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Il summit Ue-Asia Centrale come banco di prova delle politiche estere centroasiatiche

di Michele Santolini*

Tra lo scorso 3 e 4 aprile la città di Samarcanda, in Uzbekistan, ha ospitato la prima edizione del summit fra Asia centrale e Unione Europea, inedito formato di cooperazione all’insegna di quella che il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa ha definito “una nuova dimensione nelle nostre relazioni”. Malgrado la scarsa risonanza mediatica di quella che resta una regione di nicchia agli occhi dell’opinione pubblica europea, se non per il crescente afflusso di turisti e la fascinazione verso le antiche città carovaniere della Via della Seta, il summit Ue-Asia centrale ha dato vita a una vera e propria rivoluzione nei rapporti politici ed economici con il Vecchio Continente.

Infatti la kermesse, che ha riunito i leader di tutti e cinque i cosiddetti “Stan” ex sovietici al fianco dell’Alto Rappresentante Kaja Kallas, della presidente della Commissione Ursula Von Der Leyen e di Costa, ha sancito una dichiarazione comune per il raggiungimento di una pace globale, giusta e duratura in Ucraina, oltre che la firma di un accordo di partenariato e cooperazione rafforzata (EPCA) con il Kirghizistan, la revisione di quello già esistente con il Kazakhstan e il delineamento di una strategia comune per l’approvvigionamento europeo di materie prime critiche.

L’iniziativa rappresenta il culmine di un lungo processo di avvicinamento che trae le proprie origini dai programmi di assistenza tecnico-economica che l’Unione varò all’indomani della caduta del comunismo, recentemente arricchito con la formulazione di una Strategia Europea per l’Asia centrale nel 2007, poi riaggiornata nel 2019. Apostrofata inizialmente da molti studiosi come una relazione di mutua marginalità, già nel 2015 Peter Burian, inviato speciale Ue per l’Asia centrale, ne aveva al contrario ribadito l’importanza strategica di lungo corso.

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Una regione in fermento

Le cause di quest’apparentemente repentina accelerazione nei rapporti risiedono nella volontà europea di affermarsi come interlocutore fondamentale a fianco di Cina e Russia di una regione dalla salienza pressoché unica, alla cui la ricchezza di idrocarburi e materie prime critiche si unisce a un dinamismo economico straordinario (il Kazakhstan è fra i paesi con la crescita del Pil più repentina negli ultimi due decenni) e una posizione geografica di fondamentale raccordo fra Europa e Asia.

L’invasione russa su larga scala dell’Ucraina del 2022 ne ha inevitabilmente rafforzato l’importanza rendendo palpabili le frizioni con Mosca, storicamente depositaria di una posizione egemonica nel proprio “estero vicino”, dopo che nessuno dei cinque paesi dell’Asia centrale ha votato contro la condanna dell’invasione nelle votazioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

La crescente competizione geoeconomica  per i  materiali critici, esemplificata dal Critical Raw Material Act europeo del 2023, e le dilaganti tensioni commerciali intra-occidentali, hanno suggerito all’Unione la necessità di un’apertura di nuovi mercati per diversificare le forniture e ridurre le dipendenze strategiche.

Parallelamente, anche la Cina è da tempo estremamente attiva nella regione, in un primo momento con il fine di contenere la diffusione di instabilità che seguì la guerra civile tagica (1992-1997), poi tramutatosi in imperativo di penetrazione economica-commerciale trainata da investimenti infrastrutturali chiave a favore della connettività regionale. Non è un caso che la Belt and Road Initiative, o più comunemente Nuova Via della Seta, sia stata lanciata da Xi Jinping proprio da Astana, capitale del Kazakhstan, alla presenza dell’ex presidente Nursultan Nazarbaev.

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Tuttavia non bisogna erroneamente percepire i paesi della regione come pedine delle grandi potenze sulla scorta di un presunto nuovo Grande Gioco, in una metafora  spesso abusata per quanto a tratti calzante.

