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Se percorrete la SP40 Adriatica dal mare, che da Campomarino porta a Sant’Elia a Pianisi, dopo circa mezz’ora non potrete non vedere il campanile a cupola, tipico delle architetture ortodosse. Entrando in una rotatoria, superata una Madonnina psichedelica, e immettendoci nella Provinciale, troverete da un lato un cartello di benvenuto con scritto “Mirë si erdhët” e dall’altro un imponente Padre Pio. A quel punto, il vostro sguardo non potrà che essere attratto da un grande murale con raffigurato uno sguardo fiero e guerriero con in testa un elmo di capra, spezzato da un’ombra di un’aquila bicipite. I colori all’ora del tramonto si confondono con quelli del cielo.
Continuando, incontrerete un secondo bruttissimo campanile, dei bar, due villette comunali, e una terza con dei cannoni, donati dall’allora ministro della Difesa, Mario Tanassi, durante una cerimonia che ha visto le frecce tricolore volteggiare sopra questo sperduto posto. Lasciandovi alle spalle il centro storico, proseguendo verso est, troverete l’edificio scolastico con una parte degli anni Cinquanta e un’ala nuova da poco consegnata dopo un decennio di attesa, costruito sul sito del vecchio campo di calcio.
Dopo meno di un chilometro, andrete a infrangerti contro un muro di cemento armato, decorato con dei murales con la scritta “Alè, alè Ururi”, tratta dal testo dell’inno sociale e dal titolo di un racconto dello scrittore neorealista Luigi Incoronato, membro del CNL di Campobasso. A fare da angolo un ingresso sovietico con su scritto “Stadio Comunale Michele Fiorilli”. Siete arrivati! È lo stadio della gloriosa Aurora Ururi. Se sbircerete (solitamente il cancello è aperto), potrete notare anche la faccia rassicurante di Michele Scorrano, il Capitano, il numero 2 del Campobasso in serie B, raffigurata sul muro del piccolo fabbricato antistante il terreno di gioco.
Il murales di Skanderbeg di Marco Di Prisco, agosto 2020, Ururi
Facciamo un passo indietro. Siete a Ururi, un paese arbërësh del Molise. È una storia di immigrazione, fierezza, riscatto e calcio.
Perché a Ururi si parla arbëreshë?
Il viaggio degli arbëreshë si intreccia con la socio-linguistica e l’antropologia. Essere arbëreshë in terra straniera in un contesto che accoglie ed esclude, va tutto scovato nel profondo del grande esodo, nella lotta contro l’invasione turco-ottomana, l’abbandono di una terra, la nuova lotta per affermarsi con gli autoctoni (lëti), il mito di personalità come Skanderbeg, la nostalgia, la parola data “besa”, il microcosmo, la fierezza di continuare a essere altro.
Per un approfondimento si consiglia la lettura di: Dietro il volto fiero della comunità arbëreshë di Ururi. Sociolinguistica nel cuore della minoranza, Elvira Colangelo, Università degli Studi di Bologna, a.a. 2019/2020
Di fronte alla frenetica e ossessionata ricerca di un’unità nazionale linguistica, la lingua arbëreshë, pur contaminandosi, si è conservata e trasmessa attraverso un suo percorso naturale, soprattutto orale.
Diverse sono le teorie sull’origine del nome Ururi: dal latino ruris = campagna, così chiamato dagli abitanti di Larino, l’urbs (centro feudale), a quella che parte dal nome Aurole, come il monastero presente prima dell’arrivo degli albanesi. Oppure, la teoria più leggendaria che associa al riconosciuto temperamento suscettibile delle popolazioni arbëreshë, la parola “uri” = pietra focaia, pietra che produce scintille.
È importante comprendere il motivo per cui gli albanesi fuggirono e si insediarono nei territori del meridione italiano e, con non pochi problemi, iniziarono la loro nuova vita in terra straniera.
