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L’ultimo (vero) treno a vapore della Bosnia Erzegovina

Dalle coste della Dalmazia ai Carpazi ucraini, un fil-rouge d’acciaio collega le rotte più remote dei Balcani e dell’Europa orientale: è la ferrovia. Sebbene convogli e infrastrutture versino spesso in condizioni disastrose, nei paesi d’Oltrecortina i treni giocano un ruolo chiave per il tessuto sociale locale. Sono molti i villaggi nati intorno alle stazioni, grazie a treni che dipendono molto più da gasolio e da migliaia di braccia, che da computer e automatismi. Sono ferrovie imparziali, quelli dell’Est: c’è posto per tutte le tasche e per tutti i viaggiatori, persino le galline ogni tanto salgono a bordo dei treni. Fuori dai finestrini scorrono distese di natura selvaggia, periferie di cemento, giganti complessi industriali e mercati allestiti tra le stesse rotaie. Materiale rotabile di seconda mano comprato a basso prezzo nei paesi occidentali o addirittura scambiato con materie prime: questa è la ruvida spina dorsale delle ferrovie balcaniche, che raccoglie in ogni stazione centinaia di storie da raccontare.

Marco Carlone* ci introduce così il suo libro Binario Est (Bottega errante Edizioni). Nell’estratto che vi proponiamo, la caccia all’ultimo vero treno a vapore della Bosnia Erzegovina e d’Europa.

Primo tentativo: Lukavac

È la mattina di un nuovo giorno, e oggi andiamo a caccia di vapore. Di quella che un tempo era una massiccia flotta di locomotive sono rimaste solo tre superstiti [a inizio 2021, nda], che corrono in tre delle miniere intorno a Tuzla: una nella cokeria di Lukavac, una alla miniera di Banovići e un’ultima nell’impianto di estrazione di Dubrave. La prima tappa è proprio Lukavac. Visibili anche dai treni passeggeri, le ciminiere della cokeria sputano cenere nera e – ogni cinque minuti – un nuvolone di vapore bianco. Dietro alla stazione si sente il rumore di due locomotive da manovra che spostano carri e cisterne. Fanno avanti e indietro mentre il casellante dalla sua torretta tira su e giù il passaggio a livello girando una pesante manovella.

«Dobardan!» grida dalla sua guardiola.

«Dobardan» rispondiamo, alzando la mano. Segue una sua frase lunga e incomprensibile a orecchie italofone.

«Dobardan! Mi ne govorimo bosanski dobro» gli proviamo a dire, che dovrebbe voler dire qualcosa come “Non capiamo una parola della tua lingua, amico casellante”.

Vorremmo anche aggiungere un “è inutile che scandisci meglio le parole e le pronunci più forte quando vedi che non stiamo capendo. Siamo stranieri, non sordi”, ma apprezziamo comunque lo sforzo, e a quanto pare lui il nostro di parlare la sua lingua. Senza grandi convenevoli, ci invita a salire nel suo regno, intuisce che siamo lì per fotografare quei treni merci che vede tutti i giorni, e che siamo quei turisti strani che ogni tanto vengono qui da mezza Europa solo per fotografare quella vecchia locomotiva a vapore. Perché è vero: questa è una delle mete più celebri dei vecchi dinosauri appassionati di treni, uno degli hotspot tra i collezionisti di anticaglie ferroviarie. La conversazione è un duello: sfoderiamo il nostro bosniaco entry level per carpire qualche soffiata su cosa circoli oggi sui binari. Raccogliamo le forze mentali per mettere insieme le parole locomotiva-nero-carbone e capire se per caso c’è anche l’ambita vaporiera, ma la risposta è negativa. Indica un punto imprecisato nelle frasche che ricoprono il fascio binari, dove si intravede appena un puntino nero. Ci scappa un’espressione di scoramento che mette in mostra tutta la nostra delusione, tanto che il nostro inizia a offrirci da bere come uno zio premuroso quando vede che al nipote è scappata la trota proprio lì a pelo d’acqua, dopo un’ora di attesa. Il suo casello è una stanzetta occupata da un enorme blocco di leve, sul suo tavolo di lavoro il telefono squilla con la voce del capostazione, che lo avverte quando c’è da tirar giù il passaggio a livello. Una tazzina da caffè uscita direttamente dagli anni Ottanta tintinna ogni volta che sposta una leva: è il cervellone meccanico di Lukavac, il complesso macchinario che serve a muovere i passaggi a livello, gli scambi e i segnali che indirizzano i treni a Tuzla, a Doboj o all’industria. Lui tira giù una leva e il passaggio a livello scende, tira su un’altra leva e il semaforo diventa
verde. I visitatori italiani lo mettono di buon umore, continua a dire: «Provate, provate!» invitandoci a tirar giù la leva di uno scambio, come a volerci concedere un premio di consolazione. Poi accende una sigaretta e si mette in posa per una foto. Parla tanto che alla fine ce ne andiamo senza renderci conto di aver dimenticato uno zaino con macchina fotografica; ci richiama con un urlaccio e una risata, poi saluta e torna a smanettare su e giù. Al fascio merci intanto continuano a manovrare i carri, ma del vapore non si vede l’ombra. Sconfitti, molliamo la presa e torniamo a Tuzla. Oggi è andata così, domani si ritenta la fortuna.

