Come potrai immaginare, questo progetto ha dei costi, quindi puoi sostenerci economicamente con un bonifico alle coordinate che trovi qui di seguito. Ti garantiamo che i tuoi soldi verranno spesi solo per la crescita del progetto, per i costi tecnici e per la realizzazione di approfondimenti sempre più interessanti:

  • IBAN IT73P0548412500CC0561000940
  • Banca Civibank
  • Intestato a Meridiano 13

Puoi anche destinare il tuo 5x1000 a Meridiano 13 APS, inserendo il nostro codice fiscale nella tua dichiarazione dei redditi: 91102180931.

Dona con PayPal

Vicenza Storia Festival, tra Oriente e Occidente

Dall’11 al 13 aprile 2025, con uno dei più famosi teatri rinascimentali a farvi da cornice, ha avuto luogo la prima edizione del Vicenza Storia Festival, organizzata da Athesis in collaborazione con Città di Vicenza, Fondazione di storia e progettata da Editori Laterza.

Il Teatro Olimpico ha così visto il suo nobile palco solcato da alcuni tra i più autorevoli storici italiani contemporanei, che hanno avuto modo di condividere con gli astanti e i numerosi collegamenti in streaming il loro personale contributo alla tematica oggetto del festival e tanto cara anche a noi di Meridiano 13, presenti in platea: il rapporto che intercorre tra Oriente e occidente – titolo di questa edizione.

Un argomento più attuale che mai, un rapporto dialettico e simbiotico di conflittualità, collaborazione e contaminazione reciproca che solo un accorto studio storico può permettere di comprendere appieno, al netto di qualsiasi orientalismo e visione paternalistica. Riproponiamo di seguito un riassunto di alcuni degli interventi che si sono susseguiti nel corso dei tre giorni di festival.

Dalla battaglia di Adrianopoli a Poitiers

Spetta al professor Alessandro Barbero, medievalista presso l’Università del Piemonte orientale, il compito di inaugurare il Vicenza storia festival. Il professore lo fa andando alle origini del termine “Europa” declinato nella sua valenza politica. Per moltissimo tempo, ci spiega lo storico, Europa ha solo avuto una valenza geografica, sebbene ambigua: per i greci e i romani indicava tutto ciò che stava al nord del Mediterraneo. Fu solo dall’Alto Medioevo che si iniziò a parlare di Europa non solo in termini geografici.

Nel 376 d.C. i Goti diventano i protagonisti di una cesura storica dalle ricadute drammatiche. Sul confine dell’Impero romano d’Oriente, lungo il Danubio, si presenta una carovana interminabile di gente, “barbari” dall’est sospinti ad ovest da altri barbari, ben più temibili, gli Unni. Non si tratta di una novità per i romani: spesso popolazioni cercavano di accedere entro i confini dell’Impero e vigeva un complesso sistema di integrazione per far fronte a queste richieste, trasformando quelli che oggi definiremmo profughi in manodopera e soldati al servizio di Roma.

Questa volta tuttavia l’esodo è di proporzioni bibliche e l’imperatore Valente, al confine della Persia per prepararne l’invasione, è troppo distante per comprendere la gravità della situazione, che presto sfugge di mano. I Goti sopraffanno le milizie romane e iniziano a saccheggiare l’intera regione. Valente, rientrato in fretta e furia, si mette alla testa del suo esercito imperiale e nel 378 affronta i Goti ad Adrianopoli, subendo una clamorosa sconfitta.

Il sacco di Roma, miniatura francese del XV secolo
Il sacco di Roma, miniatura francese del XV secolo (Wikimedia Commons)

Teodosio, nuovo imperatore, scende a compromessi: i Goti possono stabilirsi all’interno dei confini mantenendo le loro leggi e i loro capi, al soldo dell’Impero romano d’Oriente e combattendo al suo fianco all’occorrenza. Sarà la seconda generazione di costoro che, nel 410, commetterà il celeberrimo sacco di Roma, guidata dal re dei Goti Alarico, mercenario dell’esercito romano nei Balcani.

È da questo momento, spiega il medievalista, che si inizia ad avere l’impressione che l’Europa abbia un destino diverso rispetto al mondo greco-romano. Nel VI secolo il vescovo di Roma chiede l’intervento dell’imperatore per contrastare la crescente autonomia e indipendenza del patriarca di Costantinopoli, che assume la carica di “imperatore universale”. È in questo contesto che, per la prima volta nella storia, il papa cita il concetto di Europa come elemento a sé stante e diverso da un più generico Oriente.

