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Panorama asiatico con elettrificazione (Meridiano 13/Matteo Pioppi)
L’area delle zone-orlo. Le ha definite così lo storico americano Alfred Rieber quando, a proposito dell’Eurasia, affermava che tutto attorno ad essa “si sviluppa il cosiddetto Rimland”1. Indubbiamente è un modo quantomeno affascinante per riuscire a orientarsi in questi territori che vivono di compressioni e decompressioni geopolitiche estremamente elastiche.
Almaty (Kazakhstan) e Biškek (Kirghizistan) sono su quel corridoio steppico che dal basso Danubio ha collegato per millenni l’Europa orientale alla Cina. Parliamo di un territorio che a ondate variabili andava dalla Polonia alla Muraglia Cinese e che solo l’Impero mongolo e i russi (zar e sovietici) sono riusciti a conquistare e a tenere unito. Un territorio, quello della steppa, non riducibile al solo nomadismo, bensì terra di pastori, di oasi, di pascoli verticali e di orde.
In questo nostro viaggio, però, è la cultura nomade a ritagliarsi una fetta importante di riflessioni, perché, come il paesaggio, è in sottrazione, scomparsa. Una cultura in opposizione a quella sedentaria, senza accumulo di proprietà, senza la necessità di distretti manifatturieri, senza palazzi di corte né palazzi del potere. Nella cultura nomade infatti il concetto di città è esistito solo dal momento in cui si doveva decidere quale saccheggiare, è stata più la costrizione alla mobilità ad aver segnato in modo strutturale, e per millenni, l’esistenza.
L’avanzata coloniale russa a partire dal 1800 (prima zarista, poi sovietica) ha di fatto annichilito il portato di questa cultura nomade mettendo in pratica diverse strategie (assimilazione zarista, epurazione sovietica), che però hanno avuto lo stesso punto di caduta: l’assoggettamento della popolazione e il suo sradicamento totale e irreversibile. Lo storico Nicholas Riasanovsky ha affermato che:
l’espansione russa nell’Asia centrale presenta notevoli affinità da un lato con le guerre coloniali condotte dagli europei e dall’altro con l’espansione americana del West.2
La storia di questo pezzo di mondo assomiglia a uno dei fiumi che lo solca, il Talas, che non ha foce e si perde, svanendo, assorbito dal terreno fra le paludi sabbiose del Kazakhstan.
Secondo Alfred Rieber i cosacchi erano “l’archetipo del popolo di frontiera delle terre euroasiatiche di confine”3. Furono loro infatti a fondare Almaty nel 1854, arrivavano da Omsk in Siberia. Fino a 170 anni fa al posto di Almaty c’era una tabula rasa.
La sua nascita non è affatto casuale, avviene nel momento esatto in cui l’avanzata zarista in Asia riesce a sottomettere le orde kazake. Inizia così la russificazione e l’europeizzazione culturale del Kazakhstan.
Fa impressione sapere che tutto quello che vediamo in Almaty è frutto di un’espansione coloniale e della sedentarizzazione di una popolazione nomade. Nel tempo della storia 170 anni equivalgono a uno spasmo notturno prima di addormentarsi, sono di una brevità che sfugge alla comprensione.
Almaty oggi sono i suoi palazzi, gli schermi luminosi con le pubblicità di bibite gasate, le macchine di lusso, il susseguirsi su enormi marciapiedi di parcheggi sharing di monopattini elettrici, le strade sempre piene, una vita da capitale pur non essendolo più dal 1997.
Nonostante la giovane età, è una città che ha avuto la sua prima rivolta a inizio gennaio 2022, quando l’aumento del prezzo del GPL ha dato il via alla guerriglia urbana. I manifestanti hanno attaccato e dato alle fiamme la sede del comune, altri palazzi governativi, banche e occupato l’aeroporto. L’aumento del prezzo del carburante è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso di un dissenso maggiore, che percepisce l’ingiustizia sociale, l’insicurezza lavorativa, la corruzione e l’inflazione come i problemi reali della società kazaka.
