Come potrai immaginare, questo progetto ha dei costi, quindi puoi sostenerci economicamente con un bonifico alle coordinate che trovi qui di seguito. Ti garantiamo che i tuoi soldi verranno spesi solo per la crescita del progetto, per i costi tecnici e per la realizzazione di approfondimenti sempre più interessanti:

  • IBAN IT73P0548412500CC0561000940
  • Banca Civibank
  • Intestato a Meridiano 13

Puoi anche destinare il tuo 5x1000 a Meridiano 13 APS, inserendo il nostro codice fiscale nella tua dichiarazione dei redditi: 91102180931.

Dona con PayPal

L’attentato di Marsiglia: prodromi e conseguenze di un regicidio

Marsiglia, 9 ottobre 1934. In mezzo alla calca festante per l’arrivo in città di Alessandro I, re di Jugoslavia, un bulgaro e un croato attendono su rue Canebière il passaggio della Delage nera decappottabile con a bordo il regnante e il ministro degli Esteri francese Louis Barthou. All’improvviso il bulgaro si lancia in avanti, eludendo il controllo delle guardie a cavallo, salta sul predellino dell’auto ed estrae una Mauser C96 semiautomatica, esplodendo diversi colpi diretti al petto del monarca jugoslavo. Si tratta dell’attentato di Marsiglia, il primo omicidio politico filmato della storia, dove si intrecciano le trame eversive di rivoluzionari macedoni, ustascia croati e fascisti italiani.

Regicidio a Marsiglia

Le placide onde del Mediterraneo si infrangono su una Marsiglia trepidante. L’aria ottobrina della città portuale accoglie lo sbarco di re Alessandro I di Jugoslavia, primo monarca a capo di un’entità statale a portare questo nome: letteralmente, “terra degli slavi del sud”. Il padre, Pietro I, fu sovrano del Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni venutosi a costituire in seguito alla Grande Guerra, che per la prima volta riunì entro lo stesso confine i territori che corrono dall’odierna Slovenia alla Macedonia del Nord.

Ma la coabitazione delle diverse etnie in uno stato unitario creò non pochi attriti tra le diverse minoranze nazionali, sfociando nel 1928 in una vera e propria sparatoria in parlamento che causò la morte, tra gli altri, del leader del Partito rurale croato Stjepan Radić. Ciò generò una crisi politica senza precedenti per il giovane stato, le cui spinte centrifughe spinsero l’anno seguente re Alessandro I a sospendere la costituzione, sciogliere il parlamento e instaurare una dittatura regia. Per marcare il cambio di regime dette un nuovo nome allo stato: Regno di Jugoslavia, per l’appunto. La dittatura divenne così più marcatamente serbocentrica, comportando l’estromissione sistematica delle minoranze nazionali dal potere e incentivando una vera e propria campagna di serbizzazione forzata di vaste aree del regno.

Re Alessandro I di Jugoslavia e il ministro degli Esteri francese Louis Barthou il giorno dell’attentato di Marsiglia (Wikimedia Commons)

Quel fatidico 9 ottobre del 1934 Alessandro I si trova in Francia per una visita ufficiale allo scopo di consolidare l’alleanza strategica tra i due paesi in chiave anti-tedesca: proprio a questo proposito il re aveva fatto aderire la Jugoslavia al Patto Balcanico e alla Piccola Intesa. Ad accoglierlo è il ministro degli Esteri francese Louis Barthou in persona, a bordo di una Delage nera decappottabile guidata dallo chauffeur Paul Foissac. A seguito degli scambi di rito l’auto con le due autorità, circondata dalla scorta a cavallo, imbocca la centralissima rue Canebière tra due ali di folla festante. Un uomo, eludendo le guardie, si avvicina all’auto e con un salto raggiunge il predellino della Delage: da tale distanza molto ravvicinata estrae la Mauser C96 semiautomatica, esplodendo diversi colpi in rapida successione diretti al petto di re Alessandro I di Jugoslavia.

