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Intervista a Dino Pešut e Sara Latorre, autore e traduttrice di “Figlio di papà”

Poche settimane fa la pecora di Bottega Errante Edizioni ha portato in Italia una nuova voce dalla Croazia: il drammaturgo e poeta Dino Pešut. Grazie al lavoro di scouting e traduzione di Sara Latorre, infatti, il romanzo Figlio di papà (“Tatin sin”) è disponibile sugli scaffali delle nostre librerie, pronto a farci sorridere e arrabbiare, amare e odiare il suo protagonista tanto inetto quanto geniale, con tutti i suoi traumi e irrisolti. In poco più di cento pagine Pešut condensa e convoglia il punto di vista generazionale di coloro che sono nati e nate negli anni Novanta e stanno ancora aspettando l’arrivo del proprio momento, in Croazia come in Italia.

Tra autore e traduttrice si è subito creata una grande intesa, che ha contribuito ulteriormente alla buona riuscita dell’edizione italiana. Per scoprire qualcosa di più sui retroscena che hanno portato alla nascita di Figlio di papà e al suo arrivo nel nostro paese abbiamo deciso di intervistare entrambi. Ecco cosa ci hanno raccontato.

Il romanzo racconta, tra le altre cose, della genesi di una raccolta di poesie scritta dal protagonista e “involontariamente” pubblicata. Com’è stato il percorso che ti ha portato alla stesura e pubblicazione di questo romanzo?

DP: Domanda interessante, ma più passa il tempo e meno la risposta mi è chiara. Sentivo di voler scrivere della relazione tra padre e figlio. Mi interessava la forma dei capitoli brevi, intensi. Sapevo che il padre sarebbe stato malato. E che il figlio sarebbe stato un poeta, non dichiarato. Da questa prospettiva sembra che sia stato semplice, ma ci è voluta molta concentrazione e che la storia franasse più di una volta.

Dopo due anni di scrittura, il romanzo era pronto. Nel frattempo, il mondo era cambiato. Avevo iniziato a scrivere il libro quando il mondo era veloce, in movimento e vibrante, l’ho terminato in isolamento, in camera da letto, leggendolo ad alta voce.

Ma, più invecchio, più mi convinco che la maggior parte della scrittura avviene dentro di noi, molto prima del momento in cui ci sediamo davanti al computer a digitare.

Come ti sei imbattuta in questo romanzo e in questo autore? Come e qual è stato il percorso che ha portato alla scelta (tua e di Bottega) e pubblicazione dell’edizione in italiano?

SL: Nell’estate 2021 stavo scrivendo la mia tesi magistrale, che proponeva la traduzione della raccolta di saggi femministi di Maša Grdešić Le trappole della buona educazione. Saggi sul femminismo e la cultura pop (Asterisco Edizioni, 2023). Durante una delle mie sessioni di monitoraggio del blog femminista croato Vox Feminae, ho trovato un articolo di Marija Dejanović che confutava la recensione negativa del romanzo di Pešut redatta da Igor Mandić.

Mi ha incuriosito molto il grande nervosismo suscitato da quest’opera in uno dei maggiori esponenti della critica letteraria croata, soprattutto per gli attacchi omofobi e reazionari rivolti al libro e al suo autore, così ho deciso di leggerlo. Ho tentato il colpaccio chiedendo direttamente alla casa editrice Fraktura di inviarmi il pdf del libro, e loro hanno sorprendentemente accettato. 

Quando l’ho letto, ho promesso a me stessa che la traduttrice italiana di questo libro sarei stata io (diciamo che sono un po’ testarda e molto ottimista). Elisa Copetti di Bottega Errante era stata mia professoressa per un semestre in università, così le ho chiesto direttamente se accettassero proposte di traduzione anche da noi pischellә e poi ho provato a inviare la mia.

Il riscontro è stato positivo perché il libro (e la traduzione di prova, diciamolo!) sono piaciuti alla redazione di BEE, e da lì è partito tutto. Credo che al catalogo di Bottega Errante mancasse un romanzo così giovane e fresco e, se devo dirla tutta, spero che Figlio di papà sia la prima di molte future pubblicazioni pescate dalla nuova generazione di scrittorә dell’area.