All’alba del ventesimo secolo, i paesi dell’Asia centrale sono emersi dall’anonimato a cui li confinava la perifericità all’interno dell’architettura sovietica sollevando crescenti interrogativi sul loro posizionamento internazionale nei confronti del nuovo ordine multipolare. Nonostante l’opinione comune suggerisse un proseguimento inalterato della relazione speciale con la Federazione Russa o l’inizio di un antagonismo fra potenze per l’egemonia regionale, le leadership locali  hanno progressivamente costruito un cauto percorso di emancipazione dalla Russia fondato sul bilanciamento delle intese con partner alternativi, in primis Ue e Cina.

Il ruolo del Kazakhstan e della sua politica multivettoriale

In particolare, spicca in questo processo l’esempio paradigmatico della politica multivettoriale del Kazakhstan, esposta da Nazarbayev in seguito al proprio insediamento, dottrina di politica estera dal carattere fortemente economicista che mira all’affermazione del paese sul piano internazionale tramite l’integrazione nei mercati e nei meccanismi di governance globale, alternando proattività a sapiente intercettazione degli stimoli esterni per raggiunger un equilibrio fra gli interessi di tutti attori internazionali con spiccata influenza nella regione.

In proposito, di primaria importanza sono state le iniziative kazake di integrazione economica regionale e l’ambizioso programma infrastrutturale Nurly Zhol (sentiero splendente), complementare alla BRI. Ad esse si aggiungono la compartecipazione non soltanto nella Via Della Seta, ma anche alla Shangai Cooperation Organisation (SCO) a trazione cinese e all’Unione Economica Eurasiatica (EAEU) a guida russa.

Quest’ultima, malgrado la sua importanza, non ha impedito alla Russia di scivolare al terzo posto dei partner per volume commerciale della regione (18%), dopo Cina (25%) e Unione Europea (22%), rimanendo preponderante solo in ambito di forniture e strutture di cooperazione militare. Persino in questo campo alcuni recenti sviluppi, come l’apertura di una base militare cinese nella provincia tagica del Gorno-Badakhshan e il raggiungimento di nuovi accordi in materia, sembrano suggerire un potenziale ridimensionamento della proiezione russa.

In questo contesto, l’iniziativa del summit, dal forte carattere economico e inquadrata in un foro di dialogo multilaterale, ben coglie la sensibilità espressa a partire dalla fine del secolo scorso da parte del Kazakhstan e che sta progressivamente acquisendo rilevanza in paesi più saldamente nell’orbita di Mosca, come il Tagikistan e il Kirghizistan, o nel Turkmenistan storicamente votato all’isolazionismo e all’oltranzismo neutralista.

Allo stesso tempo, con l’incorporazione di elementi di carattere più esplicitamente politico, come un riconoscimento piuttosto marcato delle politiche multivettoriali da parte dell’Unione e l’adozione di una dichiarazione sull’Ucraina in implicito contrasto alle posizioni russe, l’accordo permette al multivettorialismo di acquisire maggior maturità strategica e un più sostenuto aspetto geopolitico, dal quale sinora esulava. Ad esempio alle  solenni celebrazioni degli ultimi anni del Giorno della Vittoria  a Mosca, i leader dell’Asia Centrale hanno sempre marciato come di norma insieme a Vladimir Putin e al primo ministro armeno Nikol Pashinyan, segnalando continuità nei rapporti.

L’eredità del summit Ue-Asia centrale         

Il formato offre parimenti una piattaforma formalizzata di partnership a tutto tondo, con particolare enfasi sulla rinnovata capacità di agency dei paesi locali, a differenza dell’approccio prettamente bilaterale che soggiace la BRI cinese, in un’ottica di collaborazione paritaria e non esclusiva.