La reazione delle guardie è rabbiosa, ma tardiva. I poliziotti francesi aprono il fuoco all’impazzata, ferendosi a vicenda. Colpiscono nove spettatori innocenti e ne uccidono quattro. Lo stesso ministro Barthou viene raggiunto da un proiettile sparato dalla polizia francese: morirà poco dopo. Il tenente colonnello Jules Piollet assesta una sciabolata letale all’assalitore, mentre la folla si avventa rabbiosa sul suo corpo. Morirà per le ferite riportate qualche ora più tardi. Foissac viene anch’egli raggiunto e colpito a morte dai proiettili impazziti, causando il bloccaggio dell’auto proprio davanti a un cameraman della Pathé: si tratta di Georges Méjat, che ha quindi tutto il tempo per inquadrare quei tragici istanti e soprattutto gli occhi via via sempre più vitrei di re Alessandro I di Jugoslavia, accasciato sul sedile posteriore con la testa all’indietro.

L’attentato di Marsiglia e l’uccisione di re Alessandro I di Jugoslavia ripresa Georges Mejat. Si tratta del primo omicidio politico registrato su pellicola della storia

Poco meno di dieci anni prima altre forze sovversive bulgare avevano tentato e clamorosamente fallito un altro sensazionale regicidio: si tratta dell’attentato alla cattedrale di Sveta Nedelja a Sofia, che causerà più di duecento vittime e cinquecento feriti.

Sicari e mandanti

L’attentatore, nonostante i numerosi alias dietro ai quali usò camuffarsi in vita, venne infine identificato: si tratta di Vlado Černozemski, 36 anni, un rivoluzionario bulgaro affiliato alla Vmro – l’Organizzazione rivoluzionaria interna macedone – un movimento rivoluzionario che ebbe come obiettivo la liberazione nazionale della regione storica della Macedonia dal dominio ottomano prima e dal Regno di Jugoslavia poi. Černozemski aveva la fama di aver commesso numerosi altri omicidi politici, in seguito ai quali venne arrestato e più volte condannato a morte, riuscendo sempre a farla franca.

Černozemski però non operava certo da solo. Ad appena un isolato di distanza dal luogo dell’attentato di Marsiglia stazionava un complice, armato di granate e pronto a intervenire nel caso in cui il sicario bulgaro non avesse raggiunto l’obiettivo. Si tratta di Mijo Babić, 31 anni, appartenente a una seconda organizzazione terroristica attiva entro e fuori dai confini del Regno di Jugoslavia: il movimento ustascia di Ante Pavelić.

Attivi sin dal 1929, gli ustascia rappresentano una minoranza ultranazionalista croata spiccatamente fascista e clericale, che vede nell’Italia di Benito Mussolini un modello da seguire e nel fascismo il futuro dell’umanità. Gli ustascia condividono con la Vmro un nemico comune: il Regno di Jugoslavia, impersonato nella figura di re Alessandro I. La monarchia rappresenta per entrambi i movimenti rivoluzionari un ostacolo insormontabile all’unità e all’indipendenza delle rispettive nazioni, croata e macedone.

Il sodalizio tra le due organizzazioni è reso possibile dall’affermazione violenta del nuovo leader della Vmro, Ivan Mihailov, che a partire dalla metà degli anni Venti in poi epura il movimento dalle sue frange più progressiste – assassinandone diversi esponenti storici – ed è coronato dall’addestramento militare che lo stesso Černozemski impartisce a un gruppo di tre ustascia a Janka-Puszta, in Ungheria, nel 1932: Mijo Babić, Zvonimir Pospišil e Ivan Raić. Obiettivo dell’addestramento: l’uccisione di Alessandro I.

Mijo Babić, Vlado Černozemski e Zvonimir Pospišil a Janka-Puszta negli anni Trenta
In ordine di apparizione da sinistra verso destra: Mijo Babić, Vlado Černozemski e Zvonimir Pospišil a Janka-Puszta negli anni Trenta (Wikimedia Commons)

Mentre Černozemski e Babić stanno per compiere l’attentato di Marsiglia un secondo gruppo di fuoco, composto da Pospišil e Raić, attende il passaggio del corteo reale a Versailles nel caso il primo attentato venisse sventato. Arrestati a seguito del regicidio dalle autorità francesi, verranno condannati insieme a Babić all’ergastolo, che tuttavia non finiranno mai di scontare. Dopo l’invasione della Francia da parte delle forze dell’Asse nel 1940, infatti, vennero tutti liberati dai tedeschi. Nel 1941, con la costituzione dello Stato indipendente di Croazia, Babić si ritroverà a ricoprire l’incarico di deputato e comandante di tutti i campi di concentramento croati.