Le mamme incasinano la psiche, ma i padri possono incasinarti la vita

Come si evince chiaramente dal titolo è un libro che parla (anche) di paternità, genitorialità, dell’essere figli e delle differenze generazionali in questo senso. Dove finisce la responsabilità dei genitori nei confronti dei figli e dove inizia quella dei figli nei confronti di sé stessi? C’è sempre tempo per rimediare, ricucire e ricalibrare i rapporti familiari?

DP: Credo che sarebbe meglio fare questa domanda a unә psicologә o a unә analista. E anche loro concorderebbero che non esiste una risposta esatta. A quel punto arrivano le storie, le nostre piccole storie personali e individuali che si collegano all’esperienza collettiva.

Nel mio caso, per iniziare a vivere, ho dovuto staccarmi, andare via di casa, lasciare la mia città, a un certo punto anche il Paese, separarmi dallә genitorә sia fisicamente che emotivamente. Ed è un processo che richiede tempo, lә genitorә non sono nemmeno colpevoli, spesso si portano solo appresso dei traumi transgenerazionali, dei modelli sociali e culturali.

Però, per arrivare a crescere, sono anche dovuto tornare, conoscerlә da capo e lasciare che loro conoscessero me. Non per come mi avevano immaginato, ma per come sono o il più vicino possibile a come sono. È l’incontro, ed è su questo che si costruisce una relazione. Almeno, in un mondo ideale. In realtà, per la maggior parte sono compromessi. Comunque è importante assumersi la responsabilità delle proprie azioni, e incolpare l’altrә soltanto per ciò di cui è colpevole, né più né meno. 

Crescere è tornare, tentare di nuovo.

Spesso nella scelta del titolo di un’opera tradotta i pareri di chi scrive, chi traduce e chi pubblica differiscono. C’è stato bisogno di un confronto per decidere il titolo dell’edizione italiana o vi siete trovati subito d’accordo nel mantenere quello originale, Tatin sin?

SL: Tatin sin vuol dire letteralmente Figlio di papà, e in croato ha la stessa accezione che conosciamo anche noi. Durante il processo di traduzione ne ho parlato con Dino, che mi ha detto di essere affezionato al gioco di parole dell’originale: il protagonista è tutto fuorché un ragazzo benestante viziato e coccolato dalla famiglia, ma durante la vicenda si avvicina al padre e in qualche modo si abbandona al ruolo di figlio, accettando di essere, letteralmente, figlio di (suo) papà, di un papà qualunque.

A qualcuno all’interno della redazione di BEE il titolo italiano non convinceva, così avevo provato a proporre anche Tale padre, per mantenere una sorta di assonanza con Tatin sin e perché il più grande spauracchio del protagonista è assomigliare al genitore. Oggi come oggi, però, sono contenta che sia stata scelta la traduzione letterale, in quanto contiene tutti i fulcri del romanzo: i concetti di figlio e papà, l’ironia, la capacità di sorprendere chi legge raccontando situazioni che non sono come sembrano. 

I daddy issues del protagonista si riflettono anche sulle sue relazioni interpersonali, in particolare quelle intime. In alcuni passaggi si parla di “famiglia elettiva”, in altri si traccia una differenza tra “padre biologico” e figure potenzialmente paterne ma ambigue. Nel caso del protagonista sarà proprio una di queste ultime ad avere un ruolo centrale e invertire il corso degli eventi. Possiamo dire che questa ricerca di figure genitoriali “alternative” e famiglie elettive ha i propri lati positivi? È una tendenza generazionale?