Ma è la battaglia di Poitiers del 732, nella quale i Franchi guidati da Carlo Martello pongono fine all’espansionismo arabo in Europa, che diviene il mito fondativo dell’identità europea. Mito generato a posteriori, ovviamente, dagli intellettuali moderni per suggellare la nascita di un popolo europeo e cristiano che respinge l’invasore “maomettano”.

L’invenzione dell’Occidente

Alessandro Vanoli, storico e scrittore, riprende il filo della storia lasciato da Barbero, soffermandosi sul periodo della scoperta dell’America. L’Occidente, spiega Vanoli, è sempre stato in grado di definire se stesso solo in comparazione con l’Oriente, quindi definendo un Oriente estraneo da sé: ciò che non è orientale è occidentale. Ha sempre avuto la necessità di dominare l’Oriente, e per dominarlo bisogna banalizzarlo. Orientale è infatti sinonimo di esotico, dispotico, arretrato, brutale, sanguinario, meditativo, lussurioso. Ma anche ricco.

È stata proprio la ricerca di questa ricchezza – e il suo accaparramento, soprattutto in termini di spezie – a spingere l’Occidente a ricercare e trovare nuove vie per raggiungere l’Oriente. Nel XV secolo Spagna e Portogallo risultavano tagliate fuori dalle principali rotte commerciali del mondo allora conosciuto. Da qui sorse la necessità vitale di trovare nuove strade – e tecnologie – per circumnavigare l’Africa e affrontare gli indomabili flutti dell’Oceano atlantico.

È la ricerca dell’Oriente, si può dire, che spinge l’Occidente a scoprire incidentalmente un nuovo continente, l’America. È il 1492 e appena due anni dopo Portogallo e Spagna si spartiscono il mondo con il trattato di Tordesillas: ciò che sta a est delle isole di Capo Verde spettano al Portogallo, ciò che sta a ovest alla Spagna. Si tratta di una nuova linea di demarcazione tra Oriente e Occidente, poiché questi stessi non sono concetti monolitici, ma in continua mutazione.

I confini del mondo secondo i greci

Nel viaggio che ci propone Laura Pepe, insegnante di Istituzioni di diritto romano e diritto greco antico all’Università degli studi di Milano, la professoressa trae spunto dall’Iliade di Omero e dalle sue innumerevoli versioni successive per raccontare il mondo secondo i greci. Un mondo racchiuso entro i confini del Mediterraneo, nel quale l’esportazione della polis greca, delle sue istituzioni, usi e costumi era un modo per diffondere la propria identità e rafforzarla.

La definizione chiara di un “noi” e di un “loro” avviene a partire dal VI-V secolo a.C. con la comparsa dei persiani e la minaccia che portano al mondo ellenico. Le battaglie più memorabili di questo scontro sono il 490 e il 480 a.C. a Maratona e a Salamina, quando i greci si coalizzano e respingono re Dario prima e suo figlio Serse poi.

Nasce in questo contesto un nuovo concetto di “barbaro”: non più colui che non parla il proprio idioma, ma colui che è altro da noi, che rappresenta una minaccia alla propria identità e che ha usi inconciliabili con i propri. I greci iniziano ad autodefinirsi come portatori di libertà, uguali tra gli uguali che si contrappongono a orde di sudditi agli ordini di un sovrano-divinità. Si innalza una barriera invalicabile: prima delle invasioni persiane i conflitti tra polis greche erano tra città e popoli che avevano lo stesso stile di vita, le stesse logiche e si riconoscevano l’un l’altro.

C’è stato però un momento nel quale questa barriera invalicabile tra Occidente e Oriente è stata colmata. Nel 324 a.C. si celebrano i matrimoni di Susa. Alessandro Magno, dopo essersi spinto oltre i confini del mondo conosciuto, sposa Statira II, figlia dello sconfitto Dario III. È l’unione di due popoli fino ad allora acerrimi nemici. Ma l’idillio è effimero: nel 323 a.C. Alessandro muore e l’impero inizia immediatamente a disgregarsi. Già allora era però emerso un quesito fondamentale. Ad Occidente il confine invalicabile è noto ed è rappresentato dalle colonne d’Ercole, tra penisola iberica e Africa: non plus ultra. Ma qual è il confine a est? Dove inizia e dove finisce l’Oriente?

