Come potrai immaginare, questo progetto ha dei costi, quindi puoi sostenerci economicamente con un bonifico alle coordinate che trovi qui di seguito. Ti garantiamo che i tuoi soldi verranno spesi solo per la crescita del progetto, per i costi tecnici e per la realizzazione di approfondimenti sempre più interessanti:
IBAN IT73P0548412500CC0561000940
Banca Civibank
Intestato a Meridiano 13
Puoi anche destinare il tuo 5x1000 a Meridiano 13 APS, inserendo il nostro codice fiscale nella tua dichiarazione dei redditi: 91102180931.
Sono le parole di Italo Calvino le prime che mi sono venute in mente quando mi sono imbattuta nella lettura de La mia casa altrove, romanzo d’esordio di Federica Marzi, edito da Bottega Errante. Forse perché questa massima di Calvino mi accompagna ormai da anni, risuona nella mia testa ogni volta che mi chiedo dove sto bene, dove mi sento a mio agio, dove voglio vivere; o perché rispecchia perfettamente la sensazione che mi ha lasciato il romanzo di Marzi, tra le cui pagine la citazione acquista un nuovo significato: dove, quando e per quanto ci si sente stranieri? E per quale ragione uno dovrebbe trovare naturale vivere da straniero?
«Ma come? Non dicevi sempre che Trieste è casa tua?».
«Infatti. Lascio casa mia».
«E non ti mancherà?».
«Certo. Ma da una casa, se è casa tua, puoi anche andartene».
Una casa sul confine orientale
Due destini che si incrociano in un’emblematica città di confine: Trieste. Due generazioni, due momenti storici, due storie diverse ma con tanti piccoli denominatori comuni: la fuga, l’emigrazione, la nostalgia, il sentimento di estraneità in un luogo altro, il peso del passato, la voglia di scegliere e rifarsi una vita, il silenzio forzato; e un’emblematica città di confine.
Amila è una giovane bosniaca di Zvornik, una profuga che giunge a Trieste da adolescente per scappare dalle guerre che infuriano nei Balcani negli anni Novanta; Norina è un’esule istriana di Buie/Buje arrivata a Bristie/Brišče, nei pressi di Trieste, durante l’esodo giuliano dalmata degli anni Cinquanta. Il loro incontro avviene sul confine orientale, un confine che ancora oggi ha un peso e che, nella storia narrata da Marzi, spinge le due donne a fare i conti con la Storia e con la Geografia che interferisce nelle loro vite.
Che fate? Rimanete per stare attaccati a una tomba? Che fate? Rimanete per poi rimpiangere di non essere andati come gli altri? Che fate? Volete vivere da stranieri in un nuovo paese? O volete vivere da stranieri in un paese che ora immaginate di avere il diritto di chiamare vostro? No, non vostro. Siete voi che ora appartenete a lui. Di diritto. Vi lasciano entrare. Vi lasciano passare. Andate in Italia. Ora o mai più.
Trieste non è però solo il punto d’incontro dei personaggi di La mia casa altrove, bensì una delle protagoniste di questa storia. Si tratta di un luogo italiano periferico, citato spesso e volentieri solo per additare a quel confine orientale che se ne sta lì a guardare qualcosa che forse non esiste più, almeno in superficie, ma che è ancora vivo e sentito soprattutto per chi l’ha vissuto sulla propria pelle o attraverso i racconti dei propri familiari.
Il Territorio Libero di Trieste e il destino di Norina
Quell’angolino a punta che ogni italiano conosce grazie a una canzone di Raffaella Carrà del 1978 e che si trova nel bel mezzo del meridiano 13, è un punto d’incontro di culture – latina, slava e germanica – nonché luogo ideale per soffermarsi a riflettere sulla Storia italiana ed europea. Marzi lo fa attraverso i pensieri dolorosi di Norina, i ricordi di un amore perduto e di una famiglia divisa a causa di quella che viene chiamata ancora oggi “questione triestina”.
La Trieste degli anni Duemila che ci accompagna silenziosa nella lettura di La mia casa altrove è un territorio che, diventato porto libero nel lontano 1719, fece parte dell’Impero austro-ungarico, del Regno d’Italia, della Germania nazista e – prima di ritornare definitivamente italiano nel 1954 – venne amministrato dalle potenze militari alleate e dalla Jugoslavia sotto quello indicato dall’articolo 21 del Trattato di Parigi del 1947 come “Territorio Libero di Trieste” (TLT). Di fatto, un territorio indipendente mai costituitosi.
Nell’attesa, infatti, della creazione degli organi costituzionali, il territorio fu provvisoriamente diviso in due da un confine passante al sud del comune di Muggia: la zona A, amministrata dalle forze militari alleate (Stati Uniti, Regno Unito), comprendeva i comuni di Duino-Aurisina, Sgonico, Monrupino, Muggia, San Dorligo della Valle, nonché la città e il porto libero internazionale di Trieste; la zona B, amministrata dall’esercito jugoslavo, includeva invece la parte nord-occidentale dell’Istria ed era a sua volta divisa fra i distretti di Capodistria e Buie/Buje (il cui torrente Dragogna/Dragonja ne segnava il confine fra le repubbliche jugoslave di Croazia e Slovenia).
