Come potrai immaginare, questo progetto ha dei costi, quindi puoi sostenerci economicamente con un bonifico alle coordinate che trovi qui di seguito. Ti garantiamo che i tuoi soldi verranno spesi solo per la crescita del progetto, per i costi tecnici e per la realizzazione di approfondimenti sempre più interessanti:
IBAN IT73P0548412500CC0561000940
Banca Civibank
Intestato a Meridiano 13
Puoi anche destinare il tuo 5x1000 a Meridiano 13 APS, inserendo il nostro codice fiscale nella tua dichiarazione dei redditi: 91102180931.
Passeggiata lungo il confine (Meridiano 13/Martina Napolitano)
In occasione del lancio degli eventi legati a GO2025, Nova Gorica-Gorizia Capitale europea della Cultura, abbiamo intervistato Alessandro Cattunar, presidente dell’associazione Quarantasettezeroquattro, docente e divulgatore, autore del libro Storia di una linea bianca (Bottega Errante, 2024) e dell’omonimo podcast. I temi della nostra conversazione spaziano dalla storia del confine orientale all’attualità, dagli eventi di GO2025 alle narrazioni che emergono oggi del territorio.
Alessandro, tu hai lavorato moltissimo sulla storia del confine orientale sia come ricercatore che come divulgatore, in particolare attraverso le attività dell’associazione Quarantasettezeroquattro. Talvolta pare che questo confine sia “questo sconosciuto”, soprattutto per chi non abita in zona. Secondo te, perché è tuttora così sconosciuta la storia del confine orientale?
Personalmente credo che non sia più così “sconosciuta”, nel senso che negli ultimi vent’anni se n’è iniziato a parlare molto di più anche nel resto d’Italia.
In generale, penso che la storia delle aree di confine, delle zone periferiche sia sempre meno conosciuta. Noi abbiamo la tendenza a raccontare la storia dalla prospettiva dei centri, delle capitali, osservando le entità statali nazionali come se fossero un monolite. Il che ci porta a sottovalutare proprio le aree di frontiera.
Inoltre, un secondo aspetto da considerare è che la prospettiva della frontiera rende tutto più complicato: richiede un surplus di riflessione ponderata che è possibile fare soltanto in determinate situazioni e non in discorsi mainstream o con una divulgazione rapida.
A questo si aggiunge poi la delicatezza della storia di quest’area di frontiera sul piano politico. L’uso politico che se ne fa ha portato per tanto tempo, anche a livello locale, molte persone a non affrontarla, per non andare a toccare corde politiche delicate e difficili da gestire. È quindi un mix di fattori che, secondo me, ha portato a una scarsa conoscenza della storia di queste zone.
Il confine tra Goriza e Nova Gorica (Meridiano 13/Lorenzo Mantiglioni)
A proposito delle questioni politiche, proprio in questi giorni si parla molto sui giornali, quantomeno quelli locali, della questione della cittadinanza onoraria a Benito Mussolini, tuttora non revocata dalla città di Gorizia…
Si tratta di una convergenza di due questioni strettamente connesse, ovvero la mancata revoca della cittadinanza onoraria a Mussolini, revoca che è stata proposta dalle forze di opposizione in consiglio comunale, e, dall’altro, l’accoglienza ufficiale da parte della giunta comunale delle commemorazioni dei parenti delle vittime della Xa MAS.
Si tratta di due casi legati in cui la storia della destra è stata posta al centro dell’attenzione, in cui le forze politiche locali sono state quantomeno opache nelle loro motivazioni. Invece di rivendicare politicamente le loro scelte, hanno cercato di spiegarle con motivazioni poco convincenti di pacificazione, ottenendo esattamente l’effetto opposto, esacerbando lo scontro fra coloro che difendono l’antifascismo costituzionale del nostro Stato e coloro che invece tendono a dare legittimità a forze e personaggi legati in modo esplicito al regime fascista.
Visto che sei un insegnante, ti chiedo se noti una certa differenza di atteggiamento a livello generazionale rispetto alla questione. Sicuramente i giovani saranno meno consapevoli di quello che c’è dietro alla politicizzazione di questa storia…
Certamente, nel senso che per le generazioni più giovani le questioni ideologiche sono lontanissime e quindi partono in qualche modo vergini nell’affrontare la complessa storia di quest’area di confine.
