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L’otto marzo, un racconto di Rumena Bužarovska

Racconto tratto in versione integrale dalla raccolta Mio marito di Rumena Bužarovska (Bottega Errante Edizioni)

Tutto questo non sarebbe successo se non avessimo incontrato Irena nel ristorante quella sera. E anche se non fossi stata a tal punto influenzata dalla mia relatrice che ormai da mesi mi ripeteva che dovevo trovarmi un aman­te. «Come mai così splendente? Stai benissimo. Non hai trovato un amante, per caso?» mi diceva quando ci vede­vamo per un caffè. Oppure: «Ogni donna di successo deve farsi un amante!». Questo mi lasciava perplessa, perché questi discorsi di solito erano seguiti da informazioni su suo marito; dove erano stati insieme durante il fine setti­mana oppure che cosa le aveva comprato. E lo chiamava spesso mentre stavamo insieme e gli bisbigliava parole d’amore quando pensava che non potessi sentirla.

«È arrivato il tempo per un amante, ho capito io» mi diceva. Cominciai a chiedermi perché parlasse così. La prima cosa che pensai era che forse lei stessa era insod­disfatta del proprio matrimonio. Ma, a parte il discorso sugli amanti, non c’erano altri segnali di insoddisfazione. Per cui pensai che probabilmente c’era qualcosa dentro di me che non funzionava, visto che la mia relatrice insi­steva che mi dovessi trovare un amante. Forse si vedeva che avevo bisogno di più sesso, mi dissi. Mentre prende­vamo il caffè al bar, entrò un uomo vestito molto bene con capelli folti e bianchi. «Sanja, amica mia» disse la mia relatrice e mi prese la mano, «questo è perfetto per i tuoi gusti». Non corrispondeva proprio ai miei gusti, ma diciamo che non era male.

«Bene, e come faccio a trovare un amante?» le chie­si una volta fingendo di scherzare, perché anche lei fin­gendo di scherzare mi diceva di trovare un amante. Se le avessi chiesto se aveva mai avuto un altro uomo nella sua vita, sicuramente non me lo avrebbe confessato. Non mi avrebbe detto né sì né no – aveva posto in modo molto chiaro le linee di separazione tra di noi. Lei chiede, io ri­spondo. «Quando si vuole fare una cosa, è possibile fare tutto» mi rispose.

Non riuscivo a immaginare come potesse essere avere un amante. Non ho mai tradito Boban in vita mia. Non ci ho neanche pensato. Non ho mai conosciuto un uomo che mi piacesse così come mi piaceva Boban. Con lui era sem­pre dolce, caldo e piacevole. Non abbiamo mai litigato e mi sostiene sempre in tutto. Noi siamo una famiglia felice di quattro membri. Sì, è vero, ultimamente facciamo l’a­more raramente. Forse una volta al mese. Ma francamente non ne sento un grande bisogno. Con Boban stiamo in­sieme ormai da ventidue anni e forse abbiamo superato questa fase. Però mi succede qualche volta, se guardo una scena sexy con un attore che mi piace – mi piacciono solo gli attori, non persone vere –, di sentire il solletico come un tempo. L’ultima volta che successe, mi dissi che forse avrei dovuto sfruttare il momento. Mi vergognavo di am­mettere di essere stata eccitata dalla scena erotica di un film, così volli provare a sedurlo in modo sottile. Mi girai verso Boban, ma lui si era addormentato sul divano.

Sono molto arrabbiata con la mia relatrice che mi ha inculcato quell’idea nella testa. Se lei crede che io debba avere un amante, essendo lei una signora raffi­nata, intelligente, benevola e straordinaria, allora forse qualcosa non funziona con me. È tutta la vita che seguo i suoi consigli e finora non ho mai sbagliato. Tranne che in questo caso.

Eppure, non è tutta colpa della mia relatrice. È col­pa anche di Irena, quell’essere terribile. Ha fatto la sua apparizione nel ristorante Tre Fagiani dove ci aveva riu­nito il direttore dell’istituto per festeggiare l’Otto marzo. Il ristorante era pieno, un gruppo musicale suonava la musica tradizionale e tutti erano allegri. Tutto quello che mangiavamo o bevevamo era stato offerto dai nostri col­leghi del sesso forte. E Irena ne fece uno scandalo alla fine della serata prima di lasciare il locale. Era una cosa maschilista, protestò buttando i soldi sul tavolo per pa­garsi la grappa che aveva bevuto, perché ne aveva bevu­to più di un bicchierino. In questo modo si rendevano le donne ancora più sottomesse. Ci prestavano attenzione, ci offrivano da bere e ci regalavano i fiori per un giorno, e per il resto dell’anno le donne erano schiave. Questo stesso atteggiamento implicava mancanza di eguaglian­za, ed era in contrasto con l’idea originaria dell’Otto mar­zo, pontificava Irena. «Che cosa hai, Irena, nessuno ti ha regalato dei fiori oggi?» la prendevano in giro i maschi. «Oppure c’è un’altra cosa che ti manca da tanto tempo, eh?» continuavano. Irena s’infuriò e se ne andò. Provai soddisfazione vedendola così. Avrei dovuto aggiungere anch’io qualche commento: «Se vuoi convincere il mon­do di essere una femminista, perché sei venuta a una fe­sta come questa?». Forse glielo dirò un giorno.

E quella sera sembrava più bella del solito. Era vesti­ta bene, che per lei è un’eccezione. Di solito viene al la­voro in jeans e scarpe da tennis, cosa che a me sembra inaccettabile per una giovane professionista – per una professionista di qualsiasi genere, insomma. Semplice­mente, non ci si presenta in ufficio vestiti in quel modo. Non l’ho mai vista portare una giacca, per non parlare dei tacchi. Le sue unghie sono sempre trascurate. Proba­bilmente non sa neanche cosa sia la manicure, per non parlare del pedicure. Inoltre, penso abbia torto ad anda­re così fiera del fatto di non pettinarsi mai. I suoi capelli sono ricci naturali, e non li fa stirare e non si fa fare le acconciature. Non usa quasi il trucco, anche se questo potrebbe renderla molto più bella. Porta i gioielli – orec­chini in legno e braccialetti in pietra, che senz’altro co­stano poco. Non le ho mai visto addosso qualcosa di di­ spendioso. E potrebbe essere molto carina. Ha le gambe magre, è popputa, ha anche un bel culo. Non è grassa, ha una bella carnagione, bruna, la bocca grande e gli occhi verdi. Vestita bene e truccata, sicuramente avrebbe potu­to essere carina – questi erano i commenti anche di altre colleghe e colleghi.

