Come potrai immaginare, questo progetto ha dei costi, quindi puoi sostenerci economicamente con un bonifico alle coordinate che trovi qui di seguito. Ti garantiamo che i tuoi soldi verranno spesi solo per la crescita del progetto, per i costi tecnici e per la realizzazione di approfondimenti sempre più interessanti:

  • IBAN IT73P0548412500CC0561000940
  • Banca Civibank
  • Intestato a Meridiano 13

Puoi anche destinare il tuo 5x1000 a Meridiano 13 APS, inserendo il nostro codice fiscale nella tua dichiarazione dei redditi: 91102180931.

Dona con PayPal

Krajina, 1995–2025: la tempesta che non passa

di Enrico Rossi*

Krajina. Proprio così, senza la “U”. Con o senza, l’accezione è sempre quella di “zona di frontiera”. Qui però siamo nei Balcani, e la lingua è il serbo-croato. Che le terre di confine siano, per definizione, suscettibili di numerose guerre e poi di altrettante paci non è un mistero. Le vicende della Krajina croata sono però qualcosa non solo di poco noto in Occidente, ma anche di visceralmente doloroso, quasi angosciante. Questa, infatti, è la storia di una pace ancora incompiuta.

Nacque come frontiera militare nella seconda metà del Cinquecento, per preservare dalle incursioni e invasioni ottomane le terre meridionali dei domini asburgici. Qui le comunità serbo-ortodosse giunsero soprattutto tra Sei e Settecento, per sfuggire alle violenze ottomane. La loro integrazione si basava sui privilegi concessi dagli Asburgo, privilegi che erano tenute a ricambiare col servizio militare in caso di azioni belliche. La Krajina, per secoli, è stata quindi un territorio predisposto alla guerra, a una guerra di difesa.

Mappa della Krajina
Mappa ottocentesca che mostra il territorio della frontiera militare asburgica, noto anche come Krajina (Wikicommons)

Il baratro degli anni Novanta

Due secoli dopo, una “tempesta” che non giunse dalle profondità anatoliche, ma che si addensò direttamente nei cieli della stessa Krajina, portò un nuovo tipo di guerra. La disgregazione della Jugoslavia socialista, sotto le spinte centrifughe del nazionalismo, interessò quasi subito questa regione.

La vittoria dell’Unione Democratica Croata (Hrvatska demokratska zajednica, HDZ), partito di Franjo Tuđman nel 1990, e una nuova Costituzione croata, che non considerava più i serbi come uno dei popoli costituenti. L’atteggiamento dei leader serbi locali, sostenuti da Slobodan Milošević, che da Belgrado li appoggiava apertamente soffiando sul fuoco della paura. Una paura che si alimentava col ricordo delle indicibili violenze compiute dagli Ustaša (milizie fasciste) di Ante Pavelić mezzo secolo prima. Poi la cosiddetta “Rivolta dei Tronchi”. Tutti nuvoloni che preannunciavano la tempesta. Ma fu nel 1991, con l’indipendenza croata e con l’auto-proclamazione della Repubblica Serba di Krajina, che il cielo si scurì irrimediabilmente.

Con la caduta nel vuoto degli ultimi negoziati a inizio 1995, si gettarono le basi per il culmine di quella che tanti croati chiamano ancora oggi “Guerra Patriottica”. Oluja, l’Operazione Tempesta, investì la Krajina a partire dalle 5 del mattino del 4 agosto 1995. Il rapido successo governativo comportò un prezzo altissimo per il territorio interessato e per la sua storica presenza serba. Per numero di sfollati, circa 200mila, si materializzò una delle più vaste pulizie etniche dalla Seconda Guerra Mondiale. La percentuale dei serbi croati crollò dal 15 al 4,5%. In appena 4 giorni la “tempesta” si era sfogata. Ma la guerra in Croazia era davvero finita?

Le piccole “guerre” che si trascinano

Se normalmente dopo il maltempo torna il sereno, in questo caso si è assistito tutt’al più ad uno schiarimento delle nuvole. Come mai? Per rispondere a ciò, bisogna considerare il permanere di diversi fattori che non favoriscono il risanamento delle ferite, né sociali e umane, né materiali e territoriali. In primis l’atteggiamento degli alti esponenti politici: autogiustificazione e glorificazione nel caso croato, autocommiserazione e retorico vittimismo nel caso serbo. In entrambi si cerca di rinnovare nelle masse la convinzione che la propria parte fosse nel giusto e che tutte le responsabilità vadano fatte ricadere sull’altro.