Noto in loro un fascino verso i territori multietnici, multilinguistici, multiculturali come il nostro.
Noto poi la loro capacità di collegare ciò che è accaduto nel passato alle dinamiche identitarie a cui stiamo assistendo oggi e che li riguardano in altro modo, perché loro si trovano a vivere una condizione di multiculturalità diversa, legata alla migrazione verso l’Italia e verso l’Europa. Una migrazione che porta loro a porsi in maniera naturale la questione dell’identità e della lingua.
Quando mi capita di parlare con le ragazze e i ragazzi delle scuole, osservo l’interesse da parte loro rispetto alle dinamiche identitarie, senza quel portato ideologico che invece nelle generazioni più anziane porta a leggere tutto in una chiave bipolare.
E dall’altro lato, c’è il fascino per il concetto di confine inteso come uno spazio che per i ragazzi e le ragazze non è più così consueto e quotidiano. Quando li accompagniamo a visitare le zone di confine, sono affascinati e cercano i segni di questo confine nell’attraversarlo, vivendo il paradosso di confini statali che esistono ufficialmente ma che poi concretamente sul luogo non si vedono più.
Parliamo allora proprio dei luoghi di questo confine. Grazie a GO2025 ci sarà un crescente turismo in città e nel Goriziano in generale. Cosa consiglieresti di visitare a un turista che per la prima volta arriva a Gorizia? Un po’ nel tuo libro Storia di una linea bianca (Bottega Errante, 2024) suggerisci proprio una specie di percorso, ripercorriamolo.
Credo che sia bello proprio fare un percorso a piedi che collega le due città, i centri delle due città di Gorizia e di Nova Gorica. Si tratta di una passeggiata di circa 4 km che si può affrontare in un paio d’ore, con un itinerario che si snoda tra architettura e segni della memoria sul territorio. La cosa bella di passeggiare attraverso le due città è proprio andare a caccia dei segni delle diverse identità sul territorio e quindi capire, provare ad esplorare e cercare ciò che le diverse comunità hanno lasciato sia a livello architettonico che a livello di memoria.
Piazza della Transalpina (Meridiano 13)
Se si parte dal centro di Gorizia e dal Teatro Verdi, che è il simbolo della Gorizia italiana, si può poi passare davanti al Trgovski dom, simbolo per eccellenza della comunità slovena di Gorizia. Il Trgovski dom è un centro polifunzionale molto caro agli sloveni, che ospita sedi di associazioni, partiti politici, un teatro, negozi e così via. Si passa poi per piazza Vittoria e la sua identità ibrida fra architettura asburgica e l’area del castello sovrastante che ne segna la tradizione più antica.
E poi si può fare una passeggiata lungo il confine, fra due luoghi simbolo, che sono il valico del Rafut e piazza Transalpina. Il valico del Rafut è un piccolo valico di terza categoria, un valico agricolo; qui si può notare come il confine abbia tagliato le proprietà, abbia attraversato cortili, giardini, strade. Sempre qui si trovano anche due piccoli musei, piccoli ma molto significativi, allestiti dentro le vecchie casette per il controllo da parte dei doganieri. Adesso ospitano il Museo del lasciapassare/Prepustnica e il Museo del contrabbando, due luoghi che raccontano bene la storia di Gorizia, del confine e della costruzione di Nova Gorica.
Da lì si può seguire una bella pista ciclabile, che costeggia proprio la linea di confine sul lato sloveno. Si passa quindi per il valico di San Gabriele e si arriva in piazza Transalpina, simbolo della divisione fra le due città, in quanto questa piazza è stata tagliata perfettamente a metà del confine nel 1947 in corrispondenza di quella che era la stazione Transalpina. Questa nasce come stazione asburgica per collegare Gorizia e Trieste con il centro dell’impero ed è un luogo che adesso sarà al centro delle celebrazioni di Nova Gorica – Gorizia Capitale europea della cultura.