Alla tavolata lunga nel ristorante Tre Fagiani mi capitò di essere seduta accanto a Toni. Toni è un mio collega, di alcuni anni più grande di me. Abbiamo frequentato lo stesso liceo e ci siamo laureati alla stessa facoltà, dove lui per un po’ era stato assistente, e adesso lavoriamo in­sieme e abbiamo sempre temi in comune. Specialmente perché Toni è sposato e ha un figlio. Con Toni avevamo subito squadrato Irena, quando era entrata. Mentre sa­lutava altri colleghi, avevamo commentato il suo aspet­to. «Guarda un po’ la nostra Irenina» disse Toni. «Forse le succede qualcosa?» mi rivolse uno sguardo birichino e tutti e due ci mettemmo a sghignazzare. Irena indos­sava un vestito nero che si chiudeva in mezzo e le arri­vava fino alle ginocchia. Non aveva i tacchi, ma il vestito delineava bene le sue forme. Portava orecchini in pietra verde a forma di lacrima, una borsetta verde e scarpe ver­di. Si era data da fare questa volta. Non riuscivo a capire bene perché – non era forse una femminista? Si sedette a un posto vuoto accanto a me.

Toni aveva già alzato il gomito e con fare da genti­ luomo versava da bere anche a me ogni volta che il mio bicchiere si svuotava un po’. Versò della grappa anche a Irena.

«Stai proprio bene stasera, Irena» le dissi io.

«Grazie» disse lei e cominciò a rosicchiarsi l’unghia del pollice. Se avesse messo il rossetto, lo avrebbe sicura­mente sbavato in quel modo.

«Sì, benissimo, rinfrescata, piacevole. Così vediamo un po’ anche te» sorrise Toni, «vediamo che cosa hai da offrire. Ah­ah­ah».

Irena continuò con il suo rosicchiare. «Grazie» disse dopo aver tirato fuori dalla bocca un pezzo di cuticola. Che schifo, pensai.

«Esci con il tuo ragazzo?» le chiesi, perché sapevo che stava con qualcuno già da tempo.

«Sì, forse dopo andiamo da qualche parte» mi rispose.

«Pfff, un ragazzo» disse Toni. «Ancora avete a che fare con i ragazzi, alla vostra età?».

Irena stava per dire qualcosa, ma Toni la interruppe.

«Quanti anni hai adesso? Trentuno? Hai finito sia il ma­ster che il dottorato – che cosa aspetti?» Toni le diede un buffetto giocoso sulla spalla con una strizzata d’occhio.

«Sì, perché non vi sposate?» le chiesi io. Mi interessava veramente. Non capivo perché le persone facciano così, convivano e basta. Pensavo che forse uno dei due non si volesse sposare, perché voleva aspettare per esaminare le altre opzioni offerte, migliori di quelle che aveva nel momento.

Irena alzò le spalle. «Non c’è bisogno. Viviamo insie­me da anni. È come se fossimo sposati».

«Eh, no, scusa» disse Toni. «Il matrimonio è sempre il matrimonio. L’accordo è insostituibile. Così come fai a fidarti?».

«Dai, è da una vita che non balliamo a una festa di nozze» mi intromisi io.

«Ma no, non devi neanche dare una festa, portaci un dolcetto e noi saremo allegri!» esclamò Toni e alzò il bic­chiere per brindare con noi. Tutti e tre facemmo cincin. Irena, controvoglia.

«Sai che cosa avrei tanta voglia di mangiare?» mi disse Toni e con una mano si prese la pancia e distese l’altra. I suoi occhi luccicavano a causa della grappa. «I fegatini».

All’improvviso anche a me venne voglia di mangiare i fegatini.

«Uh, anche io ne assaggerei un po’» gli confessai. «Ma l’aglio…».

«Lascia perdere l’aglio, a questo ci devono pensare le nubili» disse e guardò Irena sorridendo.

Seguì un silenzio imbarazzante, perché Irena non rise.

«Allora, siamo seri. Quel tuo ragazzo che cosa aspetta? Eeehi, così perderai il treno! Non potrai rimanere incin­ta!» disse Toni.

Irena fece per dire qualcosa, ma pareva insicura, così la interruppi perché d’un tratto, forse grazie alla grappa, fui inondata dalla felicità di essere una madre e una don­na in carriera. E di essere una donna curata e distinta. Avevo l’impressione che Irena fosse un’allieva alla quale avrei dovuto dare consigli sulla vita, come la mia relatrice dava consigli sulla vita a me.

«La cosa più importante del mondo è avere figli. Io ho fatto il primo a ventisette anni e mi pento ancora di non averlo fatto prima».

«Sì, mi dispiace di avere solo un figlio. Non c’è ric­chezza più grande dei bambini» disse Toni e mi gettò uno sguardo pieno di comprensione.

«Niente ti potrà riempire la vita come te la riempirà un figlio» continuai io, sentendomi ispirata. «La donna che non diventa madre non è una donna realizzata» dissi pensando a una mia zia nubile e affetta dall’ipocondria.

«Ma perché non andate a rompere le scatole su que­sto tema alle colleghe più grandi di me?» si oppose Irena a quel punto. Le parole rotolavano in modo goffo dalla sua bocca.

«Per loro non c’è più speranza. Hanno trentasei­-tren­tasette anni e sono rimaste nubili. Vorresti che un giorno guardassimo te così come tu le guardi adesso?» le disse Toni. Anche lui la guardava come me, con preoccupazio­ne. All’inizio scherzava, ma adesso mi rendevo conto che sia io che Toni facevamo questo perché ci preoccupava­mo per lei e sentivamo la responsabilità verso la nostra giovane collega che aveva molte potenzialità.

«Come le guardo io adesso?». Irena si accigliò e una ruga molto severa le apparve tra i sopraccigli. All’improv­viso sembrava molto più vecchia.

