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La carestia nella Moldova sovietica: fame, repressione e resistenza nel secondo dopoguerra

Con l’approfondirsi della conoscenza dei tragici fatti che segnarono il Novecento sovietico, negli ultimi anni è cresciuta in modo significativo la consapevolezza, lo studio e anche la politicizzazione della grande carestia che colpì l’Ucraina tra il 1930 e il 1933. Questo evento drammatico, causato principalmente dalle politiche staliniane con l’intento di sterminare parte della popolazione ucraina, è oggi noto come Holodomor o “grande fame” e viene riconosciuto da numerosi paesi e istituzioni internazionali come un genocidio.

Tuttavia, si conosce ancora molto poco riguardo alla carestia che investì la Repubblica socialista sovietica (Rss) ucraina subito dopo la Seconda guerra mondiale e che colpì anche la neonata Rss di Moldova.

Questo episodio di carestia di massa rappresenta uno degli aspetti meno conosciuti del terrore di Stato sotto Stalin: una tragedia postbellica rimasta per decenni nell’ombra, sia a livello nazionale che internazionale. Per molti anni, infatti, la carestia del 1946-1947 fu un argomento proibito. Fu solo con la perestrojka con Michail Gorbačëv, alla fine degli anni Ottanta, che la questione tornò al centro del dibattito pubblico, anche grazie all’apertura degli archivi, che permise finalmente agli storici di ricostruire questi eventi e dar loro una voce.

Un progetto dell’Archivio di Stato moldavo, insieme ad altri eventi di commemorazione pubblica nella piccola repubblica, ci permette di fare luce su questo tragico capitolo della sua storia recente.

Raccolta di cereali nel distretto di Chişinǎu, 1947 (Archivio Nazionale della Repubblica di Moldova)

La carestia nella Moldova sovietica: una tragedia a lungo taciuta

La Repubblica socialista sovietica di Moldova fu istituita nel secondo dopoguerra in un contesto profondamente segnato dalle politiche staliniane e dalle trasformazioni radicali imposte dal regime sovietico. Il territorio su cui si fondava, parte della Bessarabia, era stato annesso dall’Unione Sovietica nel 1940 e successivamente riconquistato nel 1944, dopo l’occupazione tedesco-romena.

Durante la Seconda guerra mondiale, i crimini nazisti, perpetrati in collaborazione con il regime del generale romeno Ion Antonescu, furono particolarmente gravi in Moldova. Chișinău fu pesantemente danneggiata dai combattimenti, e in particolare la popolazione ebraica subì violenti massacri. Le forze dell’Asse, alleate del governo romeno, deportarono migliaia di ebrei, rom e oppositori politici, soprattutto dalla regione della Transnistria, già parte dell’Unione Sovietica dal 1924, dove si verificarono atrocità su larga scala.

La popolazione locale, già stremata da anni di guerra, fu ulteriormente sottoposta a un processo forzato di sovietizzazione che comportò la riorganizzazione territoriale, la collettivizzazione dell’agricoltura, la repressione del dissenso e deportazioni di massa verso la Siberia e altre regioni remote dell’Urss. In questo scenario già estremamente difficile, tra il 1946 e il 1947, la Moldova visse una delle peggiori carestie documentate della sua storia.

Nell’estate del 1946, la Moldova sovietica, come altre regioni dell’Europa centro-orientale, fu colpita da una delle peggiori siccità del secolo, conseguenza di anni di scarse precipitazioni. Nonostante il disastro ambientale in corso, il regime sovietico impose ai contadini durissime quote obbligatorie di grano, valide anche per l’anno successivo.

Oltre al grano, furono requisiti altri prodotti fondamentali come patate, carne, latte, lana e semi di girasole, lasciando ben poco per il consumo locale. Tra l’altro, un’agricoltura ancora scarsamente meccanizzata non riusciva a far fronte alla crescente domanda di prodotti alimentari.