Jalta 1945: i nuovi confini e l’illusione della pace

Arrivando a tempi più recenti Simona Colarizzi, professoressa emerita di storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma, riassume cosa sia stata la Seconda guerra mondiale in termini di contrapposizioni e alleanze tra Oriente e Occidente, offrendo parallelismi con la contemporaneità che lei stessa definisce scivolosi ma assolutamente significativi.

A partire dalla conferenza di Monaco nel 1938, che sancisce l’annessione dei sudeti (minoranza tedesca in Cecoslovacchia) al terzo reich con il beneplacito delle grandi potenze europee. Annessione che non placherà certo la sete di conquiste di Hitler, più che intenzionato a ritagliarsi un lebensraum dai confini sempre più estesi per il popolo germanico.

Conferenza di Jalta
Winston Churchill, Franklin D. Roosevelt e Stalin a Jalta nel febbraio 1945 (Wikimedia Commons)

Oppure la conferenza di Jalta del febbraio 1945, nella quale tre potenze oramai vincitrici (Unione Sovietica, Stati Uniti e Regno Unito) si incontrano e decidono la spartizione del mondo in aree di influenza senza troppo curarsi di tenere in gran conto l’opinione delle popolazioni interessate. Così come alla conferenza di Teheran del 1943 si comprende come la leadership europea sia ormai al tramonto, sancendo la fine degli imperi coloniali e l’accaparramento delle risorse da parte delle potenze emergenti.

I richiami con il presente, mutatis mutandis, sono fin troppo evidenti: accaparramento di terre rare, colloqui che avvengono sulla testa dei popoli invasi, invasioni giustificate dalla protezione di minoranze nazionali che vivono all’estero. Si tratta di equazioni già note, nelle quali invertire l’ordine degli addendi non cambia il risultato: nuovi confini e una pace effimera.

A Jalta nacque anche una leggenda che riguarda Winston Churchill e il cognac armeno: clicca qui per saperne di più!

Il sogno d’Oriente nella moda, da Marco Polo a Prada

Maria Giuseppina Muzzarelli, docente di storia medievale, storia della città e storia del patrimonio culturale della moda all’Università di Bologna ci accompagna invece a scoprire alcuni tra gli innumerevoli trend della moda occidentale di origine orientale. Partendo da molto indietro, dal VI secolo, con i mosaici di san Vitale a Ravenna. Viene rappresentato il mondo immaginifico di Bisanzio, con particolare riferimento alla moglie di Giustiniano, Teodora. Colpiscono la lucentezza dei tessuti, l’ostentazione dell’oro, della seta, delle perle: è questo l’immaginario relativo all’Oriente che domina in Occidente per secoli.

Basilica di San Vitale
L’imperatrice Teodora, moglie dell’imperatore Giustiniano I, Basilica di San Vitale, Ravenna (Wikimedia Commons)

Nel XII secolo viene data alla luce la cappella di san Clemente della Basilica di Venezia e, per quanto più ci riguarda, il suo arco superiore che raffigura i tre re magi. La visione è la stessa dei mosaici antecedenti di san Vitale e delle raffigurazioni successive del Mantegna nel XVI secolo: spiccano turbanti, stoffe rigonfie e pregiate. C’è un filo conduttore che parte dall’antichità e approda sino a Poiret (1911) e Prada (2007): vestire all’orientale va tremendamente di moda tra le élite occidentali ma si tratta di un Oriente stereotipato, adattato alla visione semplificata e onirica che l’Ovest ha di esso.

La caduta di Costantinopoli in mano ottomana genera un’enorme apprensione per i turchi in Europa. Ma per la Repubblica di Venezia l’Impero ottomano non sarà solo un acerrimo nemico, ma anche un’enorme opportunità. È proprio nel contesto del rafforzamento dei legami commerciali con Costantinopoli che Venezia invia uno dei suoi più grandi artisti nella capitale dell’Impero ottomano: Bellini. Nella sua Predica di san Marco ad Alessandria d’Egitto l’artista unisce plasticamente mondi distinti ma vicinissimi tra di loro: l’Alessandria del Bellini potrebbe essere una Venezia popolata da animali esotici, donne coperte dalla testa ai piedi, gentiluomini veneziani e nobili in turbante.