Su quest’ultimo aspetto, l’Unione ha voluto sottolineare la totale assenza di logiche di blocco o competizione geopolitica, come già espresso dall’Alto Rappresentante Federica Mogherini nel 2022, adducendo invece sostegno alle istanze di autonomia strategica espresse dai paesi della regione. Tuttavia queste velleità stridono in parte con la realtà degli accordi, la cui dimensione geostrategica è resa evidente dall’allineamento con le necessità europee di diversificazione della supply chain e contrasto diplomatico alla Russia. A riprova di questa tedenza, lo scorso 28 Maggio l’Ue ha anche lanciato una Strategia per il Mar Nero con l’intento di rafforzare la sicurezza marittima e la propria proiezione strategica nella regione.

Di conseguenza, è verosimile ipotizzare che il summit rafforzi ulteriormente la traiettoria di prudente allontanamento da Mosca che gli “Stan” hanno intrapreso nell’ultimo ventennio, seppur senza segnare alcun netto distacco dalle molteplici e profonde partnership con la Federazione Russa. In merito è opportuno sottolineare che l’11 aprile scorso si è tenuto ad Almaty (Kazakhstan) l’ottavo incontro inter-ministeriale fra Russia e paesi dell’Asia Centrale, in un tentativo russo di frenare l’emorragia d’influenza nel proprio vicinato meridionale.

Inoltre, a dispetto delle dichiarazioni d’intenti non antagonistiche, il summit sembra rispecchiare un possibile inasprimento delle logiche conflittuali fra le potenze attive nella regione. A riguardo, resta più complesso il ruolo delle ripercussioni nei rapporti con la Repubblica Popolare Cinese, verso cui paesi centroasiatici percepiscono complementarietà con le iniziative europee.

L’adozione di una forma mentis geopolitica da parte dell’Unione rischia di tralasciare e implicitamente legittimare anche un altro aspetto, come segnalato da un op-ed di Amnesty International pubblicato a marzo in vista dell’evento, cioè la condizione dei diritti umani, civili e politici nell’Asia Centrale. Su questo punto, salvo una formula di rito di reiterazione dell’impegno per diritti umani e libertà fondamentali, non sono emersi sviluppi concreti.

Al momento, i cinque Stan, nonostante alcuni progressi, rimangono segnati da notevole autoritarismo e diffuso nepotismo, tanto che la transizione di potere avvenuta in Turkmenistan nel 2022 ha riguardato la cessione della presidenza da parte di Gurbanguly Berdimuhamedow in favore di suo figlio e attuale presidente Serdar Berdimuhamedow. Allo stesso modo il passaggio di consegne fra Nazarbayev, al potere dal crepuscolo dell’Unione Sovietica, e Qasym-Žomart Toqaev, avvenuto in Kazakhstan nel 2019, è assomigliato più a un avvicendamento all’interno dell’élite al potere che un  genuino passo verso la democratizzazione.

Fra i nodi più critici evidenziati da Amnesty e da molte ONG rientrano la libertà di stampa, la condizione delle minoranze etniche, come i pamiri nel Tagikistan orientale, lo status della comunità LGBTQIA+, vittima di persecuzioni diffuse e la recrudescenza di pratiche lesive dei diritti delle donne, come l’Ala Khachuu, il “rapimento della sposa”.

In conclusione, parafrasando Peter Hopkirk, autore del Il grande gioco, nessuno sarebbe abbastanza sciocco o coraggioso da osar presagire con esattezza le sorti dell’Asia centrale, quantunque questi sviluppi compromettano l’immagine di atavico immobilismo post-sovietico con cui spesso viene ritratta e l’avvicinino ai mercati e ai centri decisionali europei più di quanto si si possa pensare. Sarà solo il tempo a determinare se agli accordi di carattere strategico seguirà un impegno sul versante dei diritti e della cooperazione, o se invece le logiche che hanno guidato l’operato sino-russo nella regione hanno permeato anche l’azione esterna dell’Unione Europea.

*Michele Santolini è laureando in relazioni internazionali della doppia magistrale LUISS-ULB. Da sempre appassionato di spazio post-sovietico, vicinato orientale e Balcani, al momento sta focalizzando le proprie ricerche sulle dinamiche politiche e i conflitti del Caucaso meridionale.

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