Contadini consegnano il grano alle autorità locali, Chişinǎu, 1947 (Archivio Nazionale della Repubblica di Moldova)

In particolare, nel biennio 1946-47 furono destinate ingenti risorse all’espansione dei vigneti, considerata una priorità del primo piano quinquennale del dopoguerra per il territorio moldavo, a discapito della coltivazione di piante più necessarie all’alimentazione della popolazione locale.

L’operazione fu gestita dal Partito Comunista e dalle istituzioni statali con l’appoggio di attivisti locali e dei capi dei soviet di villaggio. Secondo la versione ufficiale, le coltivazioni servivano a creare riserve strategiche, utili a rafforzare la posizione e il prestigio dell’Urss sulla scena internazionale. Tuttavia, la distribuzione degli aiuti alimentari seguiva rigidi criteri sociali: funzionari statali, militari, studenti e bambini ricevevano tessere per accedere al pane e ai beni essenziali, mentre la popolazione rurale ne restava spesso esclusa.

Lo Stato tentò di arginare l’emergenza aprendo mense pubbliche, prestando grano e attivando ambulatori, ma gli aiuti si rivelarono largamente insufficienti.

La crisi fu tale che molte famiglie furono costrette a macellare il proprio bestiame per sopravvivere. Numerosi studenti abbandonarono le scuole, mentre aumentarono i tentativi di fuga verso la Romania. I tassi di criminalità crebbero drasticamente: si moltiplicarono furti, rapine e persino omicidi. Si registrarono anche casi di cannibalismo.

Distribuzione dei 153 casi di cannibalismo documentati nella Rss Moldava (Archivio Nazionale della Repubblica di Moldova)

I bambini furono tra le vittime più vulnerabili del disastro: molti persero entrambi i genitori, centinaia di migliaia rimasero senza casa o vennero cresciuti da madri sole, con un conseguente aumento dell’abbandono minorile. Oltre a ciò, la scarsità di cibo e le pessime condizioni igienico-sanitarie favorirono la diffusione di malattie contagiose, contribuendo ulteriormente all’aumento del tasso di mortalità.

Le conseguenze di quella tragedia furono devastanti anche sul piano culturale: la fame cancellò una parte della cultura materiale e spirituale dei moldavi, lasciando cicatrici profonde nella memoria collettiva.

Le ragioni della politica sovietica

Secondo l’Archivio centrale della Moldova, la carestia del 1946-47 rappresenta una delle più gravi catastrofi umanitarie del XX secolo sul territorio dell’attuale Repubblica di Moldova. Non si trattò di una calamità naturale inevitabile, ma di una tragedia amplificata dalle politiche autoritarie e repressive del regime sovietico.

I dati ufficiali parlano di oltre 123mila morti per fame in pochi mesi, pari a circa il 5% della popolazione della Repubblica Socialista Sovietica Moldava. In termini proporzionali, la Moldova fu la regione più colpita di tutta l’Unione Sovietica, con un tasso di mortalità dieci volte superiore a quello della Russia e cinque volte superiore a quello dell’Ucraina.

Questa cartina evidenzia la gravità della carestia nella Moldova sovietica. In rapporto alla popolazione, nella Rss Moldava il numero di morti causate dalla fame e dalle malattie ad essa connesse fu dieci volte superiore a quello della Rss Russa e cinque volte superiore a quello della Rss Ucraina (Archivio Nazionale della Repubblica di Moldova)

Secondo Igor Cașu, storico e direttore del Centro nazionale degli archivi della Moldova, le differenze nei tassi di mortalità tra le repubbliche sovietiche sono da ricondurre, in primo luogo, al fatto che la maggior parte del territorio della Rss moldava non era ancora stata collettivizzata al momento dello scoppio della carestia.

Le politiche di collettivizzazione, avviate con particolare durezza proprio in quel periodo, aggravarono notevolmente la situazione.