È quindi doveroso riassumere brevemente lo scenario di guerra che vide protagonista il popolo albanese e le gloriose gesta dell’eroe nazionale Giorgio Castriota Skanderbeg nella seconda metà del XV secolo. Era il 1415 quando il padre Giovanni Castriota perse l’indipendenza ad opera dei turchi e fu costretto ad accettare pesanti condizioni: tra queste dovette cedere al Sultano Murad II i suoi tre figli, uno fu proprio Giorgio.
Quest’ultimo crebbe con educazione musulmana e divenne abile nell’arte militare tanto da acquisire il titolo di Iskander (Alessandro) e Bey (Lord). Onorificenze e ammirazione non bastarono al Castriota per accantonare il desiderio di vendetta, anzi, nel corso degli anni covò silenziosamente un senso di ribellione, venendo a conoscenza della sottomissione del suo popolo e della morte dei suoi familiari causate dallo stesso Sultano.
Alla notizia della morte del padre e della conseguente sottomissione della città di Kruja, Skanderbeg attuò un piano straordinario: nel 1443, inviato sul fronte occidentale contro le truppe ungheresi, cambia direzione e si dirige proprio a Kruja con al seguito un battaglione di fedelissimi, prevalentemente albanesi. Skanderbeg proclama l’autodeterminazione e l’indipendenza del popolo albanese, dichiarando in sostanza guerra a Murad II e all’Impero Ottomano. Il suo era un disegno politico preciso avente un unico obiettivo: liberare l’Albania e renderla uno Stato unitario.
Famoso è il discorso che Skanderbeg fece al suo esercito prima di dare inizio alle battaglie di liberazione:
Capitani e soldati valorosi! Né nuovo né inaspettato è lo spettacolo che voi offrite al mio sguardo. Quali vi ho creduto tali vi ho trovato, pronipoti degni di una razza antica e nobile, eroi fedeli della vostra terra e del vostro re. […] Io vi dico senza vantarmi che per tutto il tempo della mia vita ho sempre nutrito questo grande amore per la Patria e questo desiderio vivo della libertà. […]
Se vi tenni celate le mie intenzioni, se per tanti anni non vi svelai il sentimento dell’anima mia non fu perché io non avessi fiducia in voi, non fu perché io non conoscessi il vostro cuore, poiché voi eravate primi a trarre il dado e ad impegnarvi in questa lotta. Ma perché l’impresa doveva essere profondamente meditata, perché i mezzi dovevano essere trovati, e perché bisognava scegliere il momento favorevole […].
G. Fiorilli, Ururi si trova in Italia. Profilo storico, Lanciano, 1998, p. 14.
Giorgio Castriota istituì la “Lega albanese” e riuscì a far fronte a diverse battaglie grazie anche alle tattiche militari degli stradioti (abili guerrieri albanesi a cavallo, che in seguito divennero mercenari al servizio delle casate europee). L’assedio di Kruja durò circa 34 anni ma gli assediati utilizzarono tecniche micidiali vista la loro disparità numerica rispetto ai nemici:
[…] Lasciarono arrivare gli assalitori, poi con colpi di accetta tagliarono loro le braccia. I poveretti rimanevano attaccati con i corpi alle scale […]. La loro arma preferita era la pece nera fusa che gettavano con una tecnica precisa sui capi degli assalitori […].
Scenari di guerra di aprile 2000, articolo di giornale tratto da: Ururi si trova in Italia. Vi addio Albania…, raccolta di articoli pubblicati su Kamastra, rivista di cultura e attualità della comunità arbëreshe del Molise.
Giorgio Castriota è spesso raffigurato con indosso l’elmo bicorno, omaggio forse alla capra, animale che gli consentì di mettere in fuga l’esercito turco in una delle sue astute strategie militari (molte capre furono infatti portate di notte sopra le montagne e tutte portavano un bastone incendiato, confondendo i turchi che scambiarono queste per uomini dell’esercito nemico).
Skanderbeg, conosciuto e apprezzato non solo in Albania, riuscì ad instaurare rapporti con Papa Nicolò V il quale, avente come obiettivo la difesa della cristianità, ebbe l’idea di progettare una grande crociata contro l’Impero Ottomano e riconobbe il Castriota come “il baluardo della cristianità”. È doveroso ricordare che Skanderbeg si convertì al cristianesimo non per una scelta religiosa ma per strategia politica e di alleanza.