Da piazza Transalpina si può poi arrivare in circa un quarto d’ora in centro a Nova Gorica percorrendo la lunga e dritta Erjavčeva ulica, accompagnata dai busti degli eroi che la Jugoslavia ha deciso di onorare, fino al centro della città con le sue architetture moderne e con il modellino del progetto di Nova Gorica realizzato da Edvard Ravnikar, ovvero il modello della città razionalista che avevano in mente di costruire.
Oltre a questi monumenti c’è anche molto da dire sulla toponomastica, una toponomastica in realtà molto lacunosa rispetto a parte del patrimonio storico, linguistico e culturale di Gorizia. Ci dici qualcosa a riguardo?
Senza dubbio. In questo tipo di passeggiata io ho soltanto elencato gli snodi fondamentali, ma è interessante camminare con uno sguardo attento e critico. Uno sguardo attento e critico innanzitutto rispetto ai nomi delle vie, che molto raccontano su entrambi i lati del confine.
Si può notare immediatamente come sul lato italiano tutte le vie rimandino a una tradizione italiana dove al centro c’è la Prima guerra mondiale, innanzitutto con nomi di generali e date simbolo del conflitto. Tutto un Pantheon toponomastico che va a fondersi poi con i personaggi del Risorgimento, dell’Unità d’Italia, i grandi autori e artisti italiani. Si tratta di una toponomastica creata a partire dalla fine della Prima guerra mondiale fino a tempi recenti, che vuole celebrare l’italianità di Gorizia, purtroppo mettendo in ombra tutte le altre tradizioni culturali, linguistiche e politiche del territorio.
Al contempo bisogna prestare attenzione alle targhe e monumenti, a quelli che ci sono, ma anche a quelli che mancano. È chiaro che questo è un modo di visitare un territorio complesso, che avrebbe bisogno di un accompagnamento fisico di una guida oppure di libro o quantomeno di una mappa, che offra una chiave di lettura per un territorio denso di segni ma non sempre facilmente interpretabile, anche sul lato jugoslavo, oggi sloveno.
A Nova Gorica sarà interessante notare i nomi delle vie che richiamano in buona parte l’epopea partigiana, gli anni della lotta di liberazione. C’è via IX° Korpus che è il nome delle formazioni partigiane che hanno liberato Gorizia nel 1945, per esempio. La piazza centrale è ancora intitolata a Edvard Kardelj che è stato un personaggio chiave della politica jugoslava per decenni.
Il libro di Alessandro Cattunar Storia di una linea bianca (Meridiano 13)
Consigli di percorrere questo itinerario magari in compagnia di un libro e io penso che il tuo Storia di una linea bianca possa proprio fungere da guida in questo senso.
E sempre tornando a questo tuo libro, tu racconti un po’ come se fosse una barzelletta le vicende che hanno portato al tracciamento del confine. Confine che, va specificato, andò non tanto a dividere due città, come molto spesso si racconta erroneamente, quanto a dividere un territorio che era ecosistemicamente ben coeso, un territorio in cui la città e la campagna avevano ognuna bisogno dell’altra.
Sì, senza dubbio. È interessante il processo che portò alla definizione della linea di confine. Si può pensare che sia relativamente semplice tracciare i confini, ma non è così e non lo è per diverse ragioni, soprattutto in territori tradizionalmente multietnici e pluriculturali.
Su questo territorio gli eventi fondamentali sono i seguenti: nel 1945, a giugno, si decide di lasciare i destini del territorio in mano alle diplomazie internazionali, ossia alle potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale, che si riuniscono prima a Londra e poi a Parigi per tracciare i confini di tutta la nuova Europa post-Seconda guerra mondiale.
Nel 1946 si inizia ad affrontare la questione del confine fra Italia e Jugoslavia, le quali rivendicano per sé tutto il territorio della Venezia Giulia e dell’Istria. Si decide dunque di mandare in esplorazione una commissione interalleata composta da quattro militari, uno per ognuna delle potenze vincitrici: un inglese, un sovietico, un americano e un francese.
Questi quattro hanno il compito tutt’altro che semplice di attraversare tutta l’area contesa, sostanzialmente da Fiume fino alla zona di Caporetto, e capire un po’ che aria tira: cosa vuole la popolazione? Quale può essere una linea di confine equa e rispettosa della volontà sia politica che della popolazione?