Toni abbassò la voce e si chinò verso Irena. Gettò uno sguardo verso gli altri ospiti della tavolata per controllare se potevano sentirci. Ma il violinista e il chitarrista della band erano scesi dalla pedana e suonavano all’orecchio delle due pensionate dell’istituto, così tutti le guardava­no battendo le mani a ritmo. «Non vedi quanto è frustrata Ema perché ha perso il treno per avere figli e un marito?». Ema litigava con tutti e passava il tempo a battersi per la giustizia. Correva pure a discutere per i ministeri. Asso­migliava a una lesbica. «Sì» confermai. «Anche la Neven­ka. Lo stesso». Nevenka era già vicino alla quarantina.

«Ma Nevenka ha un compagno, vero?» chiese Irena.

«Ne ha uno. Lo stesso da sempre, se pensi a quello. Uno robusto, diciamo. Mi sembra che sia un gastroen­terologo. Quindi, va bene. Ma lui è, lo sai, una seconda scelta. Questi sono i fatti. Noto che alcune mie amiche devono frequentare uomini di seconda scelta. Anche di terza. Ma è così». Immaginai come sarebbe stato terribile se fossi stata nubile e mi fossi ridotta anch’io a frequentare uomini divorziati con figli.

«Sì, e ai maschi così va benissimo. Trovano delle mo­rose giovani che stanno con loro e badano ai loro figli. Ti ricordi Mirjana?» mi chiese Toni. «Per tutta la vita si era presa cura del figlio del marito ed eccola adesso, a quarantacinque anni non ha un figlio suo. Forse dovrà adottare».

Entrambi guardammo Irena. Lei taceva e si grattava la testa vicino alla nuca, come se dovesse estirpare qual­cosa. Che schifo, pensai. Non deve fare queste cose in pubblico.

In quel momento arrivarono i fegatini. Toni si rallegrò nel vederli e da gentiluomo ne mise prima un paio nel mio piatto, e sempre ridendo stava per metterne alcuni anche in quello di Irena, concludendo nel frattempo il discorso.

«Quindi, siamo d’accordo. Le nozze e il figlio urgentemente» disse e le strizzò l’occhio, con la forchetta alzata dalla quale pendeva un pezzo grande di fegatino.

Irena diede una manata alla forchetta e la carne cadde sulla tovaglia.

«E a te che te ne frega che io faccia figli o no? Perché non ti fai i cazzi tuoi?» sbottò all’improvviso. Toni stava ancora con la forchetta a mezz’aria. Irena parlava sotto­ voce, tra i denti.

«È troppo chiedere che non vi immischiate con la mia fica, come io sto lontana dai vostri organi sessuali?».

Era così volgare quello che disse che rimanemmo di stucco, incapaci di reagire. Non ho mai sentito parole del genere in pubblico. Soprattutto dalla bocca di una donna.

«Ecco voi due, ad esempio, puzzolenti nell’accidia dei vostri matrimoni e adesso volete mettere gli altri nella vostra poltiglia puzzolente? Vi interessate solo delle vite private altrui e sputate sentenze sulla morale e sui figli, e sicuramente dietro le spalle scopate come animali. Dove andate voi due dopo, eh? Pensate che io non veda che cosa state facendo? Fegatini­-scopatini. Ma in culo entrambi!» disse Irena e si alzò. Si spostò dall’altra parte della tavolata e si sedette con le pensionate, dove poco tempo dopo provocò scandalo parlando del festeggia­mento dell’Otto marzo e poi lasciò la festa.

«Che cos’è stato?» mi disse Toni dopo la scenata di Irena.

«I giovani non hanno buon senso. Non hanno rispetto per l’autorità» ripetei la frase che mi diceva spesso la mia relatrice. Le mani mi tremavano. Non solo a causa dell’u­scita volgare di Irena. Era come se avesse detto qualcosa di me che non sapevo, qualcosa di molto intimo di cui non ero stata cosciente fino ad allora.

«Non ci posso credere» disse Toni con un boccone di fegatino in bocca. «Mmm, com’è buono» mangiava ru­morosamente e sospirava dal naso. Per un attimo la pre­occupazione sul suo viso fu sostituita dall’espressione di piacere, e poi sembrò riaversi, e tornò al tema.

«È stata indecente e non la passerà liscia».

«Sì, dovrebbero esserci delle ripercussioni» dissi chie­dendomi che cosa avessi voluto dire con questo.

«Non dobbiamo più collaborare con lei, hai ragione».

«Ma anche io e te è una vita che non collaboriamo a un progetto».

Appena ebbi pronunciato questo, mi chiesi di nuovo perché l’avessi detto. Qualcosa di quello che aveva detto Irena mi aveva ferito, e anche la grappa mi aveva stordito un po’. Siccome non sapevo cosa fare, infilai anch’io un fegatino in bocca. Era squisito.

Rumena Bužarovska otto marzo
Rumena Bužarovska (foto Vanco Dzambaski)

Proseguimmo per un po’ a raccontare pettegolezzi su Irena finendo di mangiare i fegatini. Toni continuava a versarmi la grappa nel bicchierino. Mentre cercavamo di parlare seriamente di un progetto sul quale avremmo potuto collaborare in futuro, ricordandoci anche del pri­mo al quale avevamo lavorato insieme più di dieci anni prima, il suo viso mi sembrava sempre più bello. Mi chie­devo se anche lui mi vedesse così come lo vedevo io. Mi resi conto di essermi raddrizzata e che mi stavo metten­do in ordine la frangia ogni volta che mi guardava.

«Che carino questo Toni» mi aveva detto una volta la mia relatrice. «Ha qualcosa di… neanderthaliano nella faccia» aveva aggiunto maliziosamente, «ma è comun­que simpatico. Il suo corpo è un po’ buffo. Hai notato che ha le gambette magrissime?».

Guardavo la faccia “neanderthaliana” di Toni e capii che la sua fronte prorompente sopra gli occhi in effetti mi stava attirando. Le sue sopracciglia erano folte e nere e creavano una specie di ombra sui suoi occhi, che stase­ra sembravano due zaffirini luccicanti. Ogni volta che mi guardava, un azzurro acuto mi penetrava come un pun­teruolo da qualche parte sotto la trachea.