A proposito degli scontri, secondo il governo 164 persone sono morte durante le manifestazioni. Il ministero dell’Interno ha inoltre affermato che almeno 16 agenti delle forze dell’ordine sono stati uccisi e più di 1.300 feriti. Per reprimere le rivolte è intervenuto l’OTSC (Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva), un’alleanza militare composta da Russia, Belarus’, Armenia, Kazakhstan, Kirghizistan e Tagikistan. Il premier kazako ha più volte affermato che le proteste e le azioni violente sono state compiute da agenti stranieri e terroristi. E non poteva fare diversamente, perché in caso contrario avrebbe legittimato le proteste di piazza riconoscendo l’insofferenza generale, la rabbia sociale e lo scontento dilagante. Mostrando di fatto alla nazione l’esistenza di un forte problema interno, cosa che l’OTSC non può permettersi di riconoscere pubblicamente.
Noi siamo arrivati ad Almaty all’alba delle 4, la città già piena di luce e di gente per strada. Tutto attorno le montagne innevate del Ile-Alatau, propaggine più settentrionale della catena del Tian-Shan, risplendevano nella luce del mattino. Picchi altissimi, gonfi di neve, ghiacciai, verticalità.
Almaty è una città completamente nuova, persone giovanissime ovunque, pochissimi anziani in giro. Il tessuto urbano è connesso a un vasto e curato sistema di parchi, boschi di betulle centenarie e roseti, alberi dappertutto, anche nei cortili interni dei palazzi sovietici. Ombra generatrice e rinfrescante.
Sovietismi
Tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta del Novecento, gli edifici di Almaty, come quelli di molte altre città dell’Unione Sovietica, vennero decorati con mosaici e bassorilievi. Queste forme d’arte di Stato erano conosciute in russo come monumental’noe iskusstvo (arte monumentale). Ad Almaty ce ne sono di molto belli, spesso nascosti dietro agli alti alberi che coprono gli edifici: cosmonauti, animali, matrimoni e scene di vita tradizionale nomade.
Uno molto interessante è adiacente all’ingresso dell’hotel Almaty. Estremamente colorato e ricco di sfumature paesaggistiche, nel mosaico vengono rappresentati il mausoleo di Qoja Ahmet Yasaui di Turkistan, alcune yurte, un animale fantastico nel cielo (una sorta di leopardo alato), una mandria di cammelli al pascolo scortati da un pastore a cavallo e infine la città di Almaty. Una decina di metri più in là del mosaico, c’è una sorta di piccolo monumento commemorativo a Raqymjan Qoșqarbaev, storico ex direttore dell’Hotel Almaty fino al 1988.
Ma non solo. Leggendo sul monumento scopriamo che il 30 aprile 1945 alle 14:25 ora di Berlino Raqymjan Qoșqarbaev insieme a Georgij Bulatov piantò la bandiera della Vittoria sul Reichstag. Poi una sua testimonianza: “Siamo entrati nella città in fiamme. Sembrava di andare all’inferno. Muri di casa bruciati, crepe lasciate dalle esplosioni”. Tuttavia, al tenente non fu mai assegnato il titolo di Eroe dell’Unione Sovietica, fu bensì dichiarato eroe del Kazakhstan nel 2005.
Un kazako ha portato la bandiera rossa in mezzo all’Europa in fiamme.
Sempre sovietico è il Monumento per la vittoria della Grande Guerra Patriottica. Il monumento, già di per se d’impatto e molto scenico, si diffonde nello spazio con più livelli di lettura. Al centro c’è una statua dalla cubature monumentali che rappresenta i soldati sovietici all’attacco, sull’ala sinistra la commemorazione della rivoluzione 1917-1920, sull’ala destra quella della guerra 1941-1945. Poi di lato, defilati, ci sono cubi di granito nero dedicati alle città che si sono rese protagoniste: Leningrado, Minsk, Mosca, Murmansk, Smolensk, Volgograd e Kyiv. È una sensazione straniante vedere qui la storia fotografata in questo modo indelebile (nel granito nero), alla luce di un presente che si mostra così distante da allora.
Di sera, vecchi russi ubriachi camminano a braccetto sugli stessi marciapiedi in cui giovani kazaki sfrecciano su monopattini elettrici.