Knin, celebrazioni per l'anniversario dell'Oluja
Celebrazioni in occasione dell’anniversario di Oluja del 2011 alla Fortezza di Knin (Wikipedia/Roberta F.)

Ma, propaganda a parte, nei fatti come si mantiene una semi-pace? Milorad Pupovac, uno dei rappresentanti politici dei serbi di Croazia, nel 2019 dice che l’ostacolo principale:

è rimasto quello dell’assenza di procedimenti legali per i crimini di guerra e l’esodo forzato di quei giorni, la distruzione dei villaggi e il saccheggio delle proprietà, oltre che l’impedimento al ritorno.

I riferimenti che si ricavano sono numerosi. Si parla di una giustizia che ha spesso fallito nei suoi obiettivi, a partire dalla mancata condanna definitiva dei comandanti militari di Oluja, i generali Ante Gotovina e Mladen Markač. Dopo aver ricevuto una pena rispettivamente di 24 e 18 anni di carcere dal Tribunale dell’Aja nel 2011, sono stati assolti in appello l’anno successivo con una sentenza a dir poco controversa. Tagliente la dichiarazione di Carla Del Ponte, ex-procuratore capo del medesimo tribunale: “Questa sentenza dà un duro colpo alla credibilità della giustizia”.

Esiste poi una “guerra dei numeri”, come la definisce la giornalista Nicole Corritore. Ancor oggi si litiga sia sul numero dei morti che su quello dei profughi. Il centro “Veritas” di Belgrado parla di 1070 civili serbi periti, contando anche lo stillicidio di uccisioni che caratterizzò il resto di agosto e settembre. Altre fonti serbe dichiarano 1.205 morti, mentre la sezione croata del Comitato Helsinki ne registra 677.

Gli effetti materiali di Oluja, già da soli, hanno creato i presupposti per un duraturo stato di difficile ritorno dei serbi di Croazia. Un numero considerevole di abitazioni è stato saccheggiato e dato alle fiamme: oltre 20mila gli edifici distrutti secondo il Comitato Helsinki.

Una sorta di museo dell’orrore a cielo aperto, un perenne monito della desolazione e dell’abbandono che solo le guerre producono…

Marco Siragusa, descrivendo il tragitto tra Drniš e Knin, nell’entroterra dalmata.

Ma gli scheletri degli edifici non sono le uniche cicatrici che il territorio martoriato della Krajina restituisce. Il fotografo Igor Čoko dice infatti che “la guerra cova sui muri”. Oluja 95, Ubij Srbina (“Uccidi il Serbo”) sono alcune delle scritte sinistre diventate elementi caratteristici del paesaggio antropico.

Krajina
Ciò che resta all’interno della scuola di Ervenik, un centro dell’entroterra dalmata, nel 2013 (flickr)

“Croazia: le mine uccidono ancora” è il titolo dell’articolo che a febbraio 2023 annunciava la morte, nel mese precedente, di un cacciatore. È la “guerra nel suolo”. Prima di lui, tra il 1991 e il 2021, altri 2017 civili sono rimasti coinvolti nell’esplosione di mine, di cui 524 hanno perso la vita. Anche tra gli sminatori il bilancio è tragico: 152 feriti e 65 morti in operazione di bonifica. Nonostante l’opera di sminamento sia molto più a buon punto rispetto alla confinante Bosnia, a fine 2020 erano quasi 280 i chilometri quadrati di territorio ancora contaminato. Nel 1996 erano 13mila secondo le stime dell’Onu.

La forma di guerra che fa più fatica a scomparire è però quella alimentata dall’ignoranza. Si parla di episodi di intolleranza, come le ripetute aggressioni fisiche a danno di serbi, ma anche di un costante clima di ostilità nei confronti di coloro che osano sfidare la narrazione nazionalistica. Anche se siamo lontani dai tempi in cui possibili testimoni di processi saltavano in aria e giornalisti scomodi finivano nella lista nera dei “nemici dello Stato”, non va sottovalutata una certa dialettica del terrore. Ne sa qualcosa lo scrittore italo-croato Giacomo Scotti, minacciato di morte a più riprese per aver denunciato le atrocità legate a Oluja.

