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Le diverse traduzioni di “Looking at Women, Looking at War” di Victoria Amelina alla fiera del libro di Kyiv, 2025 (Meridiano 13/Claudia Bettiol)
di Michele Guerra*
Difficilmente avremmo letto in edizione italiana questa autobiografia incompleta ed eterogenea di Victoria Amelina, se l’autrice non fosse stata barbaramente uccisa in seguito a un bombardamento russo, il 27 giugno 2023, nella città di Kramators’k, dove stava svolgendo indagini sui crimini di guerra per conto della ONG Truth Hounds. Senza quella strage non avremmo mai sentito parlare di lei o delle sue opere, completamente assenti in traduzione fino a oggi.
Talvolta è necessaria una tragedia perché si conosca una letteratura, scriveva Predrag Matvejević a proposito dei paesi della ex Jugoslavia.
Perciò, se Victoria Amelina non avesse voluto guardare la guerra, probabilmente sarebbe ancora viva. Ma se fosse ancora viva, e magari al sicuro all’estero, noi avremmo continuato a ignorarla.
Il titolo originale dell’opera, Looking at Women, Looking at War (l’originale è stato redatto, infatti, in lingua inglese; in italiano, la traduzione è a cura della docente e traduttrice Yaryna Grusha), fu scelto da Victoria stessa per il manoscritto che custodiva nel suo computer e che integrava in itinere con ogni genere di appunti: un file precauzionalmente inviato a un’amica ogni qualvolta la scrittrice si apprestava a partire per missioni reputate rischiose.
Contrariamente a quanto potrebbe sembrare, però, il titolo non è un furbo ammiccamento al mondo femminile, scelto per attecchire meglio in Occidente o per rivendicare un’ipotetica supremazia di genere all’interno di una lotta di difesa e di liberazione.
Nelle parole di Victoria Amelina, infatti, non si trova mai alcun riferimento simbolico alla donna ancestralmente legata alla non-violenza. E in nessun passaggio l’autrice accenna alla natura patriarcale/maschilista delle moderne guerre di aggressione. La sua narrazione è interamente calata nella dimensione storica dell’Ucraina: è una scrittura di decolonizzazione.
Evento in memoria di Victoria Amelina alla fiera del libro di Kyiv, 2025 (Meridiano 13/Claudia Bettiol)
Ho appena comprato la mia prima pistola in un negozio di armi del centro di L’viv. Ho sentito dire che tutti sono capaci di uccidere, e quelli che dicono di no semplicemente non hanno ancora incontrato la persona giusta. Uno straniero armato che entra nel mio paese potrebbe essere per me la ‘persona giusta’.
Il 17 febbraio 2022 è l’ennesima giornata in cui l’aggressione russa su vasta scala viene annunciata come imminente, ed è l’ennesima giornata in cui non accade nulla. Victoria compra una pistola mentre sta per partire per l’Egitto con il figlioletto di dieci anni.
Mentre si trova in aeroporto, sul cellulare cominciano a comparirle una serie di foto: le milizie filorusse hanno bombardato un asilo sulla linea del fronte di Luhans’k.
Victoria riconosce il luogo, ci era stata anni prima per un evento culturale, ma soprattutto riconosce gli elementi ambientali:
il disegno sulla parete è la scena di un cartone animato sovietico. Sono proprio i personaggi preferiti della mia infanzia […]. Questo ammasso di mattoni mi separa dalla bambina russificata che sono stata in passato.
È l’inizio di un viaggio parallelo a quello verso l’Egitto. Un viaggio nelle radici dell’assimilazione russa e nella successiva autodeterminazione culturale ucraina, affrontato con la lucida consapevolezza di un legame che rimane comunque subliminale e maledetto.
Ai confini sono già radunati i futuri criminali di guerra, persone che da piccola avrei potuto incontrare in uno dei miei viaggi in Russia, e con i quali condivido la lingua e la cultura che faranno sempre parte di me [la famiglia di Victoria Amelina era di origine russa in linea paterna e ucraina in linea materna, NdA], come la magia di Voldemort farà sempre parte di Harry Potter.
Il 24 febbraio 2022, Victoria Amelina si sente dire dall’addetto alle partenze dell’aeroporto egiziano del Cairo che lei e il figlio non possono tornare a casa: la guerra è scoppiata e il trauma collettivo è immediato.
I passeggeri ucraini vengono separati dagli altri, le città ucraine scompaiono progressivamente dai tabelloni delle destinazioni, l’unico tempo esistente diventa quello dell’attesa e del limbo.
Non abbiamo più l’aria da turisti, siamo qualcosa di diverso, ormai: rifugiati, soldati o una via di mezzo. Non sappiamo ancora chi siamo.
