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Un convoglio per l’Ucraina. Esperienze umanitarie a un anno dall’invasione russa

Per far fronte all’emergenza, sin dai primi giorni di guerra moltissime persone e organizzazioni non governative si sono attivate in aiuto alla popolazione ucraina. A un anno dall’invasione russa su larga scala, Sergio Pilu ci racconta la sua esperienza a bordo di un convoglio per l’Ucraina.

È la sera di una domenica di inverno. Ho il telefono in mano e guardo una fotografia che mostra una donna e due ragazzini sorridenti, i cappelli a riparare le orecchie dal vento che arriva dal mare che gli sta alle spalle. Fisso i loro volti, che ho visto per la prima volta poco meno di un anno fa nella piazzetta di una cittadina del sudovest dell’Ucraina, un minuto prima che salissero sul pullmino che avevo portato fin lì da Milano per farli uscire dal loro paese. Il tempo vola, anche quando non ci si diverte.

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La mattina in cui le truppe russe invadevano l’Ucraina ero occupato a presentare un progetto di digital activation a un simpatico manager padovano. Ricordo che fu la prima cosa di cui parlammo, anche se solo per qualche minuto, con una sorta di vuota incredulità, qualcosa di fin troppo vicino al che tempi signora mia. La realtà, almeno quella delle immagini che arrivavano dal Donbas e dal confine bielorusso, avrebbe in fretta riportato tutti con i piedi per terra e alcuni con le mani nel metaforico fango del dare una mano, portare un aiuto, fare qualcosa. Una settimana dopo ero in compagnia di una dozzina abbondante di uomini e donne che avrebbero dedicato buona parte dei giorni successivi a raccogliere, inscatolare ed etichettare in tre lingue e due alfabeti una inimmaginabile quantità di cibo, coperte, pannolini, medicinali portati con la velocità che solo il passaparola è capace di generare da una altrettanto inimmaginabile quantità di persone di ogni età, estrazione, religione, convinzione politica. Molte di queste non si sarebbero limitate a svuotare armadi e dispense, ma si sarebbero rese disponibili a prestare il loro tempo e i loro mezzi per trasportare quella montagna di materiali agli hub milanesi da dove partivano i primi convogli verso gli interminabili confini di quel Paese.

Da lì in poi sarebbe stata solo una questione di gradi di separazione, che come tutti sappiamo sono in realtà molti meno dei famosi sei.

Elena, l’amica alla quale avevo detto di tenermi presente se avesse sentito in giro di missioni verso l’Ucraina, mi scrisse per allertarmi al termine di una di quelle giornate dedicate a scatoloni e traduzioni. Due sere dopo mi aggiunse a una riunione organizzativa su Zoom e due giorni dopo ancora mi si sedette a fianco come copilota. Il furgone lo aveva prestato senza battere ciglio un altro amico, per permetterci di unirci a un convoglio di otto mezzi e due ambulanze che avrebbe portato più o meno una tonnellata di materiali in territorio ucraino e avrebbe riportato una quarantina di donne e bambini in fuga dalla guerra (nove delle quali sarebbero diventati, del tutto inaspettatamente, parte della mia vita futura; ma questa è un’altra storia).

L’11 marzo del 2022 iniziava il primo dei due viaggi che ho fatto in Ucraina. Il secondo lo avrei fatto dieci mesi, molte centinaia di migliaia di morti e milioni di sfollati dopo, alla guida di un furgone prestato sempre dallo stesso amico generoso, parte di un convoglio partito da Parma, in compagnia di una ventina di persone conosciute per la prima volta in un’area di servizio dell’A4 che mi avrebbero fatto sentire amico nel tempo di un caffè. In entrambi i casi ho diviso con Elena le quasi sessanta ore che servono per andare e tornare dalla parte occidentale dell’Ucraina, Hlyboka in un caso e Leopoli nell’altro, attraversando Slovenia, Ungheria e Romania oppure Austria, Repubblica Ceca e Polonia a seconda del percorso.

