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La commissaria europea per l'allargamento Marta Kos partecipa all'incontro con il presidente serbo Aleksandar Vučić a Belgrado, Serbia, martedì 29 aprile 2025 (Wikimedia Commons)
Il processo di allargamento europeo verso est mostra tutti i suoi limiti in Serbia dove, nonostante la retorica, il governo adotta sin dall’avvio dei negoziati con Bruxelles nel 2014 un atteggiamento utilitaristico, mantenendosi strumentalmente a metà strada tra Bruxelles e Mosca.
Bruxelles, 25 marzo 2025: il presidente serbo, dopo una cena trascorsa in compagnia della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, dichiara ai media che “La Serbia si impegnerà con determinazione nel percorso di adesione all’Ue, più di quanto abbia fatto finora”.
Pechino, 3 settembre 2025: in occasione della parata per la celebrazione dell’80esimo anniversario dalla fine della Seconda guerra mondiale, il leader serbo incontra il presidente russo Vladimir Putin, asserendo che “La cooperazione ai massimi livelli con la Russia in tutti i settori è molto importante per la Serbia e spero che avremo l’opportunità non solo di preservare, ma anche di migliorare alcuni aspetti di tale cooperazione”.
Due dichiarazioni apparentemente differenti, inconciliabili, proferite da longitudini non solo geografiche a un abisso di distanza l’una dall’altra. A pronunciarle è però la stessa persona, nei panni del funambolo esperto: il presidente serbo Aleksandar Vučić.
Il presidente serbo Aleksandar Vučiće il presidente russo Vladimir Putin alle cerimonie commemorative dell’80esimo anniversario dalla conclusione della Seconda guerra mondiale a Pechino, 3 settembre 2025 (Wikimedia Commons)
Allargamento europeo: molti interessi, pochi progressi
L’immagine del funambolo ben si addice sia a un leader politico disperatamente in sella anche nel bel mezzo del più vasto e duraturo movimento di protesta dai tempi di Milošević, sia alla politica estera cerchiobottista che contraddistingue la Serbia più o meno dalla nascita della Repubblica, ma che è divenuta via via sempre più eclatante dall’inizio dei negoziati per l’adesione all’Ue il 21 gennaio 2014.
Sin da allora, più o meno senza eccezioni, praticamente tutte le relazioni periodiche della Commissione europea sullo stato del processo negoziale sottolineano progressi limitati, ritardi e inerzia nell’adozione delle misure ritenute indispensabili da Bruxelles per poter accedere al più esclusivo dei club sovranazionali d’Europa.
Inerzia che risulta difficilmente comprensibile se si considera che, tra tutti gli attori internazionali, l’Ue è di gran lunga il principale fornitore di aiuti allo sviluppo della Serbia, con oltre 4,5 miliardi di dollari trasferiti – sia sotto forma di donazioni degli stati membri che di fondi europei – solo nel periodo 2010-2015. Tra il 2014 e il 2020 il solo strumento di assistenza pre-adesione (IPA II) ha allocato in Serbia più di un miliardo e mezzo di euro.
L’Ue è il principale partner commerciale della Serbia anche in termini di import-export. Sin dal 2005, le esportazioni della Serbia verso l’Ue hanno rappresentato una quota variabile tra il 58% e il 68% del totale, mentre le importazioni si sono attestate tra il 55% e il 59% del totale. L’Ue rappresenta anche il singolo maggiore investitore nell’economia serba, con una quota compresa tra il 50% e l’80% di tutti gli investimenti diretti esteri in Serbia sin dal 2010.
Oltre agli investimenti diretti, l’economia serba ha lungamente goduto di ulteriori e non meno trascurabili vantaggi economici in qualità di paese candidato. Se si osservano gli afflussi netti di investimenti diretti esteri in Serbia nel corso del tempo ci si rende conto di come siano aumentati vertiginosamente, con una transitoria battuta d’arresto solo nel 2008 e nel 2020, causate rispettivamente dalla crisi finanziaria e dalla pandemia di Covid-19.
I dati più recenti della Banca mondiale dimostrano come Belgrado sia stabilmente il paese leader nella regione in termini di attrazione di investimenti diretti esteri, raggiungendo i 4,2 miliardi di dollari nell’anno precedente allo scoppio della pandemia e sfiorando i 5 miliardi nel 2023, surclassando anche quei vicini già parte dell’Ue.
La commissaria per l’allargamento europeo Marta Kos e la portavoce del governo serbo Ana Brnabić si incontrano a Belgrado il 29 aprile 2025(Wikimedia Commons)
Nonostante il forte ascendente che esercita sulla Serbia, l’Ue non è però l’unico attore geopolitico a esprimere un interesse – tutt’altro che disinteressato – nei confronti dello stato balcanico. Da una breve disamina degli altri suoi partner strategici (uno in particolare) si può meglio inquadrare l’attitudine ambigua e all’apparenza insensata che Belgrado dimostra nei confronti dell’Ue.