DP: Non direi che è un trend generazionale, ma che ora queste figure sono più visibili. Le famiglie elettive, le kinship o come vogliamo chiamarle esistono da sempre, solo che si sviluppano in vari gruppi marginalizzati. Nella classe operaia, diciamo dove sono cresciuto con mia nonna, queste relazioni si instauravano con lә vicinә. I membri della comunità Lgbtq+ si sono dovuti unire in piccole famiglie elettive, spesso nelle grandi città, non solo per lottare contro la solitudine, ma anche per salvarsi la vita…

Le famiglie elettive sono la risposta alle mancanze della famiglia biologica, ma anche alle ingiustizie sociali, sono il luogo in cui sentirci infine accettatә, visibili, il più possibile noi stessә. Ovviamente, questa cosa ha un prezzo. Ma questo è anche il mio mondo. Io sono figlio unico e ho passato buona parte della mia vita più o meno da solo e in solitudine. Ma poi, nel mondo, ho trovato fratelli e sorelle. 

Figlio di papà Dino Pešut Sara Latorre

Questo paese è ostaggio delle storie che i padri hanno raccontato ai figli. Ostaggio della merda delle famiglie.

Nel romanzo non mancano aspre critiche alla Croazia come nazione, alla sua società e politica. Che ricezione ha avuto il libro in Croazia? Quali sono gli ostacoli dell’essere un autore queer in questo paese?

DP: In Croazia ho ricevuto critiche miste, ma il romanzo ha trovato il suo pubblico e ha venduto molto bene. Tuttavia, ho ricevuto un’accoglienza migliore da parte della critica in Slovenia, Austria e Germania. Il romanzo vive la sua vita e io non ci penso più di tanto. Ciò che mi rende felice è proprio il coinvolgimento emotivo dellә lettorә, vedo che il libro entra nelle vite di persone che io non conoscerò mai, lo vedo parlare lingue che io non parlo e che in qualche modo ci riconosciamo. Devo ammettere che questo per me ha un certo significato.  

È difficile dirlo perché devo anche tener conto del mio privilegio. Innanzitutto, penso che il mondo, perciò anche la Croazia, sia molto cambiato nei confronti dei diritti Lgbtq+ negli ultimi dieci anni. Questa è stata la condizione necessaria perché io potessi scrivere i romanzi e i drammi teatrali che scrivo, perché avessi un buon editore, la visibilità mediatica. Lo spazio che ho l’ho conquistato forse con la mia arroganza giovanile, ma non mi vedo proprio a scrivere di persone etero. Lo spazio per il progresso c’è, l’orizzonte si allarga sempre di più, ma anche se fossi riuscito ad andare solo mezzo metro più avanti, sarebbe comunque qualcosa.

La domanda va al di là della piccola Croazia, ed è: come si raggiunge l’uguaglianza?

Anche la nostra generazione (e non solo) non manca di rivolgere critiche altrettanto aspre nei confronti dell’Italia. Ci sono secondo te punti in comune tra la società italiana e quella croata e il loro rapporto con le ultime generazioni? Siamo anche noi in ostaggio?

SL: Io penso che l’Italia e la Croazia siano molto simili sotto tanti punti di vista. A livello culturale, siamo Paesi mediterranei: incapaci del rigore richiesto dagli Stati che contano davvero in Europa, ci piace goderci la vita di cui ci lamentiamo. A livello politico, continuiamo a esprimere classi inadeguate e reazionarie.

Lә giovani di Zagabria e quellә di Milano hanno gli stessi problemi (affitti troppo alti, stipendi troppo bassi); lә giovani di Ghisalba (io) e Sisak (Dino) hanno gli stessi problemi: le minori opportunità di incontrare persone che ti assomiglino e ti capiscano, il dilemma di voler scappare da qualcosa che non ti rappresenta senza poter dimenticare chi sei. Certo, in Croazia essere ostaggio della propria famiglia significa anche subire il trauma generazionale legato alla guerra degli anni Novanta, cosa che noi non possiamo capire. 

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Il libro contiene vari riferimenti culturali, come ad esempio Pedro Almodóvar e Virginia Woolf. Le opere citate sono state d’ispirazione per la stesura oppure si tratta di collegamenti arrivati in un secondo momento? Che peso ha avuto la formazione da drammaturgo sul romanzo? 

DP: Penso che sia successo in modo naturale, ogni storia ha i suoi riferimenti, ogni personaggio una sua atmosfera. Basquiat diceva che per la testa gli frullavano sempre le idee altrui.