Eurasia
Non esiste miglior parola che questa per definire Almaty. La composizione della società kazaka è indubbiamente multiculturale, i visi che si incrociano nulle metro, in giro per strada, al ristorante, nelle piazze e in ogni luogo di aggregazione, fanno si che l’idea identitaria di composizione della società sia una conquista ambita solamente alle nostre latitudini. Kazaki, russi, uzbeki, uiguri, ucraini, polacchi, tatari, bielorussi, coreani, armeni, greci di Crimea, ceceni, tedeschi del Volga. Solo per citarne alcuni. Al Museo centrale statale del Kazakhstan, per ognuna di queste minoranze è dedicato uno spazio con i costumi tradizionali e una breve spiegazione di come mai quella comunità viva lì.
La società kazaka è composta dagli eredi delle diaspore dei popoli che nel Novecento hanno trovato rifugio e futuro proprio in Kazakhstan. Dalle diaspore delle guerre coloniali alle diaspore delle guerre mondiali alle tante tribù di origine turca e mongola. Tutti questi popoli hanno in comune il portato intergenerazionale del trauma.
In questa multiculturalità il Kazakhstan forse racchiude in se quello che è oggi il concetto condensato di Eurasia, a cavallo di due mondi. Sulla metro di Almaty, dai visi che si incrociano, ogni tanto sembra di stare a Varsavia anziché in una città a poco più di trecento chilometri dalla Cina.
Per approfondire questa regione, visita la nostra sezione sul Kazakhstan!
Almaty asiatica
Ciò che rende invece asiatica Almaty è la consistenza del cielo e della luce. Il sole rimane spesso coperto da una coltre di nuvole basse e bianche, una specie di cielo pari che rischiara presto all’alba e altrettanto presto tramonta la sera.
La luce urbana dell’Asia centrale è quella che si riflette sul cemento dei palazzi sovietici, ed è simile nella città uzbeke, kazake e kirghise, una sorta di idealtipo del paesaggio urbano asiatico. Un po’ come la luce che c’è a Venezia, a Pola e a Zara, si riflette sempre allo stesso modo perché arriva diretta sulla pietra d’Istria dei palazzi veneziani, e si potrebbe affermare che questo è allo stesso modo un idealtipo delle città urbane adriatiche. È lo stesso cielo, lo stesso mare, la stessa pietra.
Avtovokzal Sairan
Tole bi street, angolo stazione degli autobus (Avtovokzal Sayran), Almaty (Meridiano 13/Matteo Pioppi)
Dalla stazione degli autobus di Almaty partono i mezzi per i paesi confinanti, anche per la Cina. Almaty – Ürümqi impiega 20 ore per fare 1130 chilometri. Un tempo capitale del Turkestan orientale, oggi capitale del distretto autonomo dello Xinjiang. Tutto qui richiama legami culturali oltre i confini moderni.
Al piano terra della stazione ci sono due ristoranti, un bar, due alimentari e una farmacia. Al primo piano, in un’unica stanza enorme totalmente vetrata, l’unica offerta commerciale sono una serie identica di negozi che vendono abbigliamento militare. Ce ne saranno una ventina, tutti uguali, tutti con la stessa merce. Tutti tranne uno, in una piccola bottega una sarta cuce toppe sulle divise. Dal soffitto pendono enormi radiatori spenti che lo fanno assomigliare a un’astronave aliena. Dalla terrazza del primo piano che si affaccia sulla città c’è l’hotel dell’autostazione, una ragazza svogliata con tatuaggi e piercing guarda lo smartphone da dietro la reception.
Attorno alla stazione, cantieri ovunque come dappertutto in città, sembra di essere a Berlino venti anni fa. I palazzi sovietici attorno sembrano essere tenuti insieme con la colla, appaiono di una fragilità unica. Troppo effimeri per resistere a questo nuovo clima, sembrano sgretolarsi sotto i colpi dell’erosione solare.
Oltre la stazione, sulla sinistra, nuovi quartieri in espansione, nuovi condomini e grattacieli, gru a perdita d’occhio e betoniere nel traffico. In un lago prosciugato dai lavori, due bambini pescano in una pozza rimasta. In lontananza, un camion attraversa lo spazio sollevando lo stesso quantitativo di polvere di un’orda kazaka al galoppo.