Società civile e nuove generazioni: la pace oltre la politica

Fino ad ora abbiamo citato la parola “guerra” ben undici volte, mentre “pace” soltanto due. Significa che quest’ultima ha definitivamente perso il confronto con la prima? Assolutamente no. E se la politica è spesso restia a dare il buon esempio, un notevole ruolo viene svolto dalle associazioni non governative.

Cartello che segnala una zona minata in Croazia, in questo caso nell’area di Primišlje, regione di Kordun (Wikipedia/Minestrone)

È il caso del centro “Documenta” di Zagabria, molto attivo nel prestare assistenza legale ai parenti delle vittime, tanto da aver conseguito alcuni significativi successi in tribunale. Ma anche sul fronte della “guerra dei numeri” ha ottenuto risultati: nel dicembre 2018 è stata presentata una mappa delle vittime delle guerre jugoslave, frutto di un intenso lavoro di collaborazione con associazioni serbe e bosniache.

Purtroppo, la vittoria in alcune di queste “guerre” è strettamente legata alle disponibilità economiche e alle scelte politiche, come per la bonifica dalle mine o per il rientro dei profughi. Tuttavia, ciò che può veramente favorire una solida pace nel lungo periodo è una presa di coscienza sempre più ampia nella società civile. In particolare le nuove generazioni dimostrano di essere più permeabili al confronto costruttivo.

Nikola Kožul è un ragazzo serbo che aveva pochi mesi quando fuggì dalla Krajina con la famiglia, ma che nel 2010 è tornato in Croazia. Riferendosi ai nazionalismi croato e serbo, afferma che

Tra queste due versioni estreme, ci siamo noi, la minoranza, la chiave per la pace. La guerra è sempre una guerra contro le minoranze.

Un’altra testimonianza arriva da Vesna Teršelič, storica direttrice del “Documenta”:

…quando lavoriamo nelle scuole, vedo che i giovani croati, anche quando conoscono solo la versione ufficiale dei fatti (…), sono pronti ad ascoltare nuove informazioni e a fare domande.

Senza la divulgazione della verità, il rinnovamento del ricordo delle vittime, il perseguimento della giustizia, c’è il rischio che il cielo sopra la Krajina rimanga cupo. A differenza della guerra, che fissa due visioni, due narrazioni contrapposte, la pace ha bisogno di un terreno comune per consolidarsi, di un riconoscimento reciproco di responsabilità. Da qui l’importanza anche delle collaborazioni oltre i confini.

Ne è un esempio la manifestazione congiunta di un gruppo di giovani serbi e croati nel 2019, quando hanno ricordato assieme sia le vittime di Oluja sia i morti croati dell’eccidio di Ovčara. Così facendo, hanno gettato “una timida luce in un buio panorama di negazione, rimozione o addirittura revisione della storia”, scrive Nicole Corritore.

Trent’anni anni da Oluja: la fine della “tempesta”?

Se, come diceva Einstein, “La guerra non si può umanizzare, si può solo abolire”, da un lato possiamo constatare come sia la natura stessa delle relazioni internazionali a rendere impossibile la sua totale abolizione. Dall’altro lato, però, possiamo sforzarci di evitare un rinvigorimento della guerra etnica. E i veri garanti sono i cittadini capaci di contemplare le cicatrici della storia senza riaprirle. Cittadini coscienti che le pulizie etniche non puliscono i problemi, ma anzi mantengono una società e un territorio avvelenati. Saranno loro a dirci se, trent’anni anni dopo, la “tempesta” sulla Krajina potrà finalmente diradarsi.


*Classe 1995 e laureato a Udine in Scienze per l’Ambiente e la Natura, ma con una viscerale passione per la storia e la scrittura. Attualmente gestisce il Forum Julii Project, un blog divulgativo dedicato alla sua regione, e collabora con il mensile locale La Patrie dal Friûl. Nel 2025 è stato tra i vincitori della IV edizione del Premio giornalistico Leali Young.

Condividi l'articolo!
Redazione
Redazione