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Il nodo gordiano dell’adesione macedone

A più di quattro anni di distanza dalla sottoscrizione dell’accordo di Prespa, sono tornati a incontrarsi l’allora ministro degli esteri greco Nikos Kotzias e il suo corrispettivo macedone, Nikola Dimitrov. La ventesima edizione della Conferenza Internazionale Giovanile di Kruševo è stata l’occasione per parlare ancora una volta del futuro europeo dei Balcani occidentali, dell’adesione macedone e del bilancio complessivo del trattato di Prespa.

Attorniato per tre lati da un bosco di conifere e arroccato sulle pendici meridionali di Kruševo, in Macedonia del Nord, svetta un imponente edificio dall’inconfondibile forma piramidale: si tratta del Montana Palace Hotel di jugoslava memoria, che tra  il 29 settembre e il 3 ottobre scorsi ha ospitato la ventesima edizione della Conferenza Internazionale della Gioventù di Kruševo.

Per cinque giorni i suoi corridoi sono risuonati dell’eco di quaranta giovani provenienti da tutta la penisola balcanica che, ispirati e stimolati dagli illustri ospiti, si sono scambiati punti di vista e opinioni sul futuro europeo della regione.

In un simile contesto, persino il celebre murale firmato da Borko Lazeski, che abbellisce con elegante solennità la parete orientale della vasta sala da pranzo, sembra mutare di significato: Pitu Guli e i suoi uomini non paiono più scagliare massi contro degli ottomani, nel disperato tentativo di fermarne l’avanzata e così facendo salvare la prima repubblica indipendente dei Balcani. Piuttosto, la fatica erculea dell’eroe nazionale nel sollevare il macigno sopra la testa somiglia alla rappresentazione plastica del cosiddetto enlargement fatigue (la ‘stanchezza da allargamento’) macedone.

Il murale raffigurante Pitu Guli nel Montana Palace Hotel di Kruševo (foto di Nicola Zordan)

La questione macedone

Il travagliato percorso europeo della Macedonia del Nord inizia il 22 marzo del 2004 con la domanda di adesione all’Ue. La Commissione europea di lì a poco esprime il suo nulla osta, aprendo la strada per la concessione dello status di paese candidato nel dicembre del 2005. Tutto sembra procedere rapidamente e per il verso giusto, ma il primo ostacolo non tarda ad arrivare.

L’incaglio – come sempre – è di tipo politico, e in questo caso prende le sembianze di una nazione: la Grecia. Il paese ellenico non aveva mai digerito appieno l’esistenza di un territorio adiacente al proprio che includesse l’aggettivo “macedone” nel proprio nome. Solo a seguito della dissoluzione della Jugoslavia, però, Atene intravede l’occasione per far valere le proprie ragioni sul nuovo stato balcanico.

La procedura di apertura dei negoziati richiede infatti il parere favorevole di tutti gli stati membri. Siamo nel 2009 e, nonostante le pressioni della Commissione europea, la Grecia decide di sbarrare la strada alla Macedonia (non ancora del Nord). Atene contesta al vicino il fatto di chiamarsi esattamente come la regione settentrionale greca, reclamando per giunta parte del bagaglio culturale ellenico come identificativo della propria nazione.

Dal canto suo, la Macedonia dell’allora primo ministro Gruevski fa poco o nulla per smorzare gli attriti. Anzi, nel 2006 vara il tanto faraonico quanto controverso (e dispendioso) progetto “Skopje 2014”, con il quale riempie la capitale di statue e richiami al mondo ellenico. I rapporti con il vicino s’incrinano ulteriormente.

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La svolta

La fine dell’impasse non a caso coincide con due pressoché contemporanee svolte politiche: la vittoria di Syriza in Grecia e dell’Unione Socialdemocratica in Macedonia (SDSM). In termini di relazioni bilaterali, il cambiamento assume il volto dei ministri degli Esteri di nuova nomina, il greco Nikos Kotzias e il macedone Nikola Dimitrov.