E se si tratta di Pedro Almodóvar e Virginia Woolf, perché non fare riferimento a loro ogni volta che si può? Credo che il fatto che io mi occupi di drammaturgia mi abbia aiutato a costruire la storia del romanzo in questo modo, a sentirne la struttura. La drammaturgia si occupa degli elementi e del modo in cui comporli. Allo stesso tempo, credo che mi abbia aiutato il fatto di aver sviluppato un orecchio per la voce autentica del personaggio. In Figlio di papà ho poco spazio per il dialogo, per le descrizioni, perciò ogni frase pronunciata è molto importante per la costruzione del personaggio.

Figlio di papà Dino Pesut Sara Latorre
La traduttrice Sara Latorre con l’autore Dino Pešut a Zagabria (Sara Latorre)
Questo è un romanzo che ha scatti d’ira, momenti introspettivi, riflessioni taglienti più o meno lunghe, tanti dialoghi, moltissimo linguaggio gergale e non pochi anglicismi. Inoltre, tratta temi molto delicati e dolorosi in generale. Quali sono state le difficoltà principali nell’affrontare un testo del genere? Il fatto di appartenere alla stessa generazione dell’autore è stato d’aiuto?

SL: Parto dalla fine: io credo che questo romanzo non sarebbe stato tradotto in maniera adeguata se a lavorarci fosse stata una persona appartenente a un’altra generazione. La traduzione non è un’attività neutra ed è tanto metodica quanto viscerale, perciò il testo va sia destrutturato a livello linguistico che percepito a livello emotivo e psicologico. O, almeno, io me la vivo così.

Il fatto che io e Dino appartenessimo alla stessa generazione e fossimo ugualmente vicinә a tante tematiche ha fatto sì che io fossi la persona giusta per tradurlo, sì. Dal punto di vista linguistico, ero in grado di dare voce a un ragazzo della mia età e a tutte le sue turbe con un linguaggio credibile e naturale; dal punto di vista culturale, conoscevo il lessico della comunità queer e la cultura croata quanto serviva per regolarsi sulla traduzione di vari riferimenti.

A livello più strettamente traduttologico, è stato particolarmente divertente e impegnativo restituire lo stile di Dino, influenzato moltissimo dal suo lavoro di drammaturgo. In originale i personaggi si caratterizzano immediatamente in base al modo in cui parlano, perciò era fondamentale tradurre i dialoghi con delle voci specifiche che esprimessero i loro caratteri e le loro posizioni (anche mutevoli) nella vicenda, ma che fossero sempre naturali e realistiche. Anche la brevità delle frasi e l’utilizzo di espressioni sferzanti è qualcosa su cui ho dovuto lavorare, essendo la lingua di partenza e quella di arrivo ovviamente diverse nella loro struttura. 

Il narratore si descrive quasi subito come “pigro, senza etica professionale, con una bassa autostima, insicuro e pessimista”. Com’è stato avere a che fare con un protagonista del genere? Secondo voi è un atteggiamento generazionale? C’è un consiglio che vorreste dare a chi si immedesimerà nel protagonista?

DP: Credo che la generazione dei Millennial nei suoi anni di formazione sia stata spesso additata e tacciata di essere pigra, insicura e sensibile, pessimista. Ed effettivamente il mondo era così, era quello della crisi economica globale. Penso che il mio protagonista abbia interiorizzato tutto ciò. Perché, oggettivamente, lui lavora, lavora molto, è economicamente indipendente, altamente istruito. E il modo in cui vede se stesso spesso non è coerente con quello che fa. Credo che questa sia una crepa del tardo capitalismo. C’è sempre la sensazione che manchi qualcosa. 

Non mi piace dare consigli perché mi sembra che nessunә li ascolti mai. D’altronde, l’arte non è un’istituzione educativa ma, proprio al contrario, uno spazio di liberazione. Invece di dare consigli, spero che in questo personaggio qualcuno possa riconoscersi un po’, e che così il romanzo lanci un piccolo segnale di fumo: non sei solә. A volte basta questo.