Predica di san Marco ad Alessandria d'Egitto
Predica di san Marco ad Alessandria d’Egitto, Gentile e Giovanni Bellini (Wikimedia Commons)

Habiti degli antichi et moderni di Cesare Vecellio (1590) fissa definitivamente l’idea estetica dell’uomo orientale in Occidente, e diviene punto di riferimento imprescindibile per mode e artisti dell’epoca. L’ongaro – l’ungherese – del Vecellio, per esempio, diviene modello per vestire i bambini in Europa, che fino ad allora erano agghindati come dei piccoli adulti. Si consolida allora anche l’idea tuttora in voga del vestito all’orientale come sinonimo di agiatezza, comodità.

La moda, ci ricorda la professoressa, è nata vestendo i corpi degli uomini. In Oriente il corpo femminile andava coperto da capo a piedi, in Occidente quando non era coperto era comunque costretto in corsetti e gonne che ne limitavano la libertà addirittura di respirare. Il corsetto in Europa è stato ampiamente in auge dal XVI sino al XX secolo. Ed è a questo punto che la contaminazione tra Occidente e Oriente si fa rivoluzionaria e impensabile: la liberazione della donna dal corsetto in Europa avviene solo nel 1900, proprio su modelli estetici d’ispirazione orientale.

Il falso mito dell’Occidente

Luciano Canfora, professore emerito dell’Università di Bari, chiude infine il Vicenza Storia Festival con una riflessione sul mendace quanto persistente mito di una guerra santa delle democrazie occidentali contro le autarchie orientali, che trae la sua origine dallo scontro epico e autorappresentativo tra la Grecia, terra di uomini liberi, e la Persia, terra di schiavi.

Secondo il professore si cade in errore nel valutare l’Occidente come un monolite compatto, portatore di valori talmente osannati a ogni buona occasione da finire svuotati del loro stesso significato originario. Ma senza andare ai valori, lo stesso Occidente è un termine cangiante, dai molteplici significati a seconda del periodo di riferimento.

Nel 1946 Winston Churchill, ex primo ministro inglese sconfitto alle elezioni del 1945, pronuncia il celeberrimo discorso di Fulton, avvisando il mondo che una cortina di ferro da Lubecca a Trieste era ormai calata lungo l’Europa. Al di qua si difendevano i valori occidentali, al di là, per esclusione, vigeva un sistema valoriale altro rispetto al nostro. Dovendo far comprendere alla propria audience quale fosse quel mondo occidentale, si riferì all’English speaking world: il mondo anglofono, principalmente Stati Uniti e Regno Unito.

Si tratta di una specificazione che magari oggi può venire considerata come naturale, ma che solo vent’anni prima rispetto al discorso di Fulton non lo era affatto: negli anni Trenta del Novecento pubblicistica di orientamento più vario indicava l’Occidente come l’Europa in contrapposizione con l’estremo Occidente, gli Stati Uniti, dipinti in maniera grottesca, pericolosa e inquietante.

Prima ancora Francia e Regno Unito additavano la Germania guglielmina come barbara e dispotica, molto più a suo agio con l’Oriente autocratico che con la civiltà occidentale. Poco importava che, a differenza del Regno Unito, la Germania potesse vantare (almeno formalmente) il suffragio universale maschile e proprio gli inglesi fossero alleati con la Russia zarista in chiave anti-tedesca.

Appare dunque evidente che l’Occidente non è affatto un concetto monolitico o immutabile, né un blocco compatto portatore di valori universali in contrasto con paesi che li mettono a rischio, considerati ipso-facto inferiori o arretrati. L’interventismo aggressivo che da sempre contraddistingue un sedicente Occidente difensore di principi superiori, non pienamente rispettati nemmeno all’interno dei propri confini, risulta ipocrita e paternalista. Tanto più che, da qualche secolo a questa parte, questo stesso Occidente non evoca al suo esterno l’idea di alti valori morali e principi universali, quanto il ricordo di un lungo susseguirsi di violenze e sopraffazioni.

Condividi l'articolo!
Nicola Zordan
Nicola Zordan

Mosso da un sincero interesse per la storia e la cultura della penisola balcanica, si è laureato in Studi Internazionali all’Università di Trento, per poi specializzarsi in Studi sull’Europa dell’Est all’Università di Bologna. Ha vissuto in Romania, Croazia e Bosnia ed Erzegovina, studiando e impegnandosi in attività di volontariato. Tra il 2021 e il 2022 ha scritto per Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa. Attualmente risiede in Macedonia del Nord, dove lavora presso l’ufficio di ALDA Skopje.