Secondo tentativo: Oskova

Ci vogliono non uno ma due colpi d’occhio per rendersi conto che quella baracca a bordo strada con la scritta Trgovina è un piccolo market, e soprattutto che è ancora aperto. E con “ancora aperto” non si intende che sia tardi, ma che si tratta di un esercizio commerciale ancora attivo e non una baracca in stato di semi-crollo. Dentro non ci sono finestre, una lampadina di luce fredda fa intravedere solo snack e bevande accatastate su scaffali di legno. Dietro il bancone, un commesso con le mani rugose e un occhio di vetro sorride accogliente, anche se il suo sorriso mette ancor più in evidenza le deformità del suo volto. «Una limunada e un’acqua fresca, che fuori si muore di caldo». Dalla porticina si vedono le ombre degli operai che fanno avanti indietro, molti sono camionisti in attesa di partire con il loro carico. Dietro, un tetris di edifici verdi e grigi, capannoni che sembrano scatole incastrate l’una sull’altra, come quelle casette prefabbricate dall’aria artificiale che si mettono nel presepe. Dietro aifabbricati, piccole montagne zeppe di pini nascondono il cielo alla vista. È difficile capire cosa sia: una fabbrica? Una miniera? Un capannone? Un centro di smistamento? La risposta giusta è “tutti e quattro”. Limunada in mano, muoviamo i primi passi per conquistare questa fortezza senza cancelli, pronti per tentare la fortuna con le ultime highlander del vapore bosniaco dopo il primo buco nell’acqua di Lukavac.

Oskova è il secondo dei tre mausolei del vapore bosniaco. È una miniera diversa dalle altre due, ed essendo incastrata tra le alture, ospita una ferrovia a scartamento ridotto, più adatta alle asperità del territorio. Anche qui per i minatori non è una novità vedere appassionati di treni pronti ad attaccare lo stabilimento con la fotocamera in mano. Orde di tedeschi, olandesi, inglesi, francesi si sono spinti decine di volte in questo angolo di Bosnia per fotografare le piccole locomotive e i loro carri pieni di carbone. Del parco macchine, anche qui una sola è rimasta in azione per fare le manovre: una belva cecoslovacca con una verde carena di ghisa, nata vent’anni prima della Seconda guerra mondiale e con quasi un secolo di servizio sulle bielle. Sfiancata ma non abbattuta dall’età. A Oskova il carbone arriva direttamente da immense miniere a cielo aperto che si spalancano a qualche chilometro, a Banovići. L’idea venne agli austriaci, nel 1900: costruire una ferrovia a scartamento ridotto che da questo enorme bacino portasse il carbone giù in pianura. A distanza di 119 anni, i treni di carbone continuano a fare avanti e indietro percorrendo questi 5 chilometri nel bosco. Al capolinea di Oskova i treni provenienti dalla miniera arrivano direttamente a mezza costa sulla montagna. Si fermano sul fianco del grande impianto di lavaggio del carbone, che occupa mezza vallata, e proprio qui entra in azione la vaporiera. Prende in carico i vagoni e, pazientemente, scorre su un binario al di sotto del quale si trova un grande scivolo. Qui la pancia dei vagoni si apre e il carbone crolla giù in un grande buco tra i binari, ruzzolando sullo scivolo dritto nelle stanze del capannone sottostante. Al piano di sotto il carbone viene lavato, dopodiché si fa una caduta di un altro piano e si adagia ancora su altri vagoni, pronti a partire verso la centrale di Tuzla. Un tempo anche qui c’erano le locomotive a vapore, oggi dei grandi dieseloni verdi e gialli hanno preso il loro posto.

L’entrata al grande impianto di lavaggio di Oskova sta proprio davanti al piccolo market del guercio. Delle tavole di legno compongono una scalinata, che presto diventa un sovrappasso scricchiolante. La passerella sovrasta tutto il fascio di binari e si infila direttamente nel più grande dei capannoni. Iniziamo a vagare tra scalette e piattaforme. Come in una litografia di Escher, anche qui i toni vanno dal nero al bianco passando solo per diverse sfumature di grigio e marrone. Nel formicaio salgono e scendono operai in salopette e caschetti gialli. Nessuno pare curarsi delle macchine fotografiche, anzi. Quattro operai in pausa per la cena sembrano divertiti e ci invitano a fumare una sigaretta. Scavano fagioli da una pentola tutta rigata dalle cucchiaiate, sulle posate lasciate sul tavolo sono disegnate le loro ditate nere. Mentre uno resta a far scarpetta con una fetta di pane, altri due ci invitano a salire con loro sulla locomotiva. A gesti ci mostrano il loro lavoro, sembrano entusiasti di ciò che fanno. Passiamo da un capannone interno, dove un operaio maneggia un banco pieno di pulsanti, poi salendo l’ennesima scaletta sbuchiamo sui binari al piano superiore. E qui il rumore inconfondibile di una caldaia in pressione riempie la valle. Siamo a bordo! Il treno procede lento, quando il macchinista smette di dare potenza nell’aria si sentono solo i cigolii del metallo che sbatte, le frenate, i bordini delle ruote che grattano sulla rotaia. Nel frattempo, una piccola truppa spala il carbone caduto dai vagoni direttamente sullo scivolo. È un ritaglio immobile di passato, ma alla fine la vaporiera ancora fa quel che deve. Rimaniamo a guardarla sbuffare per lunghi minuti.

