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Donja Gradina, l’altra Jasenovac

Il campo di concentramento di Jasenovac si trova in una posizione particolare, ovvero dove il fiume Una si tuffa nella Sava. Il punto segna anche il confine fra Croazia e Bosnia. Di fatto il parco memoriale che ricorda questo luogo è diviso fra i due paesi: solitamente con Jasenovac ci si riferisce a quello croato, mentre quello serbo-bosniaco è conosciuto in genere come Donja Gradina.

Nella parte di parco che si trova in Croazia si può arrivare con la macchina, lasciarla proprio davanti al museo, farsi una passeggiata, guardare un modellino che spiega come era organizzato il campo e poi, rientrando, farsi un giro nelle sale ben organizzate dello spazio museale. C’è anche un vagone di un treno, messo proprio al limitare del campo, prima del fiume. Se si guarda verso l’altra sponda, lo sguardo scruta già la Bosnia, o meglio quella che è una delle due entità politiche che la compongono, la Republika Srpska.

Se potessimo andare con lo sguardo oltre gli alberi che delimitano l’altra riva vedremmo aprirsi un ampio spazio verde, disseminato qua e là di qualche pannello esplicativo in pietra. Quello è il parco commemorativo di Donja Gradina, ovvero il parco serbo-bosniaco che ricorda, anch’esso, le vittime di Jasenovac. Lo abbiamo visitato.

Una passeggiata nel parco di Donja Gradina

Sono le 8:30 di un sabato mattina. Sul sito del parco c’è scritto che l’orario di apertura va dal lunedì al venerdì dalle 7 alle 15. Infatti siamo gli unici in tutta l’area. Ma è un parco aperto e si può visitare anche a quest’ora. Ci ricordiamo delle parole dell’amico Leonardo Barattin, che da anni organizza viaggi in questa zona, che ci aveva messo in guardia. “Se andate in primavera o in autunno, sarete assaliti dalle zanzare”. Facciamo quanto possibile con il repellente contro le zanzare e ci prepariamo a uscire dalla macchina.

Donja Gradina, Jasenovac, zone paludose
Zone paludose, dove un tempo di trovavano le fosse comuni (Meridiano 13/Gianni Galleri)

C’è un silenzio quasi irreale mentre ci avviciniamo alla zona alberata che di fatto segna l’ingresso in questo mondo del ricordo. Dei blocchi di pietra indicano la strada verso le aree dove un tempo si trovavano le fosse comuni. È proprio in questo terreno che le truppe ustascia occultavano i cadaveri, favoriti dall’isolamento dell’ansa del fiume, dalla quale avevano fatto evacuare le poche persone residenti. Entriamo nella parte più buia, coperto dagli alberi che nascondono la luce. Nonostante le nuvole formino una coltre, il sole si percepisce, ma non sotto le fronde, al riparo delle quali ci troviamo in questo momento. 

Arriviamo nel punto che avevamo già visto in alcune foto. Ci sono dei cartelli che annunciano il numero di morti. È una guerra delle cifre. Qui, nella parte serbo-bosniaca, si propende per il numero più alto: il cartello più grande dà il totale di 700mila caduti in tutto. Principalmente serbi (500mila), ma anche ebrei (33mila), rom (40mila) e antifascisti (127mila), che evidentemente devono essere principalmente croati o sloveni, altrimenti sarebbero nel novero dei serbi.

Ci fermiamo, stiamo per scattare una foto, ma quasi non facciamo in tempo a prendere il telefono che veniamo ricoperti da uno strato di zanzare. Sembra un’esagerazione, ma è così. Non si può stare fermi. Con il cappuccio copriamo la testa, perché ce le sentiamo camminare ovunque sulla pelle. Non possiamo rallentare che arrivano, oscurandoci quasi la visuale, ronzandoci davanti agli occhi, posandosi sulle mani scoperte. 

Donja Gradina, Fosse comuni
Cumuli dove si trovavano le fosse comuni (Meridiano 13/Gianni Galleri)

Iniziamo a camminare a passo spedito, seguiamo la strada, passiamo accanto alle diverse aree, tutte annunciate da degli imponenti lastroni di pietra lucida sui quali sono riportate citazioni e indicazioni solo in serbo-croato. Sembra come se il parco non fosse fatto per ospiti stranieri. Proviamo a leggere, ma la pietra riflettente rende difficile l’operazione e non possiamo fermarci, per non venire nuovamente attorniati da nugoli di zanzare molto aggressive.