Mi ricordai anche delle “gambette”. Toni era alto, e la sua costituzione era veramente un po’ strana, ma si vede­ va che da giovane era fatto bene, prima di acquisire quel cinturone di ciccia che gli dava un aspetto di diamante. Aveva anche una protuberanza carnosa sul retro del col­lo, alla collottola, a causa della quale dava l’impressione di essere gobbo, e conseguentemente un po’ insicuro. Aveva le gambe lunghe, magre, affusolate – quasi fem­minili – e per questo motivo la mia relatrice lo aveva de­scritto così. Ma aveva braccia forti e mani enormi pelose sulle falangi. All’anulare destro splendeva una fede d’oro. Lo fissai. Tra tutte quelle posate gettate disordinatamen­te sul tavolo, la musica popolare che diventava sempre più alta, il chiasso degli ospiti alticci e la danza delle don­ne grassottelle che avevano cominciato a dondolarsi in­sicure sulle gambe attorno a noi, la sua fede brillava in modo accecante e assordante.

«Scusami» si avvicinò Toni al mio orecchio, sfioran­domi con la bocca un ciuffo di capelli. «È di nuovo mia moglie al telefono. Dovrò risponderle».

«Pronto!» cominciò a gridare all’apparecchio, tenendo una mano sopra la bocca e facendo vedere la sua mano con la fede luccicante. «Sono alla festa! Che cosa vuoi!» urlò. «Non so quando tornerò!» e poi spense il telefonino e lo gettò con ostentazione sul tavolo.

Mi si avvicinò di nuovo. Sentii il suo alito caldo nel padiglione dell’orecchio e sentii un brivido corrermi dol­ cemente sulla nuca. «Scusami» mi disse, «ma non so più cosa fare con mia moglie. È una scassacazzi». Si allon­tanò da me e con un’espressione di autocommiserazione scolò la grappa.

«Che cosa c’è, ti chiama spesso quando esci?». Questa volta ero io che mi avvicinavo a lui e odoravo il punto in cui aveva messo il profumo.

«Tut-to il tem-po». Scandiva ogni sillaba con gli occhi sbarrati e i suoi denti splendevano. Notai che erano arti­ficiali perché erano collegati in modo innaturale con le gengive. Mi si avvicinò di nuovo. «Sai, non sa che cosa fare con se stessa. È ossessionata dalla casa. Tutti i giorni non fa altro che pulire e pensare a che cosa preparare da mangiare per me e mia figlia. Secondo lei, io non sono un bravo uomo di famiglia. Esco troppo spesso, spendo soldi, offro nei ristoranti. Non l’aiuto in casa e rendo la sua vita difficile. Qualche volta mi chiama pure ubriaco­ne» rise e brindammo. Entrambi sorseggiammo un po’ di grappa.

«E tu bevi troppo?» mi permisi di chiedere. «Ed esci spesso?».

«Ma che bere, che uscire. Due-­tre volte alla settima­na con gli amici, in qualche ristorante. Ma ogni volta è così. Quando torni. Che cosa stai bevendo. Quanti soldi hai speso». Storceva la bocca e gridava facendo il verso alla moglie. Poi si allontanò un po’ da me e con la mano con la fede congiunse il pollice con le altre quattro dita, imitando qualcuno che borbotta continuamente. «Bla bla bla bla!» gridava a voce molto alta. «Mi chiama tutto il tempo e mi smerda tutto, quella merdosa!» gridò anco­ra più forte.

Gli toccai delicatamente la spalla. «Non innervosirti» gli dissi. «È una donna possessiva. Non devi dimenticare che tu sei in ogni senso un uomo eccezionale» le parole mi scapparono dalla bocca.

Appoggiato com’era con un gomito sul tavolo, mi guardò con gli occhi socchiusi. Voleva e aspettava che continuassi.

«Non devi dimenticare che sei un intellettuale di altis­simo livello. Inoltre, sei un marito responsabile e un pa­dre meraviglioso» dissi, anche se non ero sicura di avere ragione. «Ogni donna sarebbe felice di stare con te» mi sorpresi all’improvviso ad aggiungere e sentii un afflusso di sangue nel viso.

«Ehi, adesso stai esagerando» mi disse e sembrava or­goglioso di sé. Spostò anche un po’ la sedia per starmi più vicino. Il petto gli si gonfiò. Il viso gli si illuminò. «Da dove viene adesso questa cosa dell’intellettuale di altis­simo livello?».

«Tu?» dissi, fingendo sorpresa. «Ma tu sei uno degli esperti più rinomati nella tua area di ricerca nel Paese. Sono rari coloro che hanno conoscenze profonde come le tue». Ripetevo quello che mi aveva detto la mia relatrice.

«Ma no, adesso stai veramente esagerando». Fece un cenno con la mano e mise la mano nella tasca della giac­ca, traendone una sigaretta.

«Credi che abbia questa impressione perché mio ma­rito è uno sbirro?». Le battute sul mio marito sbirro le po­tevo usare in ogni occasione e allora tutti immancabil­ mente ridevano e pensavano che fossi divertente.

«Sei spiritosa» mi disse lui quando finì di ridere. «Que­sto è raro nelle donne». Qualcosa mi si mosse nell’anima. L’orgoglio, pensai.

«Dai, vieni fuori con me per una sigaretta. Qui sta di­ ventando troppo chiassoso e soffocante, stento a sentirti».

«Ne accenderei anch’io una. Ne hai?». D’un tratto mi venne tanta voglia di fumare, anche se erano anni che non lo facevo. L’ultima volta che avevo fumato era stata prima della nascita di mia figlia, in vacanza con Boban, mio marito, a Herceg Novi, quando difatti avevamo con­cepito nostra figlia.

Uscimmo e ci mettemmo sotto una tettoia nella par­te più lontana del cortile del ristorante, dove c’era anche una panchina in legno. Da dentro si sentivano provenire i canti e un assolo di fisarmonica. Ci sedemmo sulla pan­china e i nostri fianchi si sfiorarono. Mi passò una siga­retta e me l’accese con uno di quegli accendini che hanno una fiammata grande e puzzano come un distributore di benzina. Aprì e chiuse l’accendino con destrezza, come io so fare con il ventaglio. Mi tremavano un po’ le dita mentre mi accendeva la sigaretta. Mi sentii come se fossi a un rendezvous romantico, cosa che non mi succedeva dagli anni della giovinezza.

«È così, ti dico» continuò lui, perché sembrava che il di­scorso gli facesse bene. Anche io volevo continuare a par­lare di vicende intime. «Non è proprio facile, comunque».

«Tutti abbiamo problemi. Anche questo è normale». Aspirai una boccata che mi provocò un po’ di nausea, ma riuscii a non farlo vedere. Decisi di non aspirare così for­te. Lui taceva e fumava, tenendo la sigaretta tra il pollice e l’indice.