Infatti, i turchi non erano suoi nemici perché musulmani ma in quanto usurpatori e oppressori della sua terra. Un secondo alleato fu il Re di Napoli Alfonso D’Aragona: una stretta alleanza portò addirittura Skanderbeg ad inviare parte del suo esercito in aiuto al figlio Ferrante D’Aragona, per sconfiggere l’Impero Ottomano. In segno di riconoscenza il Re gli concesse alcuni dei suoi feudi.
Giorgio Castriota Skanderbeg dedicò la sua vita in difesa del suo grande ideale, uno Stato libero ed unitario, fino al 1468 quando si ammalò di malaria e morì. Dopo 10 anni di assedio, Kruja venne riconquistata dai turchi:
[…] i turchi, quando conquistarono Kruja, dieci anni dopo la morte di Skanderbeg, per prima cosa assaltarono la sua tomba e ne smembrarono le povere spoglie, per farne amuleti contro i pericoli della vita.
Scenari di guerra di aprile 2000, articolo di giornale tratto da: Ururi si trova in Italia. Vi addio Albania…, raccolta di articoli pubblicati su Kamastra, rivista di cultura e attualità della comunità arbëreshe del Molise.
La morte del grande eroe nazionale costrinse gran parte del suo esercito e le famiglie più fedeli a dover abbandonare la propria terra e affrontare l’ignoto sbarcando in terra straniera, l’Italia.
L’arrivo degli albanesi a Ururi
Gli studi storici contano otto ondate migratorie di albanesi arrivati dai territori del sud Italia (escludendo per diverse ragioni la migrazione degli anni Novanta). La migrazione degli albanesi a Ururi si colloca dopo la caduta di Kruja, dove approfittando della protezione delle navi veneziane alleate, la popolazione si avventurò nell’attraversamento del mar Adriatico.
Una volta approdati vennero destinati a ripopolare vecchi villaggi abbandonati, tra i quali Ururi, tramite degli accordi tra don Ferrante Aragona e il papa Pio II, che a sua volta convinse il vescovo di Larino, Antonio De Misseriis, a concedere ospitalità al gruppo di albanesi fuggiaschi. Di conseguenza, ciò produsse nel tempo attriti e conflitti tra le identità autoctone dei larinati (abitanti di Larino) e quella degli arbëreshë, in una dinamica conflittuale campagna versus urbs, vissuta come imposizione dominante religiosa, linguistica e sociale.
Tale contatto ha prodotto una nuova identità, una ridefinizione in continua evoluzione, giunta fino al giorno d’oggi, mutata ma con un nocciolo di essenza: la lingua. L’idioma arbëreshë è perciò trave, sostegno e supporto della sopravvivenza dell’antica dimensione culturale impiantatasi in Italia a partire dal XV secolo. Un attaccamento tale, un orgoglio esplicitato ha comportato a elevare la lingua a valore sacrale e forza morale. Lingua come fedele ritratto interiore dell’essere arbëreshë, manifestato nelle varie forme sociali, soprattutto in quella collettiva del calcio. Qualcosa che si è conservata e manifestata in tutte le partite e in particolare nei derby di calcio Aurora Ururi – Frenter Larino.
Il calcio per gli ururesi
Perché gli ururesi avevano questo rapporto con il calcio, quindi con l’Aurora Ururi? Se fai questa domanda a qualcuno in paese ti risponderà probabilmente così:
Perché è stata rivalsa di popolo verso tutto ciò che hanno subito a causa della loro diversità.
L’Aurora Ururi rappresentava la linea orizzontale che legava gli ururesi socialmente, al di là della possibilità economica, che contrastava con quella verticale di tutto il circondario, compresi gli altri paesi arbëreshë. Il calcio è stato, e forse lo è ancora, strumento per abbattere qualsiasi differenza sociale, possibilità di far esprimere anche chi aveva meno voce o mezzi rispetto alla società, dentro e fuori il paese, sia sugli spalti che in campo.