Insieme, e insieme alle decine di persone con le quali abbiamo viaggiato, abbiamo visto momenti diversi di questa tragedia nella quale siamo dentro molto più di quanto le bollette della luce ci facciano pensare: l’attraversamento del corridoio dei militari rumeni armati fino ai denti prima dell’ingresso a Siret, i salti mortali per venire a capo delle formalità burocratiche delle polizie di frontiera, lo slalom tra i sacchi di sabbia a protezione dell’ingresso di Hlyboka o in difesa dei palazzi del centro di Leopoli, la vista delle colonne di persone che a piedi e con la vita dentro un trolley lasciavano le loro case senza sapere se sarebbero mai tornate, lo scarico di centinaia di scatoloni lungo catene umane al termine delle quali c’erano dei seminaristi seri come alla messa di Natale o ragazzi di forse quindici o sedici anni, non ancora costretti a emigrare e non ancora arruolabili.

L’elenco di quello che abbiamo fatto o visto potrebbe andare avanti a lungo, e già questo che ho steso lo è fin troppo. Il punto in realtà non è quello. Una cosa che ho imparato è che, nella grande maggioranza dei casi, chi fa certe cose non è che la punta di un iceberg: non saremmo andati in Ucraina senza l’appoggio delle nostre famiglie, senza il sostegno dei nostri amici, senza il supporto di tante persone inimmaginate. Non saremmo andati in Ucraina se centinaia, migliaia di altre persone – e aziende – non avessero offerto pezzi del loro tempo per raccogliere e preparare materiali di ogni tipo, non avessero voluto separarsi da un giaccone pesante che per un altro paio di inverni avrebbe fatto il suo lavoro, non avessero donato soldi che non sono belli ma sono utili.

Eravamo incolonnati in un parcheggio della periferia milanese, pronti a partire; ci venne incontro un uomo sulla quarantina, con i vestiti di fatica e la pettorina catarifrangente di un operaio da lavori stradali: “State andando in Ucraina?” ci chiese con l’accento incerto di un uomo nato molto lontano da via Montenapoleone e senza aspettare risposta allungò la mano per darci cinquanta euro che avrebbero pagato qualche centinaio di chilometri. “Grazie per quello che fate” ci disse. Lui. A noi. Ogni tanto ci penso, e mi vergogno di essere rimasto così inebetito da non essere riuscito a dirgli “Sta scherzando, vero? Grazie a lei, mille volte”.

Il punto non è, forse, nemmeno quello delle cose che fai. È il perché le fai, nel momento in cui ne hai la possibilità. Durante i settemila chilometri di questi due viaggi non ho mai chiesto a Elena perché era lì, come non l’ho chiesto alle altre persone che hanno fatto parte di queste cosiddette missioni umanitarie: ognuno aveva i suoi motivi, tutti nobili e sporchi al tempo stesso come le cose degli esseri umani.

Ognuno si faceva delle domande, alle quali spesso evitava di proposito di dare risposta: ad esempio, se mi dicessero di cambiare percorso e andare ad aiutare dei contadini russofoni ai quali la guerra ha distrutto la casa, ci andrei? Perché mi sono preso a cuore gli ucraini molto, molto di più di quanto ho fatto per i siriani, gli afghani, i bengalesi, i curdi che a ondate sono arrivati a Milano durante tutti questi anni? Per me la risposta, parziale e consolatoria, era che un essere umano aiutato era un essere umano aiutato, che meglio uno di nessuno e tenevo quel volante in mano (perché in fondo, al nocciolo, questo ho fatto: ho guidato, guidato, guidato) perché, semplicemente, non volevo stare a guardare, come avevo fatto quando Vukovar veniva distrutta e Srebrenica sterminata, a dimostrazione che tante volte le cose buone per gli altri si fanno per far star bene, o un po’ meno male, se stessi. Per lei, per loro, chissà.

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Sergio Pilu
Sergio Pilu

Si guadagna da vivere come marketing manager di un’agenzia di comunicazione. Conosce e frequenta i Balcani per motivi professionali e personali da una quindicina d’anni e ha scritto due libri: Zona di alienazione su Čornobyl’ e Il Tunnel sul suo viaggio in Bosnia.