Ed eccoli qui, davanti al giovane pubblico di Kruševo, questi due politici di lungo corso. Non fosse per le cravatte di diverso colore, l’atmosfera decisamente più rilassata e qualche capello grigio in più, si potrebbe benissimo pensare di essere tornati a quel fatidico giugno di quattro anni fa, quando l’accordo di Prespa fu ufficialmente firmato sulle rive dell’omonimo lago.

“I problemi non risolti tendono ad ingrandirsi”, inizia Dimitrov, “e questo è quanto accadde ai due stati balcanici. La questione del nome era effettivamente sul tavolo da diversi anni, ma nessuno voleva davvero affrontarla: la sua risoluzione avrebbe richiesto tempo, energie, e una perdita consistente del capitale politico di partenza”. Cita Weber: “In queste situazioni si distingue il politico per passione dal politico per professione. La differenza tra i due consiste nel fatto che il primo non teme di perdere consenso politico se in gioco c’è il bene del proprio paese”.

“Quando c’è una disputa tra due stati”, gli fa eco Kotzias alla sua sinistra, “il giusto approccio non è dialogare meno, ma dialogare di più”. Così i due diplomatici ripercorrono assieme le tappe fondamentali di un dialogo spinoso, a tratti burrascoso, ma necessario. “Ci siamo urlati addosso più volte”, ammette Dimitrov ridendo, “ma il dialogo non si è mai interrotto”. Al punto che, a un dato momento, “iniziai a fidarmi più di Nikos che dei miei colleghi”.

La svolta, richiama Kotzias, avvenne quando si confidarono di ricevere continue minacce di morte, frutto avvelenato della continua campagna d’odio sollevata da alcune fazioni politiche. Entrambi i ministri erano infatti considerati alla stregua di traditori da parte dei nazionalisti dei rispettivi paesi. Fu in quel momento che realizzarono di essere l’uno il migliore alleato dell’altro, poiché sarebbero stati in buona compagnia in caso di successo, ma completamente isolati in caso di fallimento.

Per la sorpresa di molti e la gioia di alcuni, l’accordo fu infine raggiunto. La Repubblica di Macedonia divenne Repubblica della Macedonia del Nord, la lingua macedone venne formalmente riconosciuta alle Nazioni Unite, il Sole di Verghina definitivamente rimosso dai simboli statali. La Grecia ritirò il veto.

Un’adesione a ostacoli

Ma quanti si aspettavano un negoziato finalmente in discesa, rimasero delusi. Mentre la Macedonia del Nord diviene effettivamente membro della Nato a inizio 2019, la promessa di una rapida adesione all’Ue si arena ancora una volta a causa dei veti incrociati.

Questa volta il niet, o per meglio dire, ‘le non’, proviene da niente meno che Emmanuel Macron. Il presidente francese giustifica la sua presa di posizione sostenendo che la Macedonia del Nord non è ancora pronta, e che l’intero processo di adesione all’Ue debba essere riformato prima di intavolare ulteriori negoziati. Il che non sarebbe nemmeno così errato, se alla fine i cambiamenti annunciati fossero stati sostanziali. Ma salvo qualche modifica marginale riguardo alle priorità dei vari capitoli negoziali e alla reversibilità dell’intero processo in caso di inadempimento, il meccanismo è rimasto pressoché invariato.

Alcuni osservatori hanno ritenuto che le argomentazioni del capo di stato francese fossero del tutto pretestuose. La vera intenzione, si mormora, sarebbe stata quella di imporsi come punto di riferimento europeo in vista del vuoto post-Merkel e del ritiro del Regno Unito dall’Ue. O al massimo, di strizzare l’occhio a quella parte di elettorato preoccupata dall’immigrazione in Francia di cittadini est-europei. Si sa, a pensar male si fa peccato…

Pretesto o meno, la Macedonia del Nord rimane ancora una volta bloccata nel limbo. Nel frattempo, il processo di adesione viene riformato e il veto francese viene meno. Sembra finalmente la volta buona, ma ecco che a metà novembre 2020 la Bulgaria decide che no, non è ancora giunto il momento di Skopje. Con buona pace del trattato di amicizia siglato appena tre anni prima. Consapevole di avere in mano le sorti europee del paese limitrofo, e con l’intenzione di trarre il maggior beneficio possibile da questa posizione di forza, Sofia fa recapitare ai macedoni una lista di requisiti da soddisfare prima di poter accedere al più esclusivo tra i club europei.