Inoltre, la Moldova era una repubblica di confine, annessa solo pochi anni prima, e appartenuta a uno Stato, la Romania, che durante la guerra si era schierato con la Germania nazista. Per questo, le autorità sovietiche adottarono misure particolarmente severe, gestendo le requisizioni con modalità ancora più brutali rispetto ad altre regioni.

Lo storico sottolinea anche che la carestia in Moldova, come in Ucraina e in Russia, fu il risultato diretto di decisioni prese a Mosca, in particolare da Stalin, che era perfettamente informato sulla gravità della situazione nei territori colpiti, già prima e durante il picco della crisi alimentare. Lo dimostrano non solo gli archivi di Chișinău, ma soprattutto i documenti della polizia e dei servizi segreti (NVKD e poi KGB) conservati a Mosca, che confermano come la leadership sovietica fosse consapevole delle conseguenze delle proprie scelte.

Infatti, pur riconoscendo che il regime sovietico fornì una certa forma di assistenza alla Rss moldava, il numero  straordinariamente alto di vittime (più di 100mila persone) solleva interrogativi inquietanti sulle reali intenzioni delle autorità nei confronti di una regione considerata ancora “sospetta” e “instabile” dal punto di vista politico e nazionale.

Per di più, nel timore di apparire debole agli occhi della comunità internazionale, il governo sovietico non solo rifiutò ogni offerta di aiuto esterno, ma continuò anche a esportare cibo verso altri paesi, contribuendo così a prolungare e aggravare la catastrofe.

Alla luce di tali dati, Cașu sostiene che la carestia del 1946-1947 in Moldova, Ucraina e Russia debba essere considerata come una carestia evitabile, causata da scelte politiche deliberate e da una negligenza criminale da parte dello Stato sovietico.

La resistenza antisovietica

La carestia del 1946-1947 non fu soltanto la conseguenza delle fallimentari politiche agricole dell’Unione Sovietica, ma anche uno strumento deliberato di repressione politica.

Un popolo affamato, fisicamente debilitato ed emotivamente distrutto aveva infatti minori possibilità di opporsi al regime e di resistere alla collettivizzazione forzata, imposta con brutalità in una regione come la Moldova, a forte vocazione agricola. La fame, insieme alle deportazioni e alla violenza sistematica, contribuì a creare un clima di terrore funzionale al consolidamento del controllo autoritario.

Tuttavia, proprio in questo clima di terrore, tra il 1946 e il 1951, si svilupparono diversi gruppi di resistenza armata e clandestina. Pur indebolita, la popolazione moldava non era completamente assoggettata, e in alcune aree,  soprattutto nelle zone rurali del centro-nord del paese, il malcontento raggiunse livelli tali da spingere individui e comunità a forme di opposizione.

La fame, le deportazioni e la repressione sistematica non solo piegarono, ma in certi casi radicalizzarono la risposta di chi vedeva nella resistenza l’unica possibilità di sopravvivenza e dignità.

Già nel primo anno di occupazione sovietica della Bessarabia, il 1940, funzionari del vecchio regime zarista e del regno rumeno furono oggetto di repressione da parte dell’NKVD, la polizia politica sovietica. Per esempio, tra le prime vittime si annoverano gli ex membri dello Sfatul Țării, il parlamento moldavo che nel 1918 aveva votato per l’unione con il regno di Romania. Molti furono fucilati, altri deportati in Siberia, dove morirono a causa della fame, delle malattie o per sfinimento.

Alla fine del 1949, la campagna di collettivizzazione aveva già coinvolto circa l’80% del settore agricolo moldavo. Questo risultato fu raggiunto anche attraverso metodi coercitivi, come le deportazioni: circa 35mila persone furono trasferite con la forza in Siberia e in Kazakhstan durante l’Operazione “Sud”, avviata nel luglio 1949 dal ministero della Sicurezza dello Stato dell’Urss.