«E il tuo sbirro, come va?» chiese e sorrise sornione. «Fa lo sbirro anche per casa?».

«No» dissi e l’agitazione della domanda mi fece aspi­rare troppo forte il fumo che mi provocò di nuovo uno stordimento. «A casa nostra è lui che esce. Ma io non lo tormento e non gli chiedo dove va. Può succedere che debba rimanere al lavoro anche dopo l’orario. E poi va a divertirsi con gli amici. Chissà dove va e cosa fa». Mi guardai le scarpe. I miei piedi snelli mi parevano bellis­simi e questo mi diede la forza di continuare a dire cose che forse non avrei dovuto, che forse esageravo.

«Sinceramente, questo non mi dà fastidio. Da quando i figli sono cresciuti, ho capito finalmente che cosa signi­fica avere pace e tranquillità. Lui esce la sera e io accen­do la tv e guardo le mie serie. Qualche volta le guardo per ore e così mi riposo. Mi piacciono questi momenti di solitudine. La solitudine è un lusso» ripetei un’altra frase della mia relatrice.

«Io non ti lascerei sola, scusa se te lo dico» disse Toni e aspirò profondamente il fumo. Si sentì bruciare il tabac­co, e poi il suo alito mentre espirava il fumo. «Una donna come te è una rarità».

«Dai non esagerare adesso». Ora toccava a me trovar­mi in imbarazzo.

«No, te lo dico francamente» si girò verso di me e mi guardò, e il suo sguardo era pensieroso, come se mi guar­dasse da lontano. In quel momento la musica nel risto­rante cessò. Si sentirono l’applauso e il chiasso.

«Pare che sia finita» dissi. «Mi scoccia dover salutare tutti» sospirai.

«Dai, possiamo svignarcela in fretta. Hai la macchina?».

«No, la macchina l’ha presa mio marito stasera».

«Allora ti accompagno io».

Sapevo che era un po’ brillo, ma l’istinto mi diceva di stare zitta e di lasciarlo guidare. Ci avviammo verso il parcheggio. Durante il tragitto tacemmo e ascoltammo i nostri passi, camminando uno accanto all’altra. Mi di­ spiaceva andarmene. Non volevo che la serata finisse e volevo che ci toccassimo. Bramavo che mi baciasse e che mi avvolgesse con le sue braccia, e non provavo alcuna vergogna per quello che desideravo. Quando salimmo in macchina, questo sentimento si rafforzò ancora di più, perché in quel momento quello era il nostro posto inti­mo, la nostra casa provvisoria. Dentro ristagnava l’odore della sua lozione e del profumatore alla lavanda. Accese la macchina e il motore cominciò a fare le fusa. Si acce­sero le luci del cruscotto e ci illuminarono le facce come la fiamma silenziosa del camino. Si accese la radio e si sentì una canzone di Vlado Janevski. Accanto a me brillerai come una lucciola al buio… cantava lui, e mi sentivo tutta squagliata e non avrei voluto uscire dalla macchina mai più. Non volevo nemmeno che partissimo. Volevo che questo durasse per sempre. In quel momento il suo telefono trillò di nuovo. Sua moglie.

«Ah no, questa volta no» disse e spense il telefonino.

«La batteria si è scaricata. Capisci?» disse girando il vo­lante senza guardarmi negli occhi. Mi parve ancora più virile di prima.

Toni sembrava pensieroso mentre guidava. Lo guar­davo di sottecchi con la coda dell’occhio. Un paio di volte inspirò come se stesse per dire qualcosa, ma poi rinun­ciò. E alla fine disse che la croce su Vodno brillava molto forte stanotte. «Sì, è bella» commentai non sapendo se ammettere che mi piaceva. C’erano alcune persone nel nostro istituto che odiavano quella croce, e davanti a loro era pericoloso ammettere che ti piaceva. Allora Toni ag­giunse: «Non c’era la croce quando io e te siamo andati là durante la tua festa di fine semestre».

«Mamma mia, quanto eravamo ubriachi quella sera. Tu eri un assistente, io una studentessa. Non era una cosa professionale, ma abbiamo passato una bellissima serata. E poi, eravamo tanto felici che un assistente aves­se accettato di unirsi a noi».

«Ma non c’era una grande differenza di età tra noi. Io avevo ventinove anni, tu ventidue. E inoltre io non ero tuo insegnante».

«Lo so» dissi, anche se non c’era bisogno di dirlo.

«Ma sapevo esattamente chi eri».

Non sapevo che cosa dire. Ebbi una breve tachicardia.

«Vuoi che andiamo a fumare un’altra sigaretta sul bel­ vedere? È una serata così bella» mi chiese.

Annuii con la testa.

«Ti dico francamente, non ho nessuna voglia di tor­nare a casa» lo incoraggiai. «Ma non vorrei che tu avessi problemi con tua moglie».

«Lascia perdere» disse e girò a sinistra verso il Vodno.

Ci fermammo al parcheggio del belvedere. Scesi dal­la macchina e mi avviai cautamente verso il recinto da dove c’era la vista migliore sulla città. Mentre cammina­vo, ero cosciente della mia figura snella, dei miei piedi graziosi dentro le scarpe con i tacchi a spillo, delle mie gambe lunghe e del mio culo alto. Camminavo lenta­mente verso il recinto, ondeggiando con nonchalance i fianchi.

Ero sicura che Toni, che mi camminava lenta­mente dietro, mi scrutava. Lo sentivo come un animale grande e selvaggio che mi braccava, e tutto il mio corpo fu percorso da brividi.

La città era affondata nello smog, che attraverso la luce della luna piena assomigliava a latte annacquato. Le luci tremolanti delle macchine e degli appartamenti fo­ ravano a fatica la nebbia.

«C’è la luna piena» notai, ma Toni non rispose. Per cui continuai a parlare. «Tante vite, tante storie scorro­no attraverso la città, storie che non conosciamo» dissi commossa. Lo feci apposta. Volevo fargli vedere che mi sentivo fragile e che ero intelligente. Ma lui si limitò ad annuire e infilò le mani nelle tasche. Sembrò sollevarsi un po’ sulle punte dei piedi e poi si rimise al suo posto.

«Eravamo proprio qua, alla tua festa di fine semestre. Eh, quanti anni sono passati…».