Tra la varie richieste, si annoverano il riconoscimento dei bulgari quali popolazione costituente della Macedonia del Nord; il declassamento della lingua macedone a dialetto bulgaro; la revisione dei testi scolastici per appianare le divergenze su alcuni avvenimenti e personaggi storici contesi. Un capolavoro di revisionismo che, sostengono alcuni, significherebbe mettere in discussione l’identità macedone stessa.

La proposta francese

Senza più ricoprire alcun incarico di governo, i due illustri ospiti del Montana Palace Hotel possono permettersi di essere più espliciti. Per Dimitrov, la Macedonia del Nord ha fatto la sua parte, ha varato riforme e ha persino cambiato la costituzione per poter entrare nell’Ue. Ma l’Ue, dal canto suo, ha fallito nel mantenere le sue promesse, e questo ne mina alle fondamenta la credibilità, sulla quale l’intero meccanismo delle condizionalità – riforme in cambio di concessioni – si basa.

Kotzias sottolinea come la legge internazionale preveda che gli stati si riconoscano vicendevolmente, ma non faccia menzione alcuna riguardo al riconoscimento della lingua parlata in un paese terzo. Ciò che pretende la Bulgaria non solo non è previsto a livello internazionale, ma è anche contrario agli stessi principi europei, che forniscono ampie tutele alle minoranze linguistiche.

Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione europea, cerca di salvare le apparenze, tornando a ribadire come le diatribe bilaterali non facciano parte dei negoziati, e come la lingua macedone non sia a rischio. Ma sono i bulgari stessi a smentirla, richiedendo a Bruxelles di non fare alcun riferimento al macedone in quanto lingua nel corso delle trattative.

A sbrogliare la matassa ci ha provato ancora una volta il governo d’oltralpe, che a giugno di quest’anno ha proposto un compromesso passato agli annali come ‘proposta francese’. Approvato dal parlamento macedone a luglio, il compromesso impegna Skopje al riconoscimento della minoranza bulgara quale popolazione costituente al pari delle altre e a revisionare alcune parti controverse della storia recente del paese.

Il giudizio di Dimitrov a riguardo è impietoso. E non ne fa segreto: “Un buon accordo è un accordo bilanciato. Se è sbilanciato da una parte o dall’altra, nel lungo termine comporta più danni che benefici”. Ovviamente, la proposta francese è nettamente squilibrata in favore delle istanze bulgare, e questo è determinato dal fatto che “Il nostro governo [in cerca di consensi] è disperatamente alla ricerca di un accordo. E quando si è disperati”, chiosa, “non si può giungere ad un accordo bilanciato”.

Tra gli Onorevoli serpeggia un certo rammarico per la piega presa dagli eventi in seguito al raggiungimento del trattato di Prespa, per il suo potenziale mai del tutto sfruttato. Ma se si chiede loro se si sono mai pentiti dell’accordo siglato, negano convintamente. Per l’ex ministro greco si è trattato di una pietra miliare che ha risolto una diatriba decennale, disinnescando un attrito pericoloso tra i due stati confinanti. Il valore dell’accordo va però ben al di là di Grecia e Macedonia del Nord, proponendo un modello di dialogo e risoluzione dei conflitti valido per l’intera regione.