Le vittime erano principalmente contadini etichettati come kulaki, ovvero benestanti, accusati di ostacolare la collettivizzazione e di nutrire sentimenti ostili nei confronti del potere sovietico. L’obiettivo delle deportazioni era chiaro: distruggere l’élite rurale e annientare ogni forma di potenziale resistenza al cambiamento imposto.

Una pratica analoga fu attuata anche in altre repubbliche sovietiche, in particolare nelle repubbliche baltiche, nell’Ucraina occidentale e nella Belarus’ occidentale, dove le autorità sovietiche colpivano le categorie considerate “problematiche” attraverso la deportazione forzata, uno strumento privilegiato per smantellare il tessuto sociale preesistente e imporre il nuovo ordine politico ed economico.

La resistenza antisovietica nella Rss moldava, ancora poco approfondita dagli studi, nacque nella seconda metà degli anni Quaranta come reazione spontanea ma significativa alla repressione, alle carestie e alle deportazioni, rappresentando un chiaro rifiuto della sovietizzazione forzata. Tra i principali movimenti si ricordano l’“Armata Neagră”, la “Sabia Dreptății”, gli “Arcașii lui Ștefan” e la “Vocea Basarabiei”, composti principalmente da insegnanti, studenti e contadini. Le loro azioni spaziavano dalla diffusione di volantini e messaggi clandestini fino a vere e proprie operazioni di sabotaggio.

L’obiettivo comune era resistere al regime sovietico, difendere l’identità nazionale e preservare una forma di autonomia culturale e politica.

La risposta sovietica fu immediata e violenta. L’NKVD, predecessore del KGB, attuò un’estesa operazione di sorveglianza, infiltrazione e repressione. Nel maggio del 1950 iniziarono gli arresti dei membri della “Sabia Dreptății”, alcuni dei quali furono catturati nei propri villaggi o durante gli esami scolastici.

Il 24 novembre dello stesso anno, la Corte Suprema sovietica condannò dieci membri del gruppo per attività antisovietiche: alcuni furono fucilati, altri deportati nei gulag. In totale, circa quaranta persone furono condannate a 25 anni di lavori forzati.

Un’ulteriore ondata repressiva si abbatté nel febbraio 1951, con nuovi processi contro simpatizzanti e sostenitori del gruppo. Sempre nel 1951, fu organizzata una seconda deportazione, di minore entità ma altrettanto significativa, che coinvolse circa 2.480 membri della comunità dei Testimoni di Geova, accusati di professare una fede incompatibile con l’ideologia comunista e di mantenere contatti con potenze straniere.

Nonostante la resistenza organizzata fosse stata sradicata entro l’anno attraverso arresti, deportazioni e condanne, la memoria di quei movimenti, delle loro lotte e dei loro sacrifici, rimane un elemento centrale della storia moldava del dopoguerra. L’opposizione alla sovietizzazione rappresenta una pagina cruciale della storia della Moldova, testimoniando la capacità della popolazione di resistere anche nei momenti più oscuri del dominio sovietico.

Il peso della memoria: ricordi condivisi o conflittuali?

In un contesto in cui la narrazione ufficiale sovietica occultava o minimizzava sistematicamente gli orrori causati dalle proprie politiche, la letteratura rappresentò uno dei pochi spazi di resistenza simbolica. Povara bunătății noastre (Il peso della nostra gentilezza – inedito in Italia), scritto negli anni Sessanta dallo scrittore moldavo Ion Druță, è una delle prime opere moldave a sollevare il velo sul trauma della carestia del dopoguerra del 1946–1947.

Pur vincolato dai limiti imposti dalla censura sovietica, Druță riesce a criticare implicitamente il regime, raffigurandolo come incapace di comprendere la cultura contadina e i suoi valori profondi. Nel romanzo, la “gentilezza” evocata dal titolo diventa un peso, un fardello collettivo che i contadini portano con dignità, ma anche con rassegnazione.