Ci addentriamo ancora dentro la boscaglia. Ci sono zone paludose, che favoriscono la presenza di questi insetti. Non abbiamo il coraggio di immaginare che cosa potesse essere per i prigionieri durante il periodo in cui il campo era attivo. L’erba è verde di un colore davvero intenso, ci sono dei fiori spontanei qua e là, i prati sono ben tenuti, anche se le ultime settimane di maltempo hanno spezzato qualche ramo, che ora giace in mezzo ai sentieri sterrati e un po’ fangosi che attraversano l’area.

Intorno a noi ci sono solo i rumori della natura, con gli uccellini che cantano, qualche grillo che frinisce e, ogni tanto, un picchio che colpisce il legno con il caratteristico rumore: tun tun tun. Questi aspetti idilliaci cozzano tremendamente con quanto vediamo intorno a noi.

Alberi, dove un tempo si trovavano le fosse comuni (Meridiano 13/Gianni Galleri)

Le fosse comuni sono ovunque, segnalate da dei rigonfiamenti nel terreno. Da questa parte del fiume non c’è riconciliazione, non c’è perdono, non c’è vita insieme dopo la tragedia. È un luogo dove ognuno piange i propri, nell’intimità di ciascuna famiglia, di ciascuna etnia. Saliamo sul terrapieno che circonda tutta l’area. Da qui si gode di una vista d’insieme sui cumuli di terra. A pochi metri di distanza intuiamo il fiume scivolare, ma è completamente silenzioso.

Non possiamo fermarmi neanche qui, quindi proseguiamo a ritmi sostenuti, fino a delle scale in legno che ci riportano in basso. Il materiale organico scricchiola e si comprime sotto il nostro peso, è intriso di umidità, come tutto da queste parti. Non riusciamo a trovare il “pioppo dell’orrore” ai rami del quale venivano impiccati i prigionieri dopo le torture. Anni dopo la pianta è morta, ma il suo tronco è conservato a memoria di ciò che fu. L’area è vasta e non riusciamo ad orientarmi del tutto.

Non possiamo fermarmi, le zanzare non ci danno pace. Allunghiamo la camminata fino a uscire dalla zona alberata. Tornando in qualche modo sotto la luce del sole. In lontananza vediamo la macchina parcheggiata, sola come l’avevamo lasciata. C’è un filo di nebbia come quando il sole sta per spuntare dalla foschia prima di ripulire tutto.

Donja Gradina, pietra con testo di Tito
La pietra con la citazione di Tito (Meridiano 13/Gianni Galleri)

Adesso che siamo fuori dalla vegetazione e le zanzare sembrano essersi diradate, c’è tempo per leggere l’ultima scritta sul grande blocco di pietra. Non sappiamo chi abbia scelto questo modo di comunicare, ma non funziona. Frontalmente la pietra lucida riflette la luce e i caratteri scavati non emergono ma si confondono, bisogna porsi in diagonale. La frase dice: “Dobbiamo custodire la fratellanza e l’unità come la pupilla dei nostri occhi”. La citazione è di Tito.

Un accenno alla storia del campo di concentramento

Questo luogo di morte e disperazione ha rappresentato per anni uno dei punti focali della ricongiunzione emotiva dei popoli jugoslavi dopo la Seconda guerra mondiale. C’era da mettersi alle spalle quello che era successo. Ovvero, semplificando estremamente la questione, i croati al tempo riuniti sotto la bandiera dello Stato indipendente di Croazia (NDH, governo fantoccio di Italia e Germania) massacrarono un numero altissimo di serbi, insieme a ebrei, rom e antifascisti, anche di etnia croata. Con questo doveva fare i conti la nuova Jugoslavia dopo il secondo conflitto mondiale.