Russia: tradizione e pragmatismo
Sebbene l’Ue risulti essere il primo partner commerciale della Serbia, bisogna pur tener conto del fatto che, per esempio, nel 2020 le importazioni di gas naturale dalla Federazione Russa hanno rappresentato il 64% delle importazioni totali con la produzione interna che è riuscita a soddisfare solo il 10,7% della domanda. In seguito, tale dipendenza sembrerebbe essere aumentata anziché diminuita, con le ultime fonti disponibili riferite al 2021 che parlano di un’importazione dell’89% di gas naturale dalla Russia per soddisfare il fabbisogno interno. Nello stesso 2020, nonostante la recessione e le sanzioni occidentali, la Russia è stata il secondo maggiore investitore in Serbia dopo l’Ue, sebbene con uno scarto affatto trascurabile.
Quello che potrebbe essere definito come un semplice partner, in Serbia è comunemente considerato come un “fratello maggiore”, in grado di suggellare un’alleanza ancestrale e in qualche modo sacra, sancita dalla comune religione ortodossa e di un ben radicato spirito pan-slavista.
Uno spirito che facilita risvolti ben più prosaici rispetto alla mera unione ideale del mondo slavo: un voto garantito all’interno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite contro il riconoscimento del Kosovo da una parte, un bastione all’espansionismo della Nato nei Balcani dall’altro. Con la classica ambivalenza che contraddistingue la politica estera serba, s’intende: se da un lato Belgrado è partner dell’Alleanza atlantica sin dal 2008, infatti, è pur vero anche che già dal 2013 ha acquisito lo status di osservatore permanente presso l’assemblea dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva – un’alleanza militare intergovernativa euroasiatica a trazione russa.
Esercitazione congiunta delle forze di reazione rapida dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva “Frontiera 2010”, Repubblica del Tagikistan(Wikimedia Commons)
Un osservatore abbastanza partecipe, ad essere sinceri, visto l’impegno profuso dimostrato nel corso di esercitazioni militari dai nomi evocativi, come “Fratellanza Slava”. L’ultimo addestramento al fianco della Russia – un’esercitazione militare congiunta di difesa aerea denominata “Scudo slavo” – si è svolta in Serbia nell’ottobre 2021, pochi mesi prima dell’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Invasione che la Serbia ha condannato alle Nazioni Unite solo in seguito a un lungo pressing politico da parte di Bruxelles, astenendosi tuttavia dall’applicare sanzioni economiche ai danni di Mosca, nonostante le forti pressioni ricevute sin da allora in tal senso.
L’allineamento alla politica estera dell’Ue, è bene ricordarlo, è considerato un pre-requisito per diventare uno stato membro. La Serbia, ad oggi, è l’unico paese candidato insieme alla Turchia (il cui processo di adesione è però congelato da anni) che mantiene posizioni in politica estera differenti da Bruxelles, rappresentando un’anomalia nel contesto del processo di allargamento europeo ad est.
Un piede su due scarpe
Nonostante gli enormi benefici che derivano dalla vicinanza politica all’Ue e ai suoi stati membri, Bruxelles non rappresenta l’unico mercato al quale Belgrado può accedere in via preferenziale. L’accordo di libero scambio firmato con Mosca nel 2000, ad esempio, facilita l’import-export di merci da e verso la Russia. Naturalmente non c’è partita tra il volume di interscambi generato dall’accesso avvantaggiato al mercato unico europeo rispetto a quello russo. Tuttavia, soddisfacendo tutti i criteri per l’adesione all’Ue, la Serbia sarebbe costretta a rinunciare al partenariato russo e alle politiche di favore che ne conseguono, incompatibili con lo status di paese membro.
Anche da questo elemento deriva la sostanziale inazione e riluttanza serba ad adempiere a tutti i requisiti richiesti dall’Ue – le cosiddette condizionalità – completando un processo di integrazione che, fintanto che rimane tale e non si porta a piena maturazione, consente una massimizzazione dei benefici, irraggiungibile tanto divenendo a pieno titolo uno stato membro quanto abbandonando definitivamente il percorso di integrazione.
A ulteriore conferma dell’ambivalenza delle relazioni della politica estera serba c’è anche la ratifica dell’accordo di libero scambio con l’Unione economica eurasiatica datata ottobre 2019 ed entrato in vigore il 10 luglio 2021 (anch’esso, nemmeno a dirlo, incompatibile con lo status di stato membro dell’Ue). Il testo, firmato tra Serbia, Russia, Belarus’, Kazakhstan, Armenia e Kirghizistan, amplia le opportunità di esportazione per le imprese serbe (soprattutto verso Armenia e Kirghizistan, nuovi mercati liberalizzati), rafforza i legami economici con l’area eurasiatica e soprattutto elimina i dazi doganali su oltre il 90% delle merci oggetto di interscambio.
Riunione dell’Unione economica eurasiatica ad Astana, 29 maggio 2014 (Wikimedia Commons)
Naturalmente, questa peculiare posizione tra mercati asiatici ed europei ha attirato un notevole interesse da parte di non poche imprese nel corso del tempo.