La loro resilienza viene trasformata in un’arma di propaganda, mentre la violenza strutturale del regime, come la collettivizzazione, le deportazioni e la fame, resta sullo sfondo: mai esplicitamente nominata, ma sempre presente. È una forma di denuncia silenziosa che, solo decenni dopo, con la glasnost’, potrà essere finalmente letta per ciò che realmente è: un atto di memoria e di accusa.

Solo dal 2010, con il ri-orientamento pro-europeo del governo, è stata istituita una commissione per indagare sui crimini sovietici, che ha finalmente permesso l’accesso agli archivi del KGB, dell’NKVD e del Partito Comunista locale. Nonostante la presentazione pubblica di documenti e prove storiche, la reazione dell’opinione pubblica è stata inizialmente tiepida.

Solo recentemente, anche a causa dell’invasione russa in Ucraina, la società moldava ha iniziato a mostrare un interesse più attivo verso una rilettura più critica del proprio passato sovietico.

Oggi, la Repubblica Moldova commemora ogni anno, il terzo sabato di aprile, le vittime della carestia, in nome della memoria e della giustizia storica. Nel contesto attuale, il governo di centro-destra filo-europeo guidato da Maia Sandu ha avviato una decisa rivalutazione della storia sovietica, con particolare attenzione alle repressioni e alla carestia del 1946–1947. Le autorità moldave hanno promosso attivamente commemorazioni ufficiali, ricerche accademiche e iniziative educative volte a portare alla luce i crimini menzionati.

Parallelamente, sono stati aperti archivi e sostenuti progetti di legge finalizzati al riconoscimento e alla commemorazione delle vittime del totalitarismo sovietico.

Dal 2023, durante le commemorazioni dell’“Operazione Sud”, il governo moldavo espone a Chișinău alcuni vagoni di treni usati per le deportazioni sovietiche, accompagnati da materiali informativi. Mosca ha accusato l’iniziativa di russofobia, ma le autorità moldave hanno chiarito che si trattava di un atto di memoria e riconciliazione, non di ostilità ideologica verso la Russia attuale.

Un altro esempio di memoria storica e di come il passato sovietico venga interpretato in maniera polarizzante in Moldova è rappresentato dall’uso politico del 9 maggio. Il governo attuale pro Ue ha saputo sfruttare il forte potere simbolico e mobilitante di questa data per promuovere la propria agenda politica europea. Il governo moldavo filoeuropeo ha riconfigurato simbolicamente il 9 maggio trasformandolo da giorno della vittoria sovietica a Giornata dell’Europa, istituendo eventi come il “Villaggio europeo” a Chișinău, e proponendo la visione obbligatoria nelle scuole del documentario Siberia din oase (La Siberia dalle nostre ossa) sulle deportazioni sovietiche.

Questa politicizzazione del passato, volta a costruire un’identità europea e a prendere le distanze dall’eredità sovietica, ha però accentuato le divisioni interne, come dimostrano le critiche del Partito Socialista a queste  iniziative e l’esito incerto del referendum sull’integrazione Ue del 2024. Di fatto, la narrazione pubblica del passato è diventata terreno di scontro tra visioni opposte sul futuro della Moldova: da un lato, una prospettiva ancorata a una valutazione più positiva dell’eredità sovietica; dall’altro, un orientamento proiettato verso l’integrazione europea. Due approcci che, al momento, sembrano avere pochi punti in comune.


Meridiano 13 ringrazia l’Archivio di Stato Moldavo per averci concesso l'utilizzo delle foto e parte del materiale utilizzato in questo articolo.

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Margherita Gobbat
Margherita Gobbat

Ricercatrice al Center for Social Sciences (CSS) di Tbilisi e dottoranda al Research Center For Eastern European Studies (FSO) all'Università di Brema. Dal 2018 si sposta tra vari paesi dell’est Europa.