Asy Plateau, Parco naturale dell’Ile-Alatau
La strada per arrivare all’Asy Plateau è una pietraia di venti chilometri in salita, ai lati della strada quando va bene pareti di rocce franate, quando va meno bene, dirupo sul niente. Il manto stradale sono lastre di roccia viscida, buche colme d’acqua, fango, pietre acuminate e ruscelli d’acqua che vengono giù in mezzo alla strada.
Mentre saliamo con il fuoristrada incrociamo un camioncino poco più grande di un Porter con cinque tori nel cassone, a guidare il mezzo un eroe. Attorno è un susseguirsi di valli verdi, pascoli di cavalli, bovini e pecore. L’acqua color argento delle rapide rimbalza tra rocce rosse, ferrose e possenti. Ai lati vette altissime innevate e ghiacciai. Un paesaggio senza strutture ricettive (al massimo si può dormire in qualche campo di yurte), non esistono impianti di risalita, punti ristoro, info point, bar, ristoranti, distretti commerciali e momenti di ostentata inclusione. È solo potenza dalla natura, in tutta la sua bellezza e ruvidità.
Una volta valicato il passo arriviamo a quota tremila metri e il plateau si svela in tutta la sua immensità. Tutto attorno montagne immense che si stagliano ancora più in alto e imponenti a perdita d’occhio. Camminiamo su prati di erba verde estesi per chilometri e poi oltre ancora senza soluzione di continuità. Un colpo d’occhio verso qualcosa che concretamente assomiglia all’infinito. Difficile riuscire a restituire le dimensioni colossali di questi spazi. Ed è tutto pascolo quello che vediamo, un pascolo enorme e sconfinato.
Ci sono zone in cui il manto delle montagne si tinge di blu, è il nontiscordardimé che ricopre per interi chilometri la superficie erbosa come un moto ondoso che dipinge le valli e le creste di queste montagne disabitate. La presenza umana è relegata a qualche yurta di pastori sparsa qua e là. Dai camini delle stufe esce fumo denso, i cani a fare da guardia al pascolo, una Lada Niva parcheggiata vicino, i pastori a cavallo sui versanti più ripidi intenti a recuperare gli animali spintosi troppo in là.
È uno scenario ancestrale, ciclopico, con cubature estreme di vuoto e di assenza. Tutto ciò che vediamo è in sottrazione, impossibile non fare paragoni tra la nostra modernità e questo posto bloccato in un tempo che non ha memoria di sé.
Ed è il tempo della conservazione, della ruralità, delle stagioni, scandito dal ciclo di vita animale, che tiene in considerazione la carnalità dei corpi dei puledri e dei vitelli che giovani corrono su questo altipiano. Qualcosa di estremamente primordiale. È un tempo prepolitico che disorienta.
Sull’Asy Plateau è viva più che mai l’immagine che abbiamo da sempre coltivato dei pastori nomadi sperduti sugli altipiani dell’Asia centrale.
Breve bibliografia
Il battello bianco, Čingiz Ajtmatov, Marcos y Marcos, 2007
Occhio di cammello, Čingiz Ajtmatov, Besa Muci, 2020
Popoli della yurta. Kazakhstan, tra le origini e la modernità, Fiorenzo Facchini (a cura di), Jaca Book, 2008
Russia. Storia di un impero euroasiatico, Aldo Ferrari, Mondadori, 2024
Kazakhstan, Centro dell’Eurasia, Fabio Indea, Sandro Teti, 2014
Est/Ovest, Edigio Ivetic, Il Mulino 2022
Tra i kirghisi del Pamir Alaj. Alle periferie dell’eurasia e nelle derive della modernità, Iogr Jelen, Forum – Editrice Universitaria Udinese, 2002
Nostalgistan. Dal Caspio alla Cina, un viaggio in Asia centrale di Tino Mantarro, Ediciclo, 2019
Asia Centrale, Lonley Planet, 2018
CCCP Cosmic Communist Construcions Photographed, Frédéric Chaubin, Taschen, 2020
Classe 1983, attualmente faccio il libraio e vivo a Genova. Nel 2012 a Bologna ho fondato Bébert Edizioni. Successivamente ho fatto parte della redazione di Qcode Magazine. Con la raccolta di racconti "Geografie" nel 2020 ho vinto il Premio Navile – Città di Bologna. In passato ho collaborato con Fatto Quotidiano e Osservatorio Balcani Caucaso.