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Una manifestazione contro il governo a Erevan nel maggio 2022 (Meridiano 13/Aleksej Tilman)
Il 19 settembre 2023 un attacco militare dell’Azerbaigian costringeva alla fuga in Armenia gli oltre 100mila abitanti armeni del Nagorno-Karabakh (qui la storia della regione contesa). A due anni di distanza le condizioni di vita di queste persone rimangono molto complesse. Ne abbiamo parlato con Simone Zoppellaro, collaboratore di MicroMega e della rivista Una città, autore dei libri Armenia oggi e Il genocidio degli yazidi (editi da Guerini e Associati), docente all’università di Stoccarda e coordinatore didattico presso l’Istituto Italiano di Cultura.
Simone, in primo luogo, un chiarimento sui numeri: quanti sono gli armeni del Nagorno-Karabakh fuggiti in Armenia e cosa ha fatto lo Stato armeno per assisterli in questi ultimi due anni?
Gli armeni del Nagorno-Karabakh sono fuggiti nella loro quasi totalità. Dovrebbero essere circa 100mila persone, ma la cosa andrebbe studiata con criteri scientifici. Come capita spesso nel Caucaso meridionale, ma anche in Medio Oriente e Nord Africa, le cifre legate alle minoranze diventano ragioni di contenziosi politici e questo sarebbe un discorso abbastanza ampio da fare.
Da un punto di vista umanitario, la popolazione armena del Nagorno-Karabakh è stata cancellata nella sua totalità, e questo è un dato purtroppo definitivo.
Ci sono tante questioni in ballo: politiche, umanitarie, abitative e lavorative. Partiamo da quelle forse più importanti. Erevan, come altri luoghi nell’Europa dell’est, negli ultimi anni ha registrato una grossa crescita del costo della vita. La città di oggi è una cosa molto diversa da quella di alcuni anni fa.
Per come è fatta l’Armenia c’è la capitale e poi ci sono posti assai piccoli e depressi, pensiamo a Gyumri, la seconda città del paese. È un centro che storicamente ha senza dubbio la sua importanza, ma oggi è spopolato e offre poche possibilità lavorative, anche per una persona di lingua e cultura armena.
Erevan è il luogo che offre quasi tutto: lavoro, connessioni, eccetera. È però diventata una città economicamente difficile da vivere per una persona che non abbia le spalle coperte, cosa che capita solo per una piccola minoranza di chi è arrivato dal Nagorno-Karabakh. Molti hanno perso oltre naturalmente alla casa, il lavoro e hanno subito grandi perdite economiche.
La capitale sarebbe l’approdo naturale in un paese che ha meno di 3 milioni di abitanti (altra cifra su cui c’è anche un gioco politico, in realtà sembrerebbe che il numero degli abitanti dell’Armenia sia gonfiato dal fatto che è molto facile ottenere un passaporto anche per chi non ci vive).
E in effetti, circa un terzo delle persone fuggite dal Nagorno-Karabkah vive a Erevan tra forti difficoltà dovute al fatto che gli aiuti che sono arrivati dallo Stato armeno sono stati assai esigui.
Molte famiglie che ho visitato si sono stanziate in cittadine fuori dalla capitale dove il prezzo della vita è più contenuto. Però questo è un circolo vizioso, per cui spendono meno, ma hanno meno possibilità di guadagnare, tra forti difficoltà. In tutto questo c’è un enorme dibattito politico su di loro in Armenia.
In breve, la vecchia politica armena diciamo pre-Pashinyan [Nikol Pashinyan, primo ministro dal 2018, nda], pre-rivoluzione di velluto [che ha portato al governo l’attuale primo ministro, nda], è stata fatta molto spesso anche da figure originarie del Nagorno-Karabakh. E queste figure politiche rimangono elementi chiave dell’opposizione e sono spesso vicine a Mosca.
Ebbene, il governo tende a volte a identificare questa vecchia nomenclatura, corrotta e compromessa da tanti punti di vista, con la popolazione del Nagorno- Karabakh.