La commissione passa per Gorizia il 26 marzo del 1946. È questo il momento chiave in cui ci si gioca tutto. Bisogna convincere la commissione del fatto che Gorizia vuole essere o italiana o jugoslava e quindi la popolazione si mobilita, scende in piazza, fa enormi manifestazioni sia da una parte che dall’altra.
In quell’occasione la commissione capisce che il centro urbano di Gorizia è abitato maggiormente da persone di lingua italiana che vorrebbero l’annessione all’Italia. Capisce anche che il contado, i paesi dell’area contadina a est e nord-est, invece, sono compattamente a favore della Jugoslavia.
Tornati a Londra, i quattro commissari non riescono ad accordarsi e propongono quattro linee di confine diverse: quella russa è favorevole alla Jugoslavia; quella inglese e americana favorisce l’Italia; i francesi invece pensano di avere l’idea geniale e propongono una linea che loro definiscono “etnica”, ossia una linea linguistica che vorrebbe lasciare più persone possibile che parlano sloveno in Jugoslavia e più persone possibile che parlano italiano in Italia.
Si rivela però subito un’illusione. Una linea etnica di questo tipo mal si applica a un territorio interconnesso e va così a lasciare l’area urbana in Italia, mentre tutto il contado e buona parte della provincia finisce in Jugoslavia. Nessun goriziano avrebbe voluto una spaccatura così netta. Tutti si immaginavano di rimanere o da una parte o dall’altra del confine, ma come intero territorio.
Quella linea non va a dividere infatti due città semplicemente perché non esistono ancora due città. Nel 1947 c’è una città sola, Gorizia, il cui centro rimane in Italia e questo comporta la necessità di costruire una nuova città sul lato jugoslavo per andare a coprire le esigenze di coloro che erano rimasti in Jugoslavia, dove c’era praticamente solo campagna e qualche borgo periferico.
Cippo di confine tra Italia e Slovenia in piazza della Transalpina, dove un tempo si ergeva il muro di Gorizia (Meridiano 13/Nicola Zordan)
Chiaramente questa divisione è andata a pesare soprattutto sull’economia e sulla società del Goriziano. Ci sono degli episodi, come la famosa Domenica delle scope, in cui la popolazione in qualche maniera ha avuto però la sua piccola rivincita, sottolineando come il territorio fosse stato diviso in maniera per nulla naturale, artificiosa.
Senza dubbio andare a dividere una comunità in questo modo vuol dire interrompere i legami economici, sociali e familiari. La popolazione dell’area attraversata dal confine ha avuto la fortuna di poter scegliere da che parte stare; quindi, da un lato, la costruzione di questo di confine ha comunque cercato di tener conto della volontà della popolazione.
Dall’altro lato, bisogna sottolineare come nei primi anni il confine goriziano fosse un confine chiuso: dal 1947 al 1955 il confine era sostanzialmente non valicabile, neanche dalla popolazione locale. Quindi, una volta deciso di optare per l’Italia o la Jugoslavia, si rimaneva ognuno della propria parte.
Questo comportò per tutta la campagna la mancanza di un mercato di sbocco per i prodotti agricoli; comportò viceversa per la città non avere più un contado di riferimento verso cui dare sfogo alle attività commerciali, ma anche a quelle istituzionali e a quei servizi di cui Gorizia era ricca fino a quel momento. Il che vuol dire interrompere i normali commerci fra i negozi del centro e le realtà periferiche.
Dal punto di vista commerciale, questo concerne anche l’acquisto di beni di prima necessità, dalle scope di saggina agli aghi per cucire, ovvero tutta una serie di beni che iniziano a mancare in territorio jugoslavo, rendendo la vita dalla parte jugoslava estremamente complessa, faticosa, difficile immediatamente dopo la costruzione del confine.
Per questo motivo le autorità jugoslave danno immediatamente inizio alla costruzione della città nuova, ma ci vorranno mesi e anni per arrivare alla sua piena funzionalità. Ed ecco quindi che il malcontento aumenta, le condizioni di vita peggiorano e tutto questo sfocia in quello che è l’episodio simbolico più conosciuto, più impresso nella memoria della popolazione locale che è proprio la Domenica delle scope.