Qualcuno aggiungerebbe: “la maglia dell’Aurora Ururi addosso ha sempre pesato di più di una normale maglia”. Chissà se “Arcaro e la sua teppa” avrebbero mai immaginato tutto questo quando giocarono la prima partita, descritta nel racconto “Ci vediamo fuori” (A. Turturro, Il Ponte, Anno XVI n. 5 – Maggio 2004). Sole, polvere, panni rattoppati, grinta e antagonismo istintivo. Una partita di calcio arbitrata da un prete, per risolvere attriti tra due gruppi, una leggenda che ha aperto le porte alla storia.
Il telegramma inviato al presidente onorario
Sarà stato il 1916, il 1918 oppure il 1920? Qualcosa che, a prescindere, preparò il terreno per la squadra che iniziò a seminare vittorie in giro per il territorio. “Sportivi Ururi comunicano vossignoria vittoria completa Ururi quattro Campobasso zero = circolo sportivo”, dice il telegramma della prima partita ufficiale della squadra di calcio di Ururi, datato 1922 e indirizzo a Roma, dove risiedeva il presidente onorario, Principe Colonna. Qualcosa che portò tra una partita e l’altra alla nascita dell’Aurora Ururi nel 1924.
La partita con gli inglesi
La Seconda guerra mondiale si presentò direttamente con la linea Gustav, Termoli-Cassino, a pochi chilometri da Ururi. Da una parte i nazisti e dell’altra gli eserciti Alleati. La miseria della guerra, la sospensione dei campionati, non impedì allo spirito insolente degli ururesi di sfidare a calcio l’esercito inglese, stanziale da mesi alle porte del paese e accolti con le bandiere rosse. La partita, disputata nel vecchio campo sportivo (sito dell’attuale edificio scolastico), finì con una goleada per i locali.
Un ufficiale inglese non accettò la sconfitta, rimproverò in un duro inglese i soldati davanti agli sguardi stupiti dei presenti, evidenziando però il fatto che il campo dove si svolse la partita non era da considerarsi “regolamentare”. Questa sconfitta, a quanto pare, non era accettabile perché lo stesso reggimento aveva collezionato, dalla Calabria alla Puglia, varie vittorie in tutti i posti dove aveva stazionato, tra cui Taranto, Bari e Foggia. Perdere in un paese sperduto era inaccettabile per l’onore dell’esercito di Sua Maestà.
Fu così che richiamarono vari soldati dalle colonne limitrofe, calciatori, ma in quel momento in servizio di leva. Così si stabilì una seconda data per la rivincita a patto che il campo venisse realizzato dagli inglesi su un terreno della famiglia Colonna, subito fuori dal paese, nonché loro campo base. Con i mezzi militari a disposizione, spianarono e realizzarono un campo a detta loro “regolamentare”.
Qualcuno ricorda un 2 a 1, qualcuno un 2 a 0, forse per aumentare il mito dell’imbattibilità in casa dell’Aurora, sta di fatto che qui nasce la storia che ogni calciatore ururese conosce, ovvero della “partita contro gli inglesi”, che nell’immaginario bambino è sempre stata trasformata come la vittoria dell’Aurora Ururi contro la Nazionale inglese. A questa partita, prese parte con la compagine ururese Sergio Rampini, già calciatore professionista prima dell’entrata in guerra dell’Italia, che proseguì poi la sua carriera in A per terminarla a Piacenza.
Il secondo dopoguerra
Nel secondo dopoguerra, alcuni forestieri, chi in fuga dopo l’armistizio, chi per caso di passaggio, chi sfollato, andarono a ingrossare le fila della squadra ururese per qualche anno, accolti da alcune famiglie locali. Epici i derby con il Larino. Si parla di una partita giocata da Giacinto Campofredano, fratello dello storico presidente Teodorino, in fase post-operatoria con annessa riapertura della ferita chirurgica e successivo ricovero subito dopo la partita.