«Il tempo scorre come un fiume, e noi come pietre stiamo fermi. Il tempo ci sta consumando senza che noi ce ne accorgiamo» continuai, questa volta ripetendo una frase che diceva mia nonna quando era viva e quan­do esagerava un po’ con l’ouzo durante il pranzo. Sicco­me lui non sapeva come allacciarsi al discorso, aggiunsi una cosa a cui sapevo che avrebbe abboccato: «Siamo invecchiati».

«Tu sei uguale a prima» mi disse e si girò verso di me, appoggiando un gomito sul recinto. «Sei sempre stata la più bella e lo sei rimasta».

Non so da dove mi venne il coraggio di guardarlo di­ rettamente negli occhi. Anche lui mi fissava. Con l’indi­ce si picchiettò le labbra, dandomi il segnale di baciarlo. Mi avvicinai e lo baciai. Mentre lo facevo, nella mia testa infuriava una tempesta di pensieri. Per la maggior parte erano pensieri collegati al fatto che stavo tradendo mio marito per la prima volta. Ma la cosa più importante era che non mi importava niente. Mentre le mie labbra ba­ciavano le labbra di Toni, pensavo alla relazione che ave­vo avuto con Marjan prima di sposarmi con Boban. Con Marjan avevo perso la verginità e con lui riuscivo ad ave­re due-­tre orgasmi mentre facevamo l’amore, un atto che durava a lungo. Ma la nostra relazione fu breve, perché lui mi lasciò dopo qualche mese, cosa che mi ferì moltis­simo. Ero innamorata di Boban, ma fare l’amore con lui non mi soddisfaceva fino in fondo – letteralmente. Nelle riviste si diceva che era una questione di tecnica, e non di grandezza, e anche le mie amiche me lo dicevano, ma ancora oggi mi vergogno ad ammettere che nonostante tutto ciò, ho passato gli anni a bramare qualcosa di più grande, come quel coso di Marjan. Mi chiedevo se avrei potuto vivere un giorno quelle cose di cui parlavano le donne nelle serie, sulle riviste, cose che io non riuscivo ad avere pienamente con Boban. La mia vita amorosa con Boban era calda, ma noiosa a tal punto che qualche volta evitavo di coricarmi con lui quando mi invitava a letto e rimanevo a lavare a lungo i piatti. Così a lungo che Boban alla fine si addormentava e non dovevo fare l’a­more con lui e fare finta di godere, perché Boban comun­que era premuroso e buono con me e mi dispiaceva che scoprisse il mio disinteresse, quindi dovevo fingere. Bo­ban insisteva che dovevamo comprare una lavastoviglie, ma io gli dicevo che era fuori discussione, perché non solo divorava l’elettricità, ma non lavava bene le stoviglie – che non era vero.

L’alito di Toni era caldo e pesante, come il suo profumo.

Dopo che le nostre labbra si erano toccate mi aprì presto la bocca con la lingua. Aveva un gusto amaro, come le sigarette che fumava. Si raddrizzò, mi avvolse le braccia intorno alla vita e affondò la lingua nella mia bocca. Era molto più alto di me, dovevo torcere il collo all’indietro.

Rovistava e rovistava con la lingua nella mia bocca come se cercasse qualcosa. Non ero sicura che mi piacesse il suo modo di baciare, ma c’era una passione dentro che non avevo sentito da molto tempo.

Anche io allungai la lingua e il nostro bacio cominciò ad assomigliare a una lotta. I nostri denti si urtavano e tutto attorno alle labbra era imbrattato di saliva. Le sue mani cominciarono a pal­pare la mia schiena e si trovarono presto sui glutei. Con entrambe le mani si mise a massaggiarmeli ritmicamen­te e vigorosamente. Mi leccò il mento e il collo e si mise a lavorare attorno alle orecchie. «Sanja, Sanja» borbottava pizzicandomi il culo. Si strinse a me e sentii qualcosa di duro vicino all’ombelico. Non ero sicura se fosse la fibbia della sua cintura o qualcos’altro. Cominciò a sbottonar­mi la camicetta. Mi prese una mammella per leccarla e succhiarla. «Quanto sei bella» sussurrava tra i baci, cosa che mi piaceva immensamente, perché nessuno mi ave­va parlato così da tanto tempo.

Sentii che mi spingeva sulla sinistra, dove era par­cheggiata la macchina. «Cambiamo posto, qua c’è trop­pa luce» mi disse tirandomi per la mano. Con la mano libera cercai di abbottonarmi la camicetta. «Non farlo» mi disse quando entrammo nella macchina. Di nuovo mi prese la mammella e cominciò a succhiarmela. Poi accese la macchina e partimmo. Quindi, è questo, pensai. Questo è il tradimento. La macchina, il buio, l’alcol. Meno male che mi sono depilata, pensai, altrimenti non mi sarei spogliata.

Toni guidava sulla strada principale. Poi deviò per una strada sterrata nascosta, si fermò e tornò con la marcia indietro. «Non era questo». Volevo chiedergli come mai conoscesse quei posti, ma mi trattenni.

Finalmente si fermò vicino alla strada principale. Era una specie di piazzola con un albero alto davanti e i cespugli attorno. Scese dalla macchina e si sedette sui sedili posteriori. Lo fece così velocemente che mi lasciò perplessa. «Che cosa aspetti?» mi chiese. «Vieni qua. C’è più spazio». Era tutto così meccanico, così di routine che mi sentii delusa e il desiderio di tradire fisicamente mio marito con lui si sgonfiò all’istante. Ma mi sedetti obbe­diente sul sedile posteriore, perché ero arrivata ormai fino a quel punto e non c’era senso nel tornare indietro.

Rilassati, mi ripetevo. Così mi diceva Marjan le pri­me volte che facevamo l’amore. Godi, mi dicevo. Non fai niente di male. Tutti lo fanno, pure la mia relatrice, mi ripetevo mentre Toni mi leccava il collo e il seno. Aprii gli occhi e cominciai a osservare che cosa faceva. Le mie tette nelle sue mani robuste assomigliavano a due taz­ze da caffè rivoltate. Sospirai fortemente. Boban non mi stringeva mai così. Se ci pensavo, era troppo tenero. Trat­tava il mio corpo come se fosse un busto di porcellana. Mi faceva sdraiare sul letto e mi accarezzava a lungo, mi baciava così teneramente che sembrava che le farfalle mi strisciassero sulla pelle. E Toni invece mi tolse i collant in fretta e riuscì a togliermi le mutande e ad alzarmi la gon­na fino all’ombelico. Non sapevo che cosa stesse succe­dendo – mi mordeva, mi pizzicava e mi spingeva le dita dentro con una forza tale che mi faceva male. A un tratto smise di farlo e prese a sbottonarsi i pantaloni. Se li sfilò fino alle ginocchia. «Mettilo un po’ in bocca» mi disse.