Il 13 agosto 1950 la popolazione sul lato jugoslavo si aggrega in prossimità del valico di Casa Rossa e di alcuni valichi secondari perché ha sentito una notizia che circola, secondo cui in quella giornata si sarebbe potuto attraversare il confine. Non è così, non c’è stato nessun ordine in tal senso. È vero che era stata data la possibilità di incontrare i propri parenti nella terra di nessuno, fra i due controlli confinari, ma non c’era ufficialmente la possibilità di attraversare il confine. Tuttavia, come una profezia che si autoavvera, le migliaia di persone che iniziano a spingere sul lato jugoslavo sui controlli di confine fanno sì che effettivamente il confine a un certo punto venga aperto.
In tarda mattinata la popolazione viene lasciata libera di passare, a patto che a sera tutti rientrino nelle proprie case, pena l’essere considerati clandestini. È una giornata di grande emozione per i goriziani: le famiglie che si riuniscono, le donne vanno a comprare i beni che in Jugoslavia mancavano come le scope di saggina, per l’appunto, gli aghi, ma anche beni alimentari. Il confine cessa così di esistere per un giorno, un unico giorno, per poi tornare ad essere una barriera sostanzialmente invalicabile fino al 1955.
Ripercorriamo allora le tappe di questo confine, per arrivare all’oggi.
Possiamo individuare, direi, tre momenti essenziali nella storia del confine.
La prima data fondamentale è il 1955, appena risolta la questione di Trieste, con Trieste che viene annessa all’Italia nel 1954. Nel 1955 i rapporti fra Italia e Jugoslavia si distendono e inizia un dialogo che porta all’approvazione del lasciapassare (prepustnica), un documento speciale che consente alla popolazione locale di attraversare il confine quattro volte al mese. Tutti coloro che abitano a 10 km dal confine hanno questa possibilità. È una svolta fondamentale, perché dopo il 1955 i goriziani possono tornare a incontrarsi, le famiglie divise possono tornare ad unirsi.
In queste occasioni iniziano ad esserci dei piccoli commerci transfrontalieri, alcuni legali, alcuni illegali, ma comunque quella che era stata per anni effettivamente una cortina di ferro, un confine chiuso, diventa abbastanza rapidamente un confine aperto, forse il confine più aperto fra Occidente. Così Gorizia passa improvvisamente da essere baluardo di italianità da un lato e di jugoslavità dall’altro a farsi cerniera, area permeabile di contatti, scambi prima commerciali e familiari, poi anche culturali. Gorizia diventa insomma un fulcro di contatto fra il mondo occidentale e quello comunista. Bisogna ricordare che tutto questo è stato permesso anche dalla rottura che ci fu fra Tito e Stalin nel 1948, con Tito che scelse una via alternativa a quella posta dall’Unione Sovietica.
La seconda tappa fondamentale è il 1975 quando con i Trattati di Osimo i confini diventano definitivi. So che sembra paradossale, ma per quasi trent’anni il confine stabilito nel 1947 era rimasto un confine provvisorio, non ufficialmente riconosciuto. Nel 1975, a seguito di questa progressiva distensione, è possibile mettere un punto fermo sulla questione confinaria e per la popolazione locale questo è importante perché nel tracciare il confine definitivo si poterono fare piccoli aggiustamenti rispetto alla linea del 1947. E quindi ecco che molti cortili e campi vengono riannessi alle case, il confine fa più zig-zag rispetto alla linea sostanzialmente retta che era stata stabilita nel 1947.
Si arriva così a una definizione che per qualcuno, da entrambe le parti, è una sconfitta, un’accettazione di condizioni penalizzanti, ma che in realtà per la maggioranza della popolazione significa finalmente stabilizzare una situazione, anche dando ascolto al buon senso che permette di tracciare un confine che segue le proprietà e non le divide.
La penultima tappa fondamentale è il 1991, quando, dopo la caduta del muro di Berlino e gli sconvolgimenti che ne sono seguiti, la Slovenia si dichiara indipendente. Ne segue una breve guerra di dieci giorni che porta i carri armati sul confine, a Casa Rossa. Ci sono alcuni spari, alcuni morti, ma nell’arco di dieci giorni la Slovenia diventa indipendente. È chiaro che è una svolta epocale nei rapporti transfrontalieri e preannuncia un nuovo atteggiamento e nuove possibilità di contatto fra il territorio italiano e quello sloveno.