Nell’ottobre del 1954, a seguito di alcuni violenti scontri avvenuti l’anno prima di cittadini che reclamavano la riunificazione di Trieste all’Italia, venne firmato il memorandum d’intesa di Londra. Il documento, i cui confini tra Italia e Jugoslava vennero consolidati ufficialmente con il trattato bilaterale di Osimo nel 1975, prevedeva la spartizione del TLT tra i due paesi con il passaggio dell’intera zona A all’amministrazione civile italiana.
La storia di Norina si inserisce proprio in questo contesto burrascoso, quando ebbe luogo l’esodo di massa giuliano dalmata e migliaia di italiani dovettero lasciare la loro terra natia nella zona B, passata sotto il controllo jugoslavo. Una migrazione che vide diverse centinaia di persone varcare un confine così vicino, quanto ignoto. Abbandonando la propria vita e la propria casa per cercare di sbarcare il lunario in un campo profughi (quello di Padriciano), questa gente perse inevitabilmente il contatto con la realtà, faticando a trovare quella ‘naturalezza’ nel vivere come uno straniero.
«Volarìa andar vìa anca mi» rivelò alla zia con un filo di voce. Perché era questo che voleva. Partire anche lei. «Ma co i veci come fasso?». «Andar, andar!» tuonò Antonia. «Perché, no semo andati duti quanti? Fichitelo ben in testa». Norina spalancò gli occhi. «El punto no xe andar; xe restar». Restare per fare cosa?
Norina non trova pace nemmeno dopo essersi costruita una vita col marito a Bristie: il passato, i rimorsi, le cose non dette la turbano all’infinito.
La Bosnia dilaniata dalla guerra di Amila
«Ma si può sapere perché le interessano tanto i serbi?» le chiese con un ghigno. «Lei non è una di loro»
Amila si sentì incastrata alla sua appartenenza etnica come una farfalla al chiodo. «Le vittime non sono più serbe, croate o musulmane. Sono solo vittime».
Quella di Amila è una storia di appartenenza, di identità. La ragazza respira la Bosnia natale giorno dopo giorno all’interno della sua famiglia, che si ostina a tornare ogni estate nella patria di nascita, a Zvornik (località assimilata alla Repubblica serba di Bosnia durante la guerra degli anni Novanta) nonostante la decisione del padre di intraprendere una nuova vita a Trieste, lontano da quella guerra fratricida insensata. Due patrie, quindi, convivono e si scontrano in Amila: quella di nascita e quella che l’ha accolta. Luoghi che non ha avuto il privilegio di scegliere.
Perché non era più questione di affermare un diritto di scelta, ma di scegliere. Non era volere, ma sapere. Sapere che cosa stesse sempre nel mezzo. Le sembrava che ciò si potesse chiamare stranezza. O, meglio, stranieritudine, che nel suo caso si sarebbe dovuta scrivere con due “t”. Un misto di stranieraggine e rettitudine. Quella era lei. C’era tutto lì dentro, di sé, della sua famiglia, della sua storia. Voleva sapere che cosa fosse l’inquietudine dell’indecisione, del volere ma non riuscire mai a prendere una direzione netta. Eppure non si poteva vivere andando contemporaneamente in due direzioni, questo era chiaro.
E mentre i genitori comunicano ancora in quella lingua oltreconfine che in lei si mescola all’italiano e ai dialetti della zona, in una realtà caratterizzata da identità molteplici e plurilinguismo, Amila lotta con tutta se stessa per sentirsi legata a un unico luogo e vivere – anche da straniera – in un posto che può chiamare “casa”. Ma per farlo, dovrà fare un tuffo nel passato.
L’occasione le si presenta con Norina. Ormai anziana, la donna è alla ricerca di un aiutante che possa fare compagnia al marito malato, Mariano, e occuparsi delle faccende domestiche della sua casa nel Carso. Amila trova così la scusa perfetta per rimanere a Trieste durante l’estate, (s)fuggendo al suo dovere di figlia bosniaca che segue la famiglia a Zvornik, ma non sapendo che il fantasma del confine orientale è lo stesso che si aggira nella casa sul Carso di Norina e Mariano: un uomo chiamato Franjo Radonić, una sorella partita per l’Australia e un giovane nipote in arrivo da Melbourne alla ricerca delle propri origini legheranno per sempre i destini di Norina e Amila.
Traduttrice e redattrice, la sua passione per l’est è nata ad Astrachan’, alle foci del Volga, grazie all’anno di scambio con Intercultura. Gli studi di slavistica all’Università di Udine e di Tartu l’hanno poi spinta ad approfondire le realtà oltrecortina, in particolare quella russa e quella ucraina. Vive a Kyiv dal 2017, collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso, MicroMega e Valigia Blu. Nel 2022 ha tradotto dall’ucraino il reportage “Mosaico Ucraino” di Olesja Jaremčuk, edito da Bottega Errante.