Era mezzo floscio. Con una mano cominciò a tirarlo, e con l’altra mi teneva la testa, impedendomi di toglierla dal suo sesso. Dondolava i fianchi a destra e a sinistra e mi riempiva la bocca. Mi disse anche: «Attenta ai denti», che era impossibile grazie alla sua oscillazione continua. Mi venivano i conati di vomito e il naso cominciò a colar­mi ma non mi potevo muovere perché mi teneva la testa incollata. Cercavo di apparire femminile, di non emette­re suoni come se grugnissi, e di non tirare su col naso, ma lui non me lo permetteva con i suoi movimenti furiosi e sempre più disperati. D’un tratto sentii che si induriva un po’ e questo mi diede speranza, così mi misi a parteci­pare con più foga all’atto. In quel momento sentii con l’o­recchio sinistro che il suo intestino si muoveva in un gor­goglio lungo e molto rumoroso. All’inizio sembrò come un tuono lontano, ma poi si allungò in un mugolio acuto. Appena successe, Toni smise di muoversi e si riafflosciò subito. Quando sentì che era diventato molle, cominciò a scalciare e a tirarselo e a spingermi la testa in giù, così che di nuovo mi presero gli stessi attacchi di vomito. Riecco­lo: un guaito rumoroso, lungo, quasi musicale dell’inte­stino di Toni, dopo di che seguì una pausa e d’un tratto una puzza pesante e umida che mi spirò direttamente in faccia. Il conato di vomito aumentò e sentii il cibo che avevamo mangiato ai Tre Fagiani alzarsi lungo la laringe.

Chiusi la bocca e con le gote piene allungai il braccio per aprire la portiera della macchina, attraverso il cazzo di Toni, ma non riuscii a farlo in tempo. Mi misi a sprizzare vomito sul finestrino e sulla mano con l’anello nuziale. Fegatini, prezzemolo, grappa, acqua, aglio: sentivo che tutto mi usciva dal naso e dalla bocca. «Che cosa hai fatto, ehi?» mi disse Toni invece di aiutarmi. «Scansati un po’» gridò e cominciò a spingermi, tentando di divincolarsi sotto al mio corpo, ma si impigliò perché i suoi pantalo­ni erano scesi fin sotto le ginocchia. Riuscì a trascinarsi dall’altra parte dei sedili posteriori per allontanarsi da me il più possibile. Inginocchiata sul sedile, con la testa fuori dalla macchina, non riuscivo a smettere di rigettare. Appena pensavo che fosse finita, mi raddrizzavo e alzavo la testa, sentivo di nuovo la puzza che mi inondava il viso e il gusto dei fegatini da qualche parte sopra lo stomaco e mi riprendevano i conati e cominciavano le convulsioni ed espellevo gli acidi dallo stomaco. Toni non mi diceva niente. Non mi toccava neanche, come se lo disgustas­si. Non pensai che anche lui si sentisse male, finché non cominciò a gemere sommessamente. Lo sentii cambiare posto. Mi girai indietro e lo vidi piegato, con la testa tra le ginocchia. Improvvisamente aprì la portiera della mac­china e cercò di uscire, ma aveva dimenticato i pantaloni sfilati e cadde accanto alla macchina. Si sentì un tonfo sordo sulla terra e una scoreggia rumorosa. Oddio, mi dissi, questo è il colmo. Ma c’era di peggio. Toni si alzò e cercò di correre alzandosi i pantaloni. E allora mi parvero veramente buffe quelle sue gambe magre, come se fosse una piccola cicogna che stava imparando a camminare.

Corse fino all’albero grande e gli si appoggiò contro. Co­minciò a vomitare anche lui. Ogni suo sforzo era sottoli­neato da un rumore della gola, come se cercasse di alzare un fardello troppo pesante, e subito dopo questo rumore seguiva una scoreggia breve e abbondante. Lo ripeté più volte, ma non riusciva a vomitare. Poi si nascose dietro il cespuglio. Si sentivano di nuovo gli stessi rumori, ma anche se lui era alto, e il cespuglio basso, non potevo ve­derlo. Corsi fuori e mi fermai davanti al cespuglio perché mi avvolse una puzza penetrante e sentii la voce stentata di Toni che diceva: «Vattene!». Stavo lì in piedi e sentivo i rumori di qualcosa che gorgogliava, che scolava, di qual­cuno che gemeva. In quel momento con la coda dell’oc­chio notai un lampo. Mi girai e mi abbagliò la luce di una pila. Un uomo si avvicinava nel buio con il fascio della luce diretto ai miei occhi. Dopo avermi esaminato il viso, cominciò a illuminarmi il resto del corpo. Ero sbottona­ta, con una tetta fuori dal reggiseno, la gonna fuori posto e senza collant.

«Buonasera» mi disse il poliziotto avvicinandosi.

«Avete qualche problema?». Non potevo vedere la sua faccia. Pregavo che fosse uno che non conoscevo. Toni si raddrizzò in quel momento dal cespuglio e come un cavaliere umiliato si mise accanto a me.

«Che cosa ci fate qua» disse il poliziotto, ma non sem­brava una domanda, suonava piuttosto come un’accusa.

«Abbiamo avuto un’intossicazione» disse Toni.

«Avete bevuto?» disse il poliziotto, questa volta più come una domanda.

«No, abbiamo mangiato dei fegatini» disse Toni.

«Siamo stati in un ristorante» mi intromisi io.

«Documenti, prego» disse seccamente il poliziotto. Pregavo dentro di me di sentire qualcosa di umano nella sua voce.

«Adesso, subito, sono nell’automobile» disse Toni correndo verso la macchina. Era remissivo e questo mi sembrò schifoso. Mi avviai dietro di lui, sistemandomi la gonna. Il poliziotto seguì Toni, che aprì la portiera davan­ti, dalla parte della guida per prendere la patente dalla macchina. «Vaffanculo, che cosa è questo» esclamò il po­liziotto dietro di lui quando pestò il mio vomito.