Un cambiamento che diventerà decisamente più concreto nel 2004, quando la Slovenia entra ufficialmente nell’Unione Europea: il 1 maggio 2004. In quell’occasione viene abbattuto un pezzo fisico del confine in piazza Transalpina, che per la prima volta viene riunificata. Il confine politico esiste ancora, ma simbolicamente le persone possono attraversarlo senza dover mostrare i documenti.
E poi possiamo arrivare al 2025, quando il titolo di Capitale europea della cultura sancisce una fase ancora più radicale nell’immaginare questo territorio come un territorio unico transfrontaliero e transnazionale, in cui non ci sono più due città, ma c’è un’unica Capitale europea della cultura chiamata Gorizia.
Parlando di questo grande evento che occuperà tutto l’anno 2025, qual è lo spirito dell’organizzazione che sta emergendo, in termini di eventi, ma anche di simboli?
Al di là del programma di eventi, che è estremamente ricco e, credo, attrarrà molte persone da fuori, mi pare che il primo segnale di un cambiamento più profondo stia proprio nella narrazione che il territorio fa di sé. Per la prima volta da quando le due città si sono candidate si inizia a raccontare questo territorio come un territorio unito. Le due città si presentano effettivamente come un’unica città. Si tratta di una retorica che non si era mai diffusa prima con convinzione.
Precedentemente c’erano state dichiarazioni di intenti, c’erano state speranze, idealità rispetto al fatto che le due città potessero collaborare e addirittura mettere a disposizione dei servizi in comune, ma poco si era concretizzato prima della vittoria del titolo di Capitale.
È da un po’ di anni che le due amministrazioni, seppur composte da giunte che sono meno politicamente propense all’apertura verso il Diverso, hanno sposato apparentemente con convinzione questa narrazione transfrontaliera e unitaria che cerca di superare le categorie nazionali tradizionali. E questa è una prima vittoria, mi viene da dire, al di là di come andranno i singoli eventi.
Sul piano simbolico, la scelta di adottare lo slogan Borderless è, da un lato, una scelta abbastanza scontata perché era su questo che si basava la candidatura. Tuttavia, dall’altro, è una rivendicazione importante in un periodo in cui, invece, i confini tornano a essere presidiati per volontà in questo caso del governo italiano, che ha reintrodotto i controlli alla frontiera per motivi di sicurezza e per limitare i flussi migratori. Certo, assisteremo a un contrasto forte fra uno slogan che parla di una città borderless e le forze di polizia che presidiano i valichi.
Il che porta a riflettere su che tipo di Europa ci immaginiamo e quanto i confini all’interno di questa Europa abbiano ancora un ruolo dopo decenni in cui si erano progressivamente ammorbiditi.
Tra i risultati positivi, il titolo di Capitale europea ha portato a reali collaborazioni fra gli enti italiani e sloveni, che non sempre hanno avuto in precedenza occasione per creare progetti comuni. La Capitale europea ha portato a una co-progettazione e a discutere questioni fondamentali, quale ad esempio il problema della lingua con cui ci si rivolge al pubblico di un tale evento transnazionale. In che lingue ci si deve esprimere? In italiano? In sloveno? In inglese? Sempre in tutte e tre le lingue? Come si fa a far sì che tutto sia comprensibile a tutti? Sono sfide non banali e che, appunto, al di là poi della qualità dei singoli interventi, rimarranno come buone pratiche sul territorio, speriamo.
Speriamo davvero. Gli aspetti che hai elencato riguardano però soprattutto le istituzioni, che hanno finalmente cominciato a ragionare in termini di opportunità rispetto a quella che è la realtà oltre il proprio confine. Dal basso però c’erano già delle realtà che in questi anni avevano abbattuto a loro modo i confini, no?