Quando la situazione era ormai compromessa gli ustascia distrussero quello che potevano, nel tentativo di cancellare ciò che non volevano che il mondo vedesse. Con la fine del conflitto alle famiglie che vivevano nella zona fu concessa la possibilità di prendere il materiale rimasto, viste anche le condizioni di estrema povertà in cui vivevano. A causa di questo vennero cancellate anche le ultime tracce di ciò che era stato. Poi per anni il luogo venne lasciato a se stesso, considerato quasi come maledetto.

Il Fiore di Jasenovac (Meridiano 13/Gianni Galleri)

La decisione di costruirvi un monumento che rendesse omaggio alle vittime arrivò molti anni più tardi. Si scelse la strada della riconciliazione, una via non scontata e disseminata di pericoli e trappole. Un fiore, opera dell’architetto Bogdan Bogdanović, fu posto a eterno ricordo di quanto era successo. Un museo completò l’area che subì diversi danni durante il periodo bellico degli anni Novanta.

La storia di Donja Gradina

La parte che oggi si trova in Croazia del campo di Jasenovac fu allestita a parco commemorativo negli anni Sessanta. La sezione che invece si trova in Bosnia Erzegovina, dove furono rinvenute più di cento fosse comuni, iniziò il processo per diventare una “componente museale” durante gli anni Settanta, raggiungendo però il suo scopo soltanto alla fine degli anni Ottanta. Al tempo tuttavia le due sezioni erano considerate una cosa sola. La fine della Jugoslavia portò anche alla divisione di questi due ambienti, che da un’origine comune intrapresero due strade indipendenti sotto molti punti di vista.

Adesso, a distanza di circa trentacinque anni, fra i due luoghi vi è quasi soltanto un blando riconoscimento dell’esistenza altrui. Scelte completamente diverse ne hanno orientato la comunicazione e l’organizzazione.

Donja Gradina, Jasenovac
L’erba verde e i fiori contrastano con il significato di questo luogo (Meridiano 13/Gianni Galleri)

Il grande disaccordo sul numero delle vittime

Il punto fondamentali, però, su cui verte il disaccordo fra i due parchi memoriali è il numero delle vittime. Premesso che stabilire una cifra definitiva non cambia assolutamente niente della mostruosità del luogo, nel corso del tempo ci sono stati diversi studi che hanno presentato una forbice fra 1,1 milioni e 30mila vittime. La cifra ad oggi ritenuta più attendibile è quella di 100mila morti, come riportato da molti studiosi, fra cui Pavlowitch, Higham, Hawton e Kovač, Dulić, Stone, Bartrop e Dickerman, Mikaberidze.

Lo storico croato-ebreo Ivo Goldstein riconosce in aggiunta quanto sia complicata una stima effettiva, poiché spesso gli ustascia non registravano i prigionieri, ma li portavano direttamente nei luoghi delle esecuzioni, gettando poi i cadaveri nel fiume Sava o bruciandoli nel crematorio del sito. Inoltre alla fine del conflitto distrussero fascicoli di registrazione in loro possesso. Nonostante ciò appare poco credibile il dato di 700mila morti, che viene comunicato con forza nel campo di Donja Gradina.

Sul numero di morti e sulla “pelle” di Jasenovac si sono sempre combattute guerre ideologiche. Gli anni Ottanta e i successivi sono diventati un nuovo terreno di scontro per chiunque volesse usare strumentalmente le vittime, in un verso o nell’altro: chi aumentando il numero, chi sminuendo quanto accaduto in quegli anni con documentari, articoli e studi ad hoc. Una totale riconciliazione è quasi impossibile, dal momento in cui né una parte né l’altra fanno gli interessi della storia, della memoria e delle vittime, ma solo quelli della rispettiva politica etnico-nazionalista.


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Gianni Galleri
Gianni Galleri

Autore dei libri “Questo è il mio posto” e “Curva Est” - di cui anima l’omonima pagina Facebook - (Urbone Publishing), "Predrag difende Sarajevo" (Garrincha edizioni) e "Balkan Football Club" (Bottega Errante Edizioni), e dei podcast “Lokomotiv” e “Conference Call”. Fra le sue collaborazioni passate e presenti SportPeople, L’Ultimo Uomo, QuattroTreTre e Linea Mediana. Da settembre 2019 a dicembre 2021 ha coordinato la redazione sportiva di East Journal.