Tra gli investimenti più consistenti si registrano marchi multinazionali del calibro di US Steel, Philip Morris, Microsoft, Lukoil, Gazprom, Coca-Cola, Siemens, Carlsberg e FIAT. Se per gli investimenti avvenuti prima dell’invasione russa dell’Ucraina queste e altre multinazionali hanno investito in Serbia spinte da un regime fiscale particolarmente favorevole e dalla prospettiva di un accesso avvantaggiato tanto al mercato unico europeo quanto ai mercati asiatici, in seguito all’approvazione delle sanzioni economiche nei confronti della Russia si è aggiunta la possibilità nemmeno troppo celata di aggirare il congelamento delle relazioni economiche con Mosca.
Parallelamente, l’accordo di libero scambio con l’Unione economica eurasiatica ha convinto diversi marchi europei, desiderosi di conquistare fette di mercato in Asia, che la Serbia fosse il cavallo giusto su cui scommettere.
“It’s the economy, stupid!”
L’economia serba, insomma, non sembrerebbe avere alcuna fretta di entrare a pieno titolo a far parte dell’Ue. Belgrado già gode di notevoli privilegi economici derivanti dalla sottoscrizione dell’Accordo di stabilizzazione e associazione siglato nel 2008 in Lussemburgo, che prevede l’accesso del paese balcanico alla zona di libero scambio europeo pur senza dover sottostare all’onere vincolante dell’adesione a pieno titolo. Se ciò dovesse infine verificarsi, implicherebbe la fine della sua collocazione – unica quanto proficua – a metà strada tra Bruxelles e Mosca.
Agli occhi dell’élite politica locale, l’adesione all’Ue non è realmente una priorità. La migliore opzione per il presidente Aleksandar Vučić – che governa il paese con il suo Partito progressista serbo sin dal 2012 – è quella di sfruttare il più a lungo possibile questa congiuntura internazionale, che gli consente di accedere contemporaneamente tanto al mercato unico europeo e ai fondi di assistenza pre-adesione quanto ai mercati eurasiatici.
L’unico elemento che potrebbe spingere ad abbandonare questa ambivalenza strategica sarebbe una forte volontà politica interna, come avvenuto nei paesi dell’Europa centrale e orientale negli anni Duemila. Tuttavia questo non sembra essere il caso serbo. Secondo l’ultimo Eurobarometro (settembre 2025) e nonostante la mobilitazione anti-governativa in corso, la Serbia mantiene saldamente il suo primato euroscettico tra i paesi dell’Europa sud-orientale: appena il 33% dei cittadini serbi si dichiara un sostenitore dell’allargamento.
Tale scetticismo rende più difficile e “costoso” intraprendere le riforme necessarie, sia per il timore dell’élite politica locale di perdere elettori, sia per la sua riluttanza a cambiare lo status quo.
Un’immagine delle proteste in Serbia (Studenti della Facoltà di Arti Drammatiche di Belgrado)
Considerazione, quest’ultima, ricorrente in tutti i paesi post-socialisti che intraprendono un processo di democratizzazione. Il motivo è semplice: in generale, le élite politiche che hanno sostituito la nomenklatura hanno ereditato uno stato molto forte e centralizzato, con un controllo rigido sui media e una separazione dei poteri inadeguata.
Alla caduta di questi regimi, la burocrazia che controllava il sistema politico ed economico, i media e l’esercito è stata talvolta sfruttata da politici senza scrupoli come macchina di risonanza per generare e mantenere consenso. In casi di questo tipo, il costo politico per le riforme richieste dall’Ue (separazione netta dei poteri, indipendenza dei media, ecc.: il cosiddetto acquis comunitario) risulta essere troppo elevato per le élite locali, poiché comporterebbe la perdita di controllo sul sistema che ne garantisce il consenso.
Il funambolo d’Europa
Il funambolo d’Europa si muove così incerto, in equilibrio sullo stretto spazio che gli è concesso dalla fune tesa tra Bruxelles e Mosca, Ue e Russia, mercato unico europeo e unione economica eurasiatica, senza mai avanzare realmente e definitivamente né da una parte né dall’altra. Vacilla ma non cade, ha imparato ad addomesticare sia il refolo di vento che le oscillazioni della corda. Niente e nessuno sembra turbarlo. Almeno fino a quando la corda resterà tesa e il vento non si farà tempesta.
Mosso da un sincero interesse per la storia e la cultura della penisola balcanica, si è laureato in Studi Internazionali all’Università di Trento, per poi specializzarsi in Studi sull’Europa dell’Est all’Università di Bologna. Ha vissuto in Romania, Croazia e Bosnia ed Erzegovina, studiando e impegnandosi in attività di volontariato. Tra il 2021 e il 2022 ha scritto per Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa. Attualmente risiede in Macedonia del Nord, dove lavora presso l’ufficio di ALDA Skopje.