Senza dubbio. Non voglio dare l’idea che non si fosse fatto niente prima. Dal basso c’era molto associazionismo, c’erano molte realtà culturali transfrontaliere, sia più grandi che più piccole. A Gorizia c’è, ad esempio, un’istituzione come il Kulturni dom, che è un grande teatro della minoranza slovena di Gorizia e che è sempre stato un punto di contatto tra le due culture sul piano artistico. Ci sono stati poi gli Incontri Culturali Mitteleuropei che, a partire dagli anni Settanta, hanno fatto sì che le culture dell’Est Europa potessero arrivare a Gorizia e creare dibattito. C’è stato molto piccolo associazionismo, ci sono state realtà artistiche che hanno lavorato molto a livello transfrontaliero, come Kinoatelje.
La scritta Tito sui monti sopra Nova Gorica (Meridiano 13)
C’è però anche un certo scetticismo o diffidenza rispetto ai lasciti strutturali che potrà avere GO2025. Ma, come sempre accade in questi casi, bisognerà attendere quantomeno la fine del 2025 per poter dire qualcosa. L’interesse per questo territorio da parte di realtà esterne alla regione inizia a manifestarsi innanzitutto come curiosità per un’area complessa da scoprire e da conoscere, a livello sia storico che artistico. Questo spinge a trovare modi alternativi per raccontare in modo accattivante una storia difficile e carica anche di portati motivi non del tutto superati.
Per concludere invito però a ragionare su quello che è il territorio goriziano oggi, perché nell’organizzazione di questa kermesse di eventi per il 2025 si considerano le due anime per così dire precipue del territorio, quella italiana e quella slovena, intese come lingue, culture e pubblici di riferimento.
Tuttavia, il territorio è molto più multilinguistico e multiculturale di così. Non solo perché la regione Friuli Venezia Giulia vanta quattro lingue ufficiali, ma anche perché negli ultimi due-tre decenni il territorio di confine è divenuto casa per molte altre comunità. Pensiamo anche solo a Monfalcone che è densamente popolata da persone provenienti in particolare dal Bangladesh, ma non solo.
Quindi, pensare al Goriziano nel 2025 come a un territorio in cui le due anime italiana e slovena si uniscono è un po’ escludente rispetto all’odierna diversità intrinseca a questo territorio, non trovi?
Hai pienamente ragione. È una questione di cui si sta parlando relativamente poco ed è uno dei limiti della narrazione che si sta proponendo.
Tra le iniziative legate al titolo di Capitale europea, EPIC sarà uno dei progetti chiave di racconto di quest’area dal punto di vista storico. Sarà un grande museo, ma al contempo un’area di dibattito sulle identità plurimi del territorio: qui si farà emergere come in passato le identità dell’area fossero italiana, slovena, tedesca, friulana, con altre contaminazioni più complesse, come quella ebraica e così via. Ma sarà anche un’occasione per capire come questo mosaico d’identità si sia riformulato in tempi recenti con altre lingue, altre culture e darà modo di discutere più in generale della questione dell’identità e di come intendiamo declinare questi temi nell’Europa unita del 2025.
Dall’altro lato, è vero che il riscoprire o rivalorizzare l’unità italiano-slovena va a penalizzare una riflessione più ampia ed esplicita sulle nuove comunità che sono arrivate negli ultimi decenni e che sono un po’ in ombra dal punto di vista della narrazione, almeno a leggere i primi titoli delle iniziative in programma.
Certo è che sarà una buona occasione per mettere sul tavolo questioni anche politicamente delicate e rilevanti come quelle che hai nominato. È stato interessante, per esempio, che il responsabile artistico della Capitale europea Stojan Pelko sia intervenuto qualche giorno fa nel dibattito da cui abbiamo cominciato sulla mancata revoca della cittadinanza onoraria a Mussolini, dicendo che la Capitale europea della cultura vuole essere luogo di dibattito e di discussione su queste tematiche e sulle questioni legate all’accoglienza del Diverso. C’è quindi consapevolezza rispetto a questi temi. Vedremo se e come saranno effettivamente declinati nella proposta artistica e quanto anche queste comunità saranno attivamente coinvolte negli eventi.
Dottoressa di ricerca in Slavistica, è docente di lingua russa e traduzione presso l’Università di Trieste, si occupa in particolare di cultura tardo-sovietica e contemporanea di lingua russa. È traduttrice, curatrice di collana presso la casa editrice Bottega Errante ed è la presidente di Meridiano 13 APS.