Questa è una delle tante faglie di una società armena profondamente divisa negli ultimi anni, con rischi molto forti. Tali divisioni, magari anche con qualche spinta da Mosca, si potrebbero anche trasformare in un colpo di stato o una guerra civile. Il rischio esiste.
Al contempo, parte degli armeni del Nagorno-Karabakh incolpa Pashinyan e il suo governo per la sconfitta militare tra il 2020 e il 2023. È una reazione naturale quando c’è una sconfitta di tale entità.
Gli armeni nel Nagorno-Karabakh che sono stati al centro della retorica nazionalistica per anni, con la regione dipinta come vitale per la sopravvivenza del paese, oggi si trovano quasi a sentirsi cancellati in Armenia.
E questa è una grande sconfitta, una contraddizione enorme del nazionalismo armeno, che nell’opposizione sta diventando sempre più tossico.
Tutto ciò non è colpa degli armeni nel Nagorno-Karabakh che sono vittime la cui presenza ultra secolare nella terra di origine è stata cancellata senza che oggi nessuno ci pensi.
Per cui uno dei tanti punti deboli dei negoziati di pace in corso tra Armenia e Azerbaigian è anche il fatto che sia stata completamente cancellata la loro esistenza come minoranza o che non abbiano avuto nessuna compensazione, nessuno si è neanche posto il problema.
Il punto sui negoziati tra Armenia e Azerbaigian in questo articolo.
Proprio al riguardo dei negoziati, si può parlare di una sorta di dissonanza tra come essi vengono percepiti dagli armeni dell’Armenia e da quelli del Nagorno-Karabakh? Mi pare di capire che nella società armena si guardi, se non positivamente, ma almeno con speranza a questo processo di normalizzazione con l’Azerbaigian, ma penso che tale percezione non si estenda agli armeni del Nagorno-Karabakh…
Come dicevamo, siamo in una fase in cui qualsiasi cosa, persino la narrazione dell’accordo di pace è terribilmente divisiva in Armenia. Per cui non esiste una versione armena o una visione degli armeni del Nagorno-Karabakh per quel che riguarda questi negoziati e l’accordo mediato dagli Stati Uniti ad agosto.
Senza dubbio, una buona parte della popolazione, probabilmente la maggioranza, più che supportare Pashinyan direi che è spaventata dall’opposizione. Il primo ministro ha perso molto supporto in Armenia e la ragione della sua sopravvivenza politica è probabilmente dovuta alla tossicità dell’opposizione, fortemente sentita, soprattutto dalle persone più povere, dei più semplici in provincia, tra l’altro. Ciò è molto interessante, anche, come analisi del voto. I voti che ci sono stati negli ultimi anni hanno dimostrato che il governo è più popolare nelle periferie, dove c’è meno ricchezza. Tante persone semplici sono spaventate da questa opposizione filorussa legata ai vecchi oligarchi.
Possiamo dire che una parte significativa della popolazione armena pone una speranza in questo negoziati. Se l’accordo verrò implementato, l’Armenia passerà dall’essere sotto minaccia esistenziale da parte azera a una pace con prospettive anche positive, ad esempio, la riapertura dei confini con Azerbaigian e Turchia. Adesso l’Armenia ha un confine con un Iran sempre più in crisi da tanti punti di vista, una Georgia sempre più filorussa e le altre frontiere chiuse.
Quindi l’Armenia ha bisogno di un accordo e questo lo capiscono tante persone che ho incontrato. Al paese servono una pace, aperture di confini e canali diplomatici che vadano oltre la pericolosa dipendenza da Mosca.
Rimangono tanti punti di domanda, perché il testo dell’accordo di pace che le parti hanno concordato non menziona il famoso corridoio mediato da Donald Trump.
La potenziale firma e implementazione dell’accordo sarebbe senza dubbio un passo positivo da tanti punti di vista, ma non per gli armeni del Nagorno-Karabakh o per l’opposizione azera, che, come il primo gruppo, paradossalmente finisce per essere ancora di più in pericolo con questi negoziati. L’Azerbaigian fa un ulteriore passo diplomatico a livello internazionale e l’opposizione azera è in un momento terribile, con arresti senza precedenti in un paese che era già estremamente repressivo.