Alcuni calciatori di quel Larino finirono poi a giocare in serie A e in B, uno fra tutti, Pierluigi Giunti, portiere del Vicenza. Diversamente da Nicola Tanassi, grande centravanti, il cui tiro una volta fece svenire un bambino a bordo campo impattato nella traiettoria della palla, che preso dal Bologna, dove era andato a studiare, non esordì mai, perso tra gli stimoli mondani della città. Come non ricordare Michele Fiorilli, il “sacrestano”, di professione falegname con grandi probabilità inventore del ruolo del libero.
La fortuna di aver ospitato diverse persone provenienti da altri contesti ha arricchito i saperi tecnico-sportivi. Un esempio: la pratica del riscaldamento. Quando l’Ururi andava a giocare nel vicino paese di San Martino in P., molti anziani ricordano di come i calciatori venissero accompagnati sui carretti fino a circa un chilometro dal vecchio campo sportivo, per poi proseguire di corsa in modo da arrivare caldi alla partita. Qualche ragazzo di allora ricorda di come, di nascosto dai genitori, imboccava una scorciatoia in terra battuta per arrivare a piedi al campo a vedere l’Ururi, con indosso le scarpe nuove che spesso si infangavano a causa del fondo del tragitto, con successiva ramanzina al rientro a casa.
La tifoseria dell’Aurora Ururi
Gli spalti e il campo erano un corpo solo. Tutti hanno giocato almeno una volta a calcio a Ururi, tutti hanno nella propria memoria, diretta o ereditata, le storie di trasferte anche di venti-trenta chilometri sui carretti trainati da cavalli da lavoro, i traìni, spesso finite con una vittoria in campo e un’altra sugli spalti, dove difficilmente si riusciva a contenere la reattività degli arbëreshë di fronte alla ben che minima offesa. Oppure di un matrimonio tra un ururese e una ragazza di Montecilfone (altro paese arbëreshë della zona) andato in porto forse proprio grazie alla promessa dello sposo di riuscire a organizzare un’amichevole con la gloriosa Aurora Ururi, durante il loro periodo di fidanzamento.
Gli anni più recenti
L’Aurora era di tutti, dei facchini, dei muratori, dei braccianti, dei calzolai che lasciavano spontaneamente il proprio contributo quando non si pagava alcun biglietto alle partite, così come dei pochi ricchi che abitavano il paese. Ognuno ci ha visto qualcosa, ognuno ha partecipato in qualche modo. Come non citare il pienone sugli spalti allo spareggio del campionato campano del 1968 contro l’Agnone, vinto 1 a 0, disputato allo Stadio Romagnoli di Campobasso? Sì, perché questo piccolo villaggio di arbëreshë si è confrontato a viso aperto per decenni all’interno della federazione calcio campana, andando a giocare in posti come Casal di Principe, Maddaloni, Aversa, Secondigliano, Grumo Nevano, Mondragone.
I tifosi dell’Aurora Ururi
In quella squadra c’era anche quello che poi nello stesso stadio ha indossato la fascia di capitano del Campobasso in serie B, marcando attaccanti come Bruno Giordano. Il ragazzo arbëreshë, diventato il simbolo e lo spirito dell’attuale Curva Nord intitolata a lui, Michele Scorrano. Un esempio di determinazione e voglia di riscatto che ha contraddistinto molti dei calciatori usciti dal vivaio delle strade, dei campetti improvvisati e del campo di calcio impolverato di Ururi, che hanno giocato a discreti livelli semiprofessionistici e dilettantistici. In alcuni periodi, Ururi nel territorio è stato un centro calcistico di rilievo, giocare a Ururi aveva un peso reputazionale.
Non sono mancate le travagliate storie societarie nel corso della storia, la più drammatica quella dei primi anni Novanta, dopo la Promozione campana. Per anni il vuoto, poi nel 1995, il sogno e la necessità di rimettere in piedi il calcio da parte di alcuni genitori, partendo proprio dalle giovanili. Il momento era difficile, il campo sportivo abbandonato, un anno senza poter giocare in casa, poi la ripresa dei lavori, gli allenamenti tra le ruspe e la strada, i primi bambini albanesi, figli della nona ondata, con indosso la maglia giallo-rossa con l’aquila bicipite in piedi su un pallone.