Entrambi i gruppi di fuoco sarebbero stati raggiunti nei giorni che precedono l’attentato di Marsiglia da una giovane spia croata, recatasi personalmente da Torino a Parigi per consegnare direttamente le armi agli attentatori. Sarà proprio lei la protagonista del primo libro di Pavelić, La bella bionda, scritto durante la cattività liparese del futuro poglavnik (duce) croato.

Per quanto motivati e organizzati, tuttavia, difficilmente i rivoluzionari croati e macedoni avrebbero potuto portare a compimento l’attentato di Marsiglia senza la complicità o quantomeno il considerevole supporto di alcuni attori esterni. Attori che vanno ricercati soprattutto dall’altro lato dell’Adriatico.

Il sostegno logistico di Mussolini

Per l’Italia fascista la presenza del Regno di Jugoslavia ai suoi confini orientali era elemento di profondo malessere. Diversi territori del litorale adriatico entro i possedimenti jugoslavi erano stati promessi al Regno d’Italia in caso di vittoria nella Grande Guerra, fatto che non si era mai venuto a concretizzare proprio a causa della nascita del Regno dei serbi, croati e sloveni ancora prima della ratifica del trattato di Versailles. L’esistenza di un’entità statale jugoslava minava il progetto fascista di dominazione sull’Adriatico e il sogno imperialista di controllo dell’intero bacino del Mediterraneo.

In tale ottica l’Italia fascista, con il beneplacito di Mussolini in persona, fece di tutto per destabilizzare il delicato equilibrio politico dell’ingombrante vicino. Ivi compreso il finanziamento a movimenti insurrezionali, eversivi e terroristici che avevano come obiettivo la secessione di porzioni di territorio dal Regno di Jugoslavia e la costituzione di entità statali a sé stanti: estremisti macedoni, croati, montenegrini, kosovari, tutti ricevettero il sostegno più o meno diretto da parte del fascio littorio.

Tanto Černozemski quanto Pavelić, infatti, ebbero modo di soggiornare nel bel paese più di una volta, anche se non esattamente per turismo. Furono assidui frequentatori di un vero e proprio campo di addestramento militare come quello di San Demetrio, in Abruzzo, dai quali uscirono molti dei sicari che commisero attentati nel Regno di Jugoslavia tra gli anni Venti e Trenta. Il quartier generale stesso degli ustascia negli anni dell’esilio si trovava nell’italianissima Torino. Re Alessandro I era ben consapevole di tale connivenza, quando non aperto sostegno: “Se [voi italiani] volete che si verifichino gravi rivolte in Jugoslavia o che si verifichi un cambio di regime, dovete uccidermi”, ebbe a dire rivolto a un intermediario del governo italiano a seguito della fallimentare rivolta del 1932 di Velebit, nell’odierna Croazia, guidata dagli ustascia. “Sparatemi e siate sicuri di avermi finito, perché questo è l’unico modo per cambiare la situazione in Jugoslavia”.

Non sorprende, dunque, che a seguito dell’attentato di Marsiglia i principali sospetti ricaddero proprio sul governo italiano. La pressione francese e internazionale causò un vero e proprio giro di vite in Italia, che smantellò i campi di addestramento e arrestò numerosi esponenti del movimento, compreso il leader Pavelić e circa quattrocento seguaci sparsi lungo tutto lo stivale. Fu così che gli ustascia, per qualche anno, caddero nel dimenticatoio.

