara prima a ’ru ghjeghjue pua a ’ru lupu, avverte un proverbio calabrese: Se vedi un arbëreshë e un lupo, spara prima all’arbëreshë e dopo al lupo. Poche parole a testimoniare quale accoglienza trovarono i nuovi arrivati. Eppure, più che di una “tendenza criminale” quel detto pare voler suggerire il piglio di chi propende alla ribellione. Una predisposizione all’autonomia e alla libertà, senza le quali ribellarsi è un obbligo.

La Scuola arbëreshë di Calabria

Gli albanesi d’Italia, nel corso dei secoli, sono stati protagonisti indiscussi delle lotte risorgimentali e pure di quelle antifasciste. È tra le mura del Collegio di Sant’Adriano (a San Demetrio Corone, in Calabria) che – sfogliando Voltaire, Rousseau e i classici – hanno preso forma i sogni calabresi e arbëreshë. La Scuola, nata nel 1794 per ordinare nuovi sacerdoti di rito bizantino, diventa presto quel che i re chiamano “covo di vipere” e “fucina di demoni”. Un centro di rivoluzionari provetti, “un vivaio di giovani esaltati da sentimenti di libertà e da un senso di idolatria per la rivoluzione francese”, scrivono i Borboni quando decidono di chiuderlo per due anni, fino al 1850.

Quelli che Spezzano. Gli arbëreshë tra comunalismo e anarchia
Copertina del libro Quelli che Spezzano (Fandango, 2020)

Quando gli studi teologici lasciano il posto a quelli classici, il liceo spalanca le porte all’Illuminismo. Gli ideali della Rivoluzione francese contagiano professori e studenti. Qui fermentano le idee di democrazia, socialismo e anarchia. Qui la borghesia terriera arbëreshe cospira con gli intellettuali. Qui vengono pensati e accolti i moti del secolo: la Rivoluzione francese e la Repubblica Napolitana, l’organizzazione carbonara, i moti del ’20 e ’21, quelli del ’44, fino ad abbracciare la rivoluzione del 1848 e trasformarsi in un movimento sovversivo. Dei ventuno calabresi che il 5 maggio 1860 salpano da Quarto con Garibaldi, cinque hanno studiato in questo collegio. È in Calabria che si forma l’intellighenzia arbëreshe: i fratelli Domenico e Raffaele Mauro, Agesilao Milano, Cesare Marini, Attanasio Dramis, gli spezzanesi Antonio e Giuseppe Angelo Nociti.

Ed è qui che la resistenza arbëreshë incontra le truppe austriache per reprimere i moti del ’20 e ’21, il re di Napoli nel 1852, Garibaldi nel 1860. Nel 1943 ci passeranno anche i tedeschi. Dopo secoli di lotte e repressione, quando finalmente sembra arrivata un po’ di pace, il Novecento sta per portare due guerre mondiali e il fascismo che gli albanesi combattono su due fronti, quello italiano e quello albanese. Cittadini di due patrie, gli italo-albanesi assistono all’invasione dell’Albania da parte dell’Italia di Mussolini che invia i coloni per “italianizzare” il paese. E intanto riprendono gli abiti degli oppressi – mai smessi – per resistere al nuovo duce e ai vecchi padroni.

Cinque secoli dopo

Quando, l’8 agosto del 1991, la nave Vlora proveniente da Durazzo giunge al porto di Bari, gli oltre 20mila albanesi a bordo in fuga da un paese economicamente e socialmente esplosivo, trovano ad accoglierli innanzitutto gli arbëreshë. Il passato si stava ripetendo a distanza di secoli. Adesso il post-comunismo in Albania si era tradotto in una grave instabilità: isolamento e contrasti interni esacerbati dalla contrapposizione feroce tra nord e sud del Paese, tra centri urbani e campagne. Perciò molti albanesi fuggivano verso l’Italia, traghettati da affaristi senza scrupoli. Già sei mesi prima di quello sbarco – a marzo dello stesso anno – altre piccole imbarcazioni avevano avviato il lungo esodo degli albanesi in Italia. Un secondo esodo, una seconda ondata migratoria che, a distanza di cinque secoli, tornò a unire l’Italia e l’Albania. Al risveglio, il “sogno italiano” si infranse contro un paese – l’Italia – impreparato a fronteggiare l’arrivo di quella marea umana. Così, decine di migliaia di donne, uomini e bambini vennero “raccolti” dentro uno stadio improvvisato campo di concentramento, trattati alla stregua di deportati, «come bestie» (citazione di Don Tonino Bello, vescovo di Molfetta). In quella disperazione gli albanesi trovarono l’abbraccio degli arbëreshë pronti ad accoglierli. Qualcuno si presentò al porto addirittura vestito in costume cercando di comunicare nonostante i cinque secoli di distanza che correvano tra le loro lingue. Lo spirito di accoglienza delle comunità arbëreshë è vivo ancora oggi e non solo nei confronti dei “fratelli” albanesi.

È specialmente una la lezione che ho appreso dagli arbëreshë di Calabria: nessuno è proprietario della terra che calpesta, chi sostiene d’esserlo ha smesso di guardare indietro. “Un albanese è un barese che non ha smesso di nuotare”, ha scritto qualcuno su un muro di Bari negli anni del grande sbarco albanese in Puglia. Credo avesse perfettamente ragione. Tre calabresi su 100 sono albanesi che cinque secoli fa non hanno smesso di camminare e sono arrivati fin quaggiù. Continuando a parafrasare l’anonimo, oggi, potremmo fermare chiunque per strada e comunicargli che l’immigrato (che magari ripudia o respinge) non è altri che lui che non ha smesso di camminare.

Aree con presenza arbëreshë in Italia

*Giornalista professionista, nasce a Reggio Calabria nel 1979. Nell’aprile 2016 pubblica Don Quijote de la realidad. Ernesto Che Guevara e il guevarismo e nel 2017 Mimì Capatosta (Fandango Libri) sull’esperienza di accoglienza del paese di Riace. Sempre con Fandango ha pubblicato nel 2020 Quelli che spezzano. Gli arbëreshë tra comunalismo e anarchia

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