In questa intervista parlavamo della repressione in corso in Azerbaigian.
Non si tratta di un danno collaterale. Non si può fare la pace tagliando fuori delle intere fette di popolazione, e questo è quello che si vede, purtroppo oggi,
L’opposizione azera, gli armeni del Nagorno-Karabakh, i prigionieri politici armeni in Azerbaigian non sono inclusi in questa pace, che è una pace senza riconciliazione, Come si può fare una pace senza porsi delle questioni di una riconciliazione o di una transizione democratica in Azerbaigian? La prospettiva di Trump è brutale e concreta allo stesso tempo, guarda all’economia e ai rapporti di forza militari, ma non ad altre cose. È sostenibile una pace del genere? Non lo so. Detto ciò, i negoziati in corso fanno sperare in Armenia e fanno sperare anche a me, nel mio piccolo.
Alcuni picchetti di protesta in supporto del Nagorno-Karabakh e contro Pashinyan a Erevan il 25 settembre 2023 (Meridiano 13/Martina Napolitano)
Nel giugno del 2026 in Armenia si svolgeranno elezioni parlamentari. Tra gli armeni del Nagorno-Karabakh stanno nascendo movimenti politici che ne possano difendere gli interessi?
No, siamo in un momento poco creativo della politica armena, con una contrapposizione manichea, tra essere pro o contro Nikol, come dicono, tra l’essere pro o contro la vecchia guardia. Questo è l’argomento su cui la politica armena si è incartata negli ultimi cinque anni tendenzialmente.
Quindi anche quella degli armeni del Nagorno-Karabakh è una questione, appunto, che è stata terribilmente politicizzata, con errori grossi da parte del governo.
Ci sono altri scontri in corso, ad esempio tra la chiesa apostolica armena e il governo, con Pashinyan che parla addirittura di rimpiazzare il catholikos. Sono cose notevoli, neanche durante il Risorgimento in Italia si è arrivati a conflitti del genere tra stato e chiesa.
Tutte queste tematiche verranno fuori nelle prossime elezioni. Manca ancora tempo alla tornata elettorale e cambieranno tante cose. Ora come ora, comunque, il governo armeno ha una sua stabilità e ottime possibilità di vincere.
Il dato negativo è appunto quello di una mancanza di ricambio, con Pashinyan al potere ormai da tanti anni. Ha compiuto errori grossi che gli hanno alienato una forte componente del suo stesso partito e molti elementi della società civile. Tuttavia tantissimi conoscenti che lo avevano supportato ancora oggi credono nelle idee che avevano portato alla rivoluzione di velluto: la lotta alla corruzione, una democratizzazione che partisse dal basso, l’allontanamento da Mosca.
Tutto ciò è molto pericoloso, perché è vero che sembra essere sempre una minoranza quella dell’opposizione filorussa, però in questa minoranza ci sono elementi simbolici molto forti come appunto, la chiesa apostolica armenia e l’esercito.
La chiesa è nettamente schierata contro il governo. E questo è un dato che ha delle risonanze forti. L’esercito anche aveva dato segni dopo la guerra del 2020 di essersi schierato contro Pashinyan e con l’opposizione.
Con un esercito e una chiesa contro il governo e la Russia che appoggia l’opposizione c’è un rischio oggettivo di in un colpo di Stato.
In questo contesto, dove si colloca la diaspora armena?
Una parte della diaspora armena è molto tossica, anche in Italia e negli Stati Uniti. È schierata in questo circolo religioso, ultranazionalistico, che quindi li porta a una contrapposizione molto molto forte con il governo.
Come detto, tutti questi sono elementi di instabilità profonda e costituiscono una grande preoccupazione per tanti armeni.
Nato a Milano, attualmente abita a Vienna, dopo aver vissuto ad Astana, Bruxelles e Tbilisi, lavorando per l’Osce e il Parlamento Europeo. Ha risieduto due anni nella capitale della Georgia, specializzandosi sulle dinamiche politiche e sociali dell’area caucasica all’Università Ivane Javakhishvili. Oltre che per Meridiano 13, scrive e ha scritto della regione per Valigia Blu, New Eastern Europe, East Journal e altre testate.