Victoria dovrebbe trovare un argomento più efficace dell’emergenza bellica internazionale per persuadere l’addetto alle partenze e poter salire su un velivolo diretto in Europa. Invece riesce soltanto a sfogare una profonda, ingenua coscienza internazionalista.
“Anche noi abbiamo fatto la rivoluzione come l’avete fatta voi nel 2011, anche noi siamo scesi in piazza contro l’ingiustizia. Ce l’abbiamo fatta e la Russia ci ha puniti per questo” gli dico di scatto. Potevo dirgli che ho scritto un libro che parla di tre rivoluzioni, tra cui quella in Egitto [La sindrome di novembre o Homo compatiens (2014, inedito in Italia) è il primo romanzo di Amelina: parla della Rivoluzione dei Gelsomini in Tunisia, della Rivoluzione egiziana e della Rivoluzione della Dignità in Ucraina; NdR]. Il ragazzo mi interrompe: “Ssssst. Non possiamo parlare apertamente della rivoluzione”.
Le lunghissime, frenetiche giornate vissute nel portare in salvo la sua famiglia verso il confine polacco coincidono per l’autrice con la rapida selezione dei libri da portare in salvo dalla biblioteca della casa paterna, a L’viv.
La scrittrice ne sceglie solo tre, per motivi di urgenza e di ingombro: un’antologia sul Rinascimento fucilato, una raccolta di poesie di Hryc’ko Čubaj e un libro della poetessa ebrea di L’viv Debora Vogel.
Prendo questi tre libri per uno stupido e irrazionale tentativo di salvare loro, gli autori che sono già stati giustiziati, il genio perseguitato e la donna uccisa assieme al suo bambino. Mettere al sicuro i libri, oggi, mi regala l’illusione di essere riuscita a salvare anche i loro autori.
Quei testi rappresenteranno a posteriori la fortissima base simbolica di rivendicazione della sua permanenza in patria e anche la ragione della redazione di questo libro: Victoria Amelina si scopre esponente di una generazione che adesso, sotto le bombe, deve farsi erede di quelle represse nel passato dai nazisti o dal regime sovietico, in una sorta di continuità della dissidenza.
Rimasta a L’viv, l’autrice inizierà operando come volontaria, aprendo le porte di casa a numerose famiglie di profughi (tanto da ribattezzare il proprio appartamento “L’Arca di Noè”). Poi presterà servizio di assistenza alla stazione ferroviaria e infine diventerà referente di un intero magazzino di aiuti umanitari. Eppure ogni attività solidale le sembra inutile.
Parte il suono delle sirene, ma sembra che non accada nulla. O meglio, accade, ma non qui […]. Mi sento in colpa per non essere un bersaglio. È un sentimento privo di qualsiasi logica, ma non posso farci niente.
Durante uno dei frenetici attraversamento quotidiani della città, l’autrice si imbatte nella targa che ricorda Raphael Lemkin, l’avvocato ebreo di L’viv che teorizzò il concetto giuridico di “genocidio” e lo fece valere al processo di Norimberga.
Victoria rammenta immediatamente che a L’viv aveva studiato anche un altro insigne giurista: Hersch Lauterpacht, che aveva invece coniato il concetto di “crimine contro l’umanità”. A questo punto la scelta sembra davvero improcrastinabile.
Le donne
Il punto di svolta giunge attraverso l’incontro di Victoria con Oleksandra Matvijčuk, futura Premio Nobel per la Pace 2022 e fondatrice del Center for Civil Liberties.
Oleksandra era stata una giovane poetessa con un futuro promettente in campo umanistico, ma dopo aver conosciuto personalmente alcuni esponenti della generazione ucraina degli anni Sessanta aveva deciso di cambiare vita e studiare Legge. Perché aveva capito che era molto più importante difendere i diritti degli artisti piuttosto che diventare una di loro.
Le “donne” di Victoria Amelina alla fiera del libro di Kyiv, 2025 (Meridiano 13/Claudia Bettiol)
Le figure femminili del libro, che Victoria Amelina conobbe quasi interamente durante le missioni investigative con l’ONG Truth Hounds, sono tutte figlie di una spiccata autodeterminazione. Ma anche quando le loro scelte appaiono completamente fondate sulla storia presente dell’Ucraina lasciano sempre intravedere l’ombra lunga di un Novecento mai terminato e pronto a riproporsi nelle forme a noi più inspiegabili.