«Oddio, mi scuso tanto. Un’intossicazione molto pe­sante» disse Toni. «Le consiglio di non mangiare mai ai Tre Fagiani, domani gli faccio una bella denuncia. Non mi è mai successa una cosa del genere» stava dicendo tutto agitato Toni cercando di cacciare la patente nelle mani del poliziotto, che puntava la pila sulle proprie scarpe.

«Scusi, vuole un fazzoletto?» gli dissi e con una mano gli porsi un pacchetto di salviettine umidificanti che ave­vo tirato fuori dalla borsa.

«Mostratemi i vostri documenti, prego». Il poliziotto continuò con il suo comportamento professionale, an­che dopo aver pestato il mio vomito.

Pensai di mentire dicendogli di non avere con me nes­sun documento. Non doveva vedere il mio cognome. Era buio e la luce della torcia creava delle macchie bianche davanti ai miei occhi, impedendomi di guardarlo bene in faccia. Era giovane, e mio marito non frequentava mol­to i giovani. E il corpo di polizia è grande, speravo. Forse non gli verrà in mente chi sono.

«Anche lei, signora» disse quando vide che non mi muovevo. Stringevo la mia borsa. Alla fine mi decisi a ubbidire. Perché, altrimenti, avrebbe potuto portarmi in questura, dove sarebbe stato ancora più pericoloso.

«Sapete qual è la multa che si paga per quello che sta­te facendo» disse di nuovo il poliziotto, come se ci accu­sasse, guardando la patente di Toni.

«Per cosa?» disse Toni. «Per aver vomitato sul Vodno?».

«Vuoi fare l’alcol test oppure continui a fare l’idiota?» esclamò il poliziotto puntando la luce direttamente negli occhi di Toni. Non c’era molta logica in quello che disse, pensai. Poi la puntò di nuovo verso le carte d’identità che aveva in mano. Guardò la mia e tacque.

«Spanaќoska» disse. «Spanaќoska» ripeté. E mi illu­minò il viso con la pila. Prima di puntarmela agli occhi, vidi la sua bocca storcersi in giù con un piccolo sorriso. La moglie del capo si fa fottere, vomita e caga sul Vodno, lo immaginavo raccontare il giorno seguente ai colleghi. Dovresti vedere anche il tipo che fotte la moglie del capo. Una scimmia merdosa, letteralmente! Ah-ah-ah. Avrebbero riso tutti alle spalle di mio marito.

«Prego» disse e ci restituì le carte d’identità. «Non do­vete più venire qua. E non dovete mangiare ai Tre Fagiani. Anche mio cognato una volta ha preso un’intossicazione alimentare dai kebapi mangiati in quel posto». Si girò e sparì nel buio. Sentimmo un motore che si accendeva da qualche parte più sotto. Non so come non l’avessimo sentito arrivare.

Salimmo in macchina, ognuno al suo posto. «Dam­mi qualche salviettina» disse Toni e cominciò a pulirsi il viso, il collo, le mani. Mi pulivo anche io, ma la puz­za continuò a fluttuare tra di noi. Non era rimasto più niente del suo profumo e dell’odore di lavanda. Mise in moto la macchina e si attivarono il cruscotto e la radio, ma questa volta si sentì anche un sibilo e la spia della riserva carburante cominciò a lampeggiare. «Ehi, non ci lascerà in mezzo al Vodno, non ti preoccupare» disse Toni cercando di sorridere, ma io non ci vedevo niente di spiritoso.

Lo guardavo di nuovo mentre guidava. Ma che cosa ho visto in lui, mi dicevo. Visto di profilo assomigliava anco­ra di più a un Uomo di Neanderthal. Anche i capelli erano buffi – con la frangia rada, tagliata troppo in alto, come se sua madre gli avesse fatto la pettinatura a casa. Vidi che aveva le dita come salsicce, e che erano eccezionalmen­te corte rispetto al resto del corpo. Guardandolo seduto com’era, capii che aveva il busto troppo corto e che con quelle braccia lunghe e quella ciccia accumulata attorno alla vita assomigliava a un ragno. Che cosa ho visto in lui, mi chiedevo. Non è neppure granché come intellettuale, mi dissi. In tutti questi anni che ha lavorato da noi, non è riuscito a farsi pubblicare neanche una ricerca di un certo spessore. Sempre con quella scusa di progetti in­ternazionali dei quali alla fine non ha mai portato alcun risultato. Mi prese uno scatto d’ira verso la mia relatrice e verso Irena, che mi avevano indotto a pensare (specie quest’ultima) che Toni mi piacesse, insinuando che io piacessi a lui. Da una vita non piacevo a nessuno, pensai. Ebbi un moto di commiserazione e i miei occhi si appan­narono per via delle lacrime. Adesso che Boban lo verrà a sapere, neanche lui mi amerà più, mi dicevo, sentendo il bruciore del rimorso dentro. Volevo che Toni sparisse per sempre. Non c’è paragone tra lui e Boban, il mio amato marito, il più amato, amore della mia vita, pensavo.

Arrivammo davanti al mio palazzo. Toni si girò verso di me e guardò il freno a mano. Cominciò a schiacciare il pulsante mentre diceva: «Questo… sai… lo lasciamo così». Che stupidaggine, pensai. Non penserà forse che domani tesserò le sue lodi per le sue doti di grande amante tra i colleghi? pensavo. «E domani chiamo il ristorante. Tutta colpa dei fegatini».

Solo quando varcai l’ingresso illuminato del nostro palazzo capii quanto fossi imbrattata di vomito e puzzo­lente. Entrai in casa. Per fortuna, Boban dormiva.

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Mio marito, Rumena Bužarovska, traduzione di Ljiljana Uzunović, Bottega Errante Edizioni, 2019.

*Rumena Buzarovska è nata nel 1981 a Skopje, in Macedonia, ed è autrice e traduttrice letteraria dall’inglese. Nel 2016 è stata selezionata come una delle Dieci Nuove Voci d’Europa da Literary Europe Live, iniziativa della piattaforma letteraria Literature Across Frontiers. È co-fondatrice e co-organizzatrice dell’evento letterario femminile PeachPreach in Macedonia e conduce un programma radiofonico dallo stesso nome. È professoressa associata di letteratura americana presso l’Università Statale di Skopje.

Immagine: Unsplash

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