Benito Bussolini e Ante Pavelić a Roma, 1941 (Wikimedia Commons)

La situazione rimase tale fino al 1941, quando con l’invasione della Jugoslavia gli ustascia tornarono ad essere politicamente spendibili. Pavelić fu posto a capo dello Stato indipendente di Croazia, passato alla storia come uno dei regimi collaborazionisti più brutali dell’intero conflitto bellico.

Sopravvissuto alla Seconda guerra mondiale, grazie alla protezione vaticana riuscirà ad attraversare l’Italia da nord a sud, rifugiandosi sotto mentite spoglie a Roma, da dove raggiunse infine l’Argentina nel 1948. Nel 1957 sopravvisse all’attentato di Blagoje Jovović riportando serie conseguenze e poco dopo, temendo l’estradizione in Jugoslavia, fuggì prima in Cile e infine nella Spagna di Francisco Franco, dove morì nel 1959 senza aver mai pagato per i suoi crimini.

L’attentato di Marsiglia, presagio di un epilogo

L’attentato di Marsiglia non rappresenta solo l’uccisione di un sovrano, ma preannuncia fatalmente anche l’implosione della realtà statuale che Alessandro I impersonava. La centralizzazione forzata, la repressione delle minoranze e la soppressione dell’ordine democratico per salvare l’unità del paese avevano solo coperto i flussi magmatici dei vari nazionalismi con un sottile strato di calma apparente, sotto al quale continuavano a proliferare estremismi e rancori acuiti da agenti esterni.

Non è chiaro se le autorità fasciste fossero pienamente al corrente del piano di uccidere Alessandro I da parte degli ustascia e della Vmro. Ciò che sappiamo, invece, è che il regicidio causò un simile clamore mediatico che Mussolini fu costretto a smantellare in fretta e furia la rete di supporto che si era tanto impegnato a tessere in favore dei rivoluzionari croati nel corso degli anni.

Re Alessandro I, a ogni modo, lasciò il trono al figlio Pietro II. Troppo giovane per governare, venne affidato alla reggenza di principe Paolo Karađorđević, primo cugino di Alessandro. Alle soglie della Seconda guerra mondiale il principe favorì il celeberrimo sporazum, un accordo tra il primo ministro jugoslavo Dragiša Cvetković e il leader del Partito rurale croato Vladko Maček per la creazione all’interno del Regno di Jugoslavia di una Banovina Croata, un’ampia regione a maggioranza croata dotata di ampia autonomia politica. L’accordo si prefiggeva di disinnescare uno degli attriti più pericolosi all’interno del regno, quello tra serbi e croati, e di promuovere una graduale decentralizzazione amministrativa del paese.

Ma era ormai troppo tardi: due anni dopo il principe Paolo fu forzato a unirsi al patto tripartito per scongiurare l’invasione del Regno di Jugoslavia. Ciò causò manifestazioni di dissenso a Belgrado che, strumentalizzate dai britannici, provocarono un colpo di stato in favore di Pietro II con l’intento di spingere il paese all’uscita immediata dall’Asse. I nazisti e i loro alleati non attesero oltre: il 6 aprile invasero la Jugoslavia da tre fronti, completando la sua occupazione in una decina di giorni appena e venendo accolti in diversi territori alla stregua di liberatori.

Re Pietro riuscì a ripiegare in Grecia e a raggiungere infine Londra, dove costituì un governo in esilio. Con la vittoria dei partigiani di Tito, tuttavia, venne definitivamente esiliato e non gli fu più concesso di tornare in Jugoslavia. Solo nel 2013, 43 anni dopo la sua morte, le sue spoglie furono riportate in Serbia, dove riposano nel mausoleo di famiglia di Oplenac.


Condividi l'articolo!
Nicola Zordan
Nicola Zordan

Mosso da un sincero interesse per la storia e la cultura della penisola balcanica, si è laureato in Studi Internazionali all’Università di Trento, per poi specializzarsi in Studi sull’Europa dell’Est all’Università di Bologna. Ha vissuto in Romania, Croazia e Bosnia ed Erzegovina, studiando e impegnandosi in attività di volontariato. Tra il 2021 e il 2022 ha scritto per Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa. Attualmente risiede in Macedonia del Nord, dove lavora presso l’ufficio di ALDA Skopje.