La Bulgaria di oggi come la Grecia di ieri

È sempre Kotzias che, lanciando un monito ai bulgari, delizia la platea con un retroscena diplomatico significativo. Fino al 1999, la Grecia aveva bloccato l’accesso della Turchia all’Ue. Ufficialmente, l’opposizione ellenica rappresentava il più grande ostacolo alla concessione dello status di paese candidato ad Ankara. Ma quando, sull’onda della celeberrima “earthquake diplomacy” – ossia il miglioramento delle relazioni tra i due paesi a seguito dei terremoti che hanno colpito entrambi nell’estate del 1999 – Atene decide di fare cadere il veto sulla Turchia, la delegazione greca viene letteralmente presa d’assalto dalle cancellerie europee: né le sue istituzioni né i singoli stati membri erano pronti ad aprire i negoziati con il paese anatolico, e l’opposizione di uno stato membro costituiva l’espediente perfetto per impedirlo e salvare a un tempo le apparenze.

Tra le righe, l’ex diplomatico suggerisce che, nonostante la Bulgaria sembri essere l’unico ostacolo tra la Macedonia del Nord e l’Ue, bisognerebbe interrogarsi anche sulla volontà complessiva di un ulteriore allargamento da parte di Bruxelles. E invita Sofia a non essere la foglia di fico dell’Ue.

Un futuro incerto per l’adesione macedone (e non solo)

A quasi vent’anni dalla domanda di adesione e al terzo veto nel giro di poco più di due lustri, il processo di allargamento dell’Ue alla Macedonia del Nord – e ai Balcani occidentali nel complesso – sembra più incerto che mai. Il parlamento di Skopje ha accettato la proposta francese e i negoziati con l’Ue sono ufficialmente iniziati, ma Sofia si è riservata il diritto di bloccare nuovamente il dialogo qualora le sue richieste non venissero esaudite. Proprio l’intenzione di Kiril Petkov, ex primo ministro bulgaro, di sollevare il veto contro la Macedonia del Nord, pare che sia stata tra le principali concause della crisi di governo di giugno, che ha traghettato il paese verso elezioni anticipate.

Come se non bastasse, la maggioranza di governo non ha i numeri per modificare la Costituzione – passo indispensabile per includere la minoranza bulgara tra i popoli costituenti. I cittadini macedoni sembrano scontenti tanto dell’accordo raggiunto, quanto dell’ulteriore stallo nelle negoziazioni, mentre le opposizioni invocano una nuova consultazione referendaria.

Nel frattempo l’Albania, legata a doppio filo alle vicende dello sfortunato vicino, attende l’epilogo di questo ulteriore capitolo. Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Montenegro e Serbia a loro volta seguono con un misto di speranza e rassegnazione le vicissitudini dei paesi capofila per il prossimo, eventuale, allargamento. Perché hanno compreso che il raggiungimento della tanto agognata membership trascende i propri sforzi. Va al di là del mero raggiungimento degli obiettivi decisi dall’Ue, le cui promesse non sempre vengono mantenute.

Fintanto che Bruxelles non riformerà seriamente il processo di adesione, l’unanimità continuerà a costituire un inaccettabile strumento ricattatorio in mano agli stati membri per la risoluzione di diatribe bilaterali che poco o nulla hanno a che vedere con l’acquis comunitario, e il potere di veto resterà una spada di Damocle sui paesi candidati per tutta la durata dei negoziati.

Serve un rinnovato impegno dell’Ue in Europa sudorientale, serve riformare seriamente il meccanismo di adesione, e serve farlo adesso: Pitu Guli non potrà aspettare in eterno, portando sulle spalle il peso gravoso del suo macigno.

Foto di copertina: Giorgia Spadoni

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Nicola Zordan
Nicola Zordan

Mosso da un sincero interesse per la storia e la cultura della penisola balcanica, si è laureato in Studi Internazionali all’Università di Trento, per poi specializzarsi in Studi sull’Europa dell’Est all’Università di Bologna. Ha vissuto in Romania, Croazia e Bosnia ed Erzegovina, studiando e impegnandosi in attività di volontariato. Tra il 2021 e il 2022 ha scritto per Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa. Attualmente risiede in Macedonia del Nord, dove lavora presso l’ufficio di ALDA Skopje.