Senza strutture, è stata la costruzione del gruppo e il peso della maglia, con il suo carico di storia, a permettere di far esprimere questa generazione, che ha riportato successivamente il calcio ururese per un decennio fino al campionato di Eccellenza molisana, attraversando una scissione societaria con la creazione di due squadre e quindi un derby casalingo per una stagione sportiva.
L’ingresso dello stadio di Ururi
Chiuso questo ciclo, pressioni economiche ed errori di progettazione hanno portato all’ennesimo fallimento durato tutto il triste periodo della pandemia da Covid. Una generazione ha perso il contatto con il calcio. Ma a Ururi il calcio è ossigeno e qualcuno, un po’ come nel 1995, è ripartito per ricostruire.
A dicembre 2024 questa storia ha compiuto ufficialmente cento anni, un secolo, ha attraversato la storia di provincia di questo paese, ha fatto sognare, contare qualcosa, giocare diverse generazioni e ceti sociali. È venerdì mattina prima di Pasqua, c’è il sole e un vento leggero, ritornano a piedi con le scarpe da calcio ai piedi dieci bambini e bambine di diverse età, con indosso una maglia con l’Aquila bicipite e il pallone sotto le zampe. Hanno giocato una partita di un torneo auto-organizzato, che si svolge ogni sabato o quando la scuola è chiusa. Chissà se partirà così, con un’altra “teppa”, come quella di Arcaro, la storia dei prossimi cento anni?
E allora…goal!
Certo è che arrivi in una terra che hai aiutato in passato, lasciando la famiglia ed amici morti per difenderla, e ci arrivi con la scorza del guerriero irriducibile. Sai di essere accolto non per pietà o umanità, ma perché te lo sei guadagnato rallentando l’avanzata Ottomana che avrebbe altrimenti invaso un’Europa divisa e fragile. Per oltre metà della tua vita hai combattuto insieme ai tuoi fratelli in un esercito di eguali, poi non sai come tirare avanti perché non sei contadino e neanche hai studiato (sic!!). L’assetto politico cambia e cominci a sentire l’alito puzzolente di chi sente il fastidio della tua scomoda e indomita presenza.
Allora i decenni passano dividendo “I huoijn” dal “lëti”, il forestiero comune dal latino che rappresenta il lontano e non condiviso potere del posto. “Moj e bukura More” è lontana, occupata e irraggiungibile, la nuova terra non sarà per molto la tua patria, e l’articolazione in ceti sociali che vi hai trovato non la comprendi, perché “Burj ishte nden kopus”, cioè “L’uomo è sotto il cappello”, e nessun abito o cappello può farti avere la dignità di essere considerato tale, se non lo hai dimostrato col coraggio quotidiano e la “besa”, ovvero la parola data.
Nei secoli scoprirai che non sarai mai trattato da pari dai lacchè della burocrazia in tutti i suoi aspetti. E allora… e allora? Sai solo che in piedi su di un terreno spianato e senza le menzogne e gli aiuti dei protettori di turno nessuno potrà batterti senza combattere alla pari. E cosi, attraverso un gioco e un oggetto equivalente, se la dovranno sudare tutta per avere il tuo rispetto. E allora… goooaalll!
La stesura di questo testo è un omaggio a ciò che è stato, alle persone che hanno attraversato il calcio a Ururi e continuano a nutrirlo. È una speranza resa possibile da Elvira Colangelo con la sua tesi, Antonio Turturro con la sua memoria e le persone che hanno condiviso i frammenti di questa storia collettiva.
*Occasionalmente scrive di temi politici legati al mondo del lavoro (Osservatorio Repressione), ritiene che lo sport sia uno spazio sociale di azione e narrazione. Questo testo è un omaggio all’Aurora Ururi, squadra del suo paese, in cui ha sognato di giocare fin da bambino.