Perché l’avvocata Jevhenia Zakrevs’ka si arruola volontaria nell’esercito? Perché da simbolo delle famiglie dei manifestanti uccisi nel 2014 a Majdan non ha mai visto alla sbarra i veri responsabili degli omicidi, tutti fuggiti e accolti in Russia.
Per quale ragione la signora Iryna Dovhan prepara il rifugio sotterraneo e fa scorte di cibo nei giorni in cui tutti le ripetono che la guerra non scoppierà? Perché è stata torturata e stuprata dai membri del futuro Gruppo Wagner quando abitava nella regione di Donec’k, quindi sa benissimo che il peggior scenario possibile può davvero concretizzarsi da un momento all’altro.
E perché Tetjana Pylypčuk, direttrice del Museo della Letteratura di Charkiv, decide di portare in salvo gli scritti custoditi nelle sale, ma poi ritorna nella città assediata per rimanerci fino alla sua liberazione? Perché vuole prendersi cura del complesso di Casa Slovo, il più celebre condominio residenziale della storia della letteratura ucraina.
A guardare la guerra sono le vedove dei civili uccisi, che fissano negli occhi i soldati russi assassini dei loro mariti. Per questi soldati Victoria Amelina parla di “vacuità del male”:
penso che il titolo del libro di Hannah Arendt non sia poi così preciso. Se non ci fosse stato lo sguardo di Hannah, non ci sarebbe stato niente da vedere in aula al processo contro Eichmann.
Nello sguardo calato sul conflitto, ci sono anche le investigatrici di crimini di guerra, le colleghe di Victoria. Come Anja, che si sofferma sulla differenza tra le distruzioni e i crimini contro i singoli:
documentare i bombardamenti aerei è peggio che documentare le torture. Dove ci sono le torture c’è un torturatore, c’è una persona da odiare e punire. Vedi tutte le macerie in giro, le persone morte e sofferenti. Ma chi è il colpevole? Chi dobbiamo odiare?
Dopo molti profili di donne, Victoria Amelina dedicherà pagine commoventi anche al ricordo di un uomo: il poeta Volodymyr Vakulenko, ucciso dai russi durante l’occupazione del suo villaggio, Kapytolivka, nella provincia di Izjum.
Il diario di Volodymyr Vakulenko (Meridiano 13/Claudia Bettiol)
Victoria ha avuto un ruolo decisivo nella preservazione della memoria di Vakulenko, perché è stata la persona che – dopo la liberazione di Kapytolivka – ha ritrovato il diario nascosto dello scrittore, curandone poi la sua digitalizzazione, la pubblicazione e la diffusione.
Esattamente come le encomiabili curatrici di questo libro (Tetyana Teren, Yaryna Grusha e Sasha Dovzhyk) hanno fatto con l’opera della Amelina.
Lo scarabeo
Nelle ultime pagine, Victoria pare quasi rassegnarsi all’idea di dover entrare nell’esercito. La profonda insoddisfazione che l’aveva perseguitata quando era una semplice volontaria è tornata a riemergere: indagare sui crimini di guerra è un processo lento, troppo per chi desidera una liberazione imminente.
Durante una missione a Charkiv, l’allarme aereo scatta mentre l’autrice e la sua squadra sono in piedi di fronte a un semaforo che segna rosso per i pedoni. Dovrebbero correre disperatamente verso un rifugio, invece attendono il verde.
Sul marciapiede notano uno scarabeo intrappolato tra le mattonelle: una signora lo libera, un collega di Victoria lo porta in salvo.
Nel raccontare questo aneddoto, l’autrice chiosa con un insegnamento che potrebbe e dovrebbe diventare parte del nostro approccio quotidiano ai conflitti contemporanei:
Non ci sono regole precise su come sopravvivere a una guerra. Puoi seguire le raccomandazioni, andare tempestivamente nei rifugi antiaerei, portarti dietro un kit di primo soccorso, cercare un posto sicuro ed essere comunque ucciso. Non ci sono regole certe per sopravvivere, però ci sono ancora quelle per vivere. Dipende ancora da noi se salvare lo scarabeo, se attraversare una strada vuota al semaforo verde, se essere gentili e rispettosi, se rimanere umani.
*Michele Guerra, attivista e scrittore, si è recato diverse volte in Ucraina tra il 2022 e il 2024. Ha curato la mostra “Mariupol Diary” del fotografo ucraino Evgeny Sosnovsky all’interno del Festival Vicino/Lontano di Udine nel 2023. È autore dello spettacolo teatrale e del podcast “La Breve Utopia – Mariupol DramTeatr” dedicato alla strage del Teatro di Mariupol’.
Guardando le donne guardare la guerra di Victoria Amelina, traduzione di Yaryna Grusha, Guanda, 2025