SL: Il protagonista è un ragazzo talentuoso ma bloccato, un po’ dal disincanto nei confronti della realtà in cui vive e un po’ dai traumi familiari. Personalmente, gli ho voluto molto bene fin da subito, soprattutto perché è evidente che il cinismo e l’ironia amara che sfodera sono solo degli scudi per farsi meno male e che, in fondo, sta aspettando qualcuno o qualcosa che lo aiuti a ripigliarsi.

Credo davvero che tutte le persone della nostra generazione possano trovare in lui dei tratti in cui riconoscersi, in quanto la sua grande potenza come personaggio letterario è proprio essere un ragazzo normale. Posso dire che in questi tre anni di “conoscenza” mi sono accorta di essere cresciuta insieme a lui e di aver avuto uno sviluppo molto simile al suo. D’altronde l’ho detto subito a Dino quando ci siamo conosciuti: tu hai scritto di me e non lo sai neanche.

Nei ringraziamenti c’è scritto: “Grazie Sara, per avermi dimostrato che a volte bisogna seguire con coraggio un impulso, un’idea perché infine, oltre a questo libro, entrambi abbiamo unə nuovə amicə”. Quali sono gli aspetti più importanti e preziosi nel rapporto tra chi scrive e chi traduce, secondo voi? Com’è stato lavorare insieme? C’è un episodio che vorreste raccontare?

DP: Il rapporto tra scrittore e traduttrice (o tra scrittrice e traduttore, per essere inclusivә) è qualcosa che assomiglia stranamente a una relazione d’amore. Inizia dalla conoscenza e dall’innamoramento, poi c’è la fusione perché dove il romanzo si ferma in una lingua, inizia nell’altra. E tutto si basa sulla fiducia sconfinata e sull’abbandonarsi. Qualcuno ti prende per mano e dice, ehi, lascia che ti porti nel mio mondo. 

Ecco, sono caduto un po’ nel patetico e nel romantico. Nel concreto, lavorare con Sara è stato un privilegio incredibile. Mi ha contattato sui social, ha detto che voleva tradurlo e questo libro è tutto merito suo, e per questo le sono infinitamente grato. Abbiamo avuto una serie di discussioni interessanti ed è stato bellissimo vedere che qualcuno ha questo fuoco, talento e desiderio per una cosa tanto sottile quanto la traduzione dal croato. Ecco, un’altra battaglia contro la solitudine. E per questo, Sara, grazie.  

Adesso l’intervista passa a lei.

SL: Innanzitutto, questi ringraziamenti sono stati un bellissimo agguato! Me li sono trovati pubblicati, Dino li ha scritti a sorpresa mettendosi d’accordo con Elisa Copetti ed è stato un regalo meraviglioso di cui sono estremamente felice e grata. In generale, a me piace contattare subito l’autorә quando mi approccio a un testo perché, come ho già detto, la traduzione non è un atto neutro e voglio che la persona mi veda, mi conosca e si fidi di me.

Tra me e Dino è nata subito una bella sintonia proprio perché lui ha percepito l’amore sincero che io provo per questo testo e mi ha accordato fiducia quasi alla cieca, è stato subito collaborativo e aperto e mi ha trattata da pari. E perché ci piace Mahmood. Lavorare insieme è stato una gioia che spero si ripeta per tutte le opere della sua carriera. Gli aneddoti me li tengo, sono già troppo fangirl.

Si ringrazia Sara Latorre per la traduzione delle risposte di Dino Pešut.


Figlio di papà di Dino Pešut, traduzione di Sara Latorre, Bottega Errante Edizioni, 2024

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Giorgia Spadoni
Giorgia Spadoni

Traduttrice, interprete e scout letterario. S'interessa di storia e cultura est-europea, in particolar modo bulgara. Ha vissuto e studiato in Russia (Arcangelo), Croazia (Zagabria) e soprattutto Bulgaria, specializzandosi all'Università statale di Sofia. Tra le collaborazioni passate e presenti: East Journal, Est/ranei, le riviste bulgare Literaturen Vestnik e Toest, e l'Istituto Italiano di Cultura di Sofia. Nel 2023 è stata finalista del premio Peroto per la migliore traduzione dal bulgaro in lingua straniera e nel 2024 vincitrice del premio Polski Kot.