Cala il sole di giugno sulla miniera, si nasconde dietro alle punte dei pini. Per oggi le manovre son finite, e la locomotiva si mette lì di fianco a riprendere fiato. Respira come un umano. Sembra impossibile che nel 2020 tutto ciò sia ancora attuale. Ma la risposta semplice, diretta, ce la dà Mehmet, uno degli operai: perché pagare il gasolio di una locomotiva diesel, quando per una locomotiva che va a carbone puoi utilizzare quello che estrai proprio lì?

Terzo tentativo: Dubrave

Un fascio di luce picchia geometricamente sulla carreggiata, l’unico tratto ancora illuminato dal sole tra i colli, ormai già tutti in ombra. Quando ci si mette d’impegno, l’inverno da ’ste parti ci va giù duro. La sera prima Tuzla era grigina come sempre, impregnata del suo solito puzzo di stufe a carbone. Poi al mattino, tutto bianco. Era iniziato così l’inverno, il primo dicembre esatto: una tempestina di neve che nel pomeriggio si era dissolta con le sue nubi lasciando filtrare qualche spicchio di sole. Era l’occasione giusta per andare a verificare se per caso la Superstite era in movimento quel giorno, anche perché probabilmente era una delle ultime possibilità di vederla all’opera. Avevamo percorso questa strada a giugno, sei mesi prima, dopo il buco di Lukavac e la piccola vaporella di Oskova. Ora rimaneva l’ultimo tentativo, alla miniera di Dubrave. Qua c’era l’ultima Kriegslok in azione.

Dalla statale si vede comparire uno scatolone di latta e metallo da cui si diramano due grandi bracci verso la foresta. È così che arriva il carbone delle miniere di Dubrave al suo centro di smistamento. Da qui, in 10 chilometri, i carri merci vanno direttamente alla centrale di Tuzla e lì possono scaricare le vagonate di carbone dal loro dorso. Il villaggio di Dubrave abbraccia l’industria tutto intorno: sulla strada ci sono una fermata del bus, una farmacia, un supermercatino e una sorta di baracchino con una panca di legno che funge da bar. Due operai con le loro salopette blu bevono una birra gelata, non tanto perché appena tirata fuori dal frigo, ma per la temperatura sottozero che c’è oggi. Una strada sterrata attraversa i binari su cui stazionano venti, forse trenta carri aperti, tutti uguali, tutti marroni. Anche qui il gioco è sempre lo stesso: la locomotiva a vapore adagia i carri sotto il bocchettone di scarico del capannone e i rulli rovesciano il nero minerale nei vagoni vuoti, uno per volta, fino a riempire tutta la teoria di carri.

Sotto uno dei rulli, un soffio regolare trancia il rombo costante proveniente dallo stabilimento. È il segno, la conferma: oggi la Superstite, all’anagrafe 33-248, è in servizio. Operai-manovratori salgono in cabina iniziando a spalare carbone dentro la sua caldaia. Sembra una vecchia signora irrequieta alla fermata di un bus in ritardo: ogni tanto tira qualche sbuffata più forte, poi il silenzio, poi un fischio, poi uno sfiato, poi di nuovo seduta in silenzio. A un certo punto il macchinista in salopette guadagna la cabina e ottiene il via libera per spostare tutta la sua lunga teoria di quattordici carri. Una bomba di vapore scoppia tutto intorno al suo duomo, il cielo diventa bianco e pure le pareti dello stabilimento scompaiono nell’etere. Cigolando e scoreggiando fumo da ogni buchino libero, le bielle si spostano e le ruote danno i primi segni di vita. A vederla muoversi con così tanta fatica viene un istinto di empatica compassione, anche se a fare questo sforzo è un ammasso di vecchia ferraglia. La macchina prende velocità, ci sfila a fianco inondandoci di vapore, ci fa sentire in quella pubblicità dove il protagonista beve del caffè alle porte del paradiso e intorno è tutto bianco. In Italia una scena del genere sarebbe stata replicabile fino all’inizio degli anni Ottanta, qui la questione è molto più pratica: i soldi son quelli che sono, il motore spinge ancora, il carburante c’è, si va avanti fin quando fa male, fin quando ce n’è.

Sotto raffiche di click, la Superstite va avanti e indietro con il suo carico, si spinge sotto un altro capannone, poi si nasconde nella sua rimessa a tirare il fiato e ad attendere la prossima tirata. Da Tuzla arriva una locomotiva diesel che si prenderà in carico il convoglio appena manovrato. Chissà quante volte ancora la Superstite scricchiolerà sotto il peso degli anni prima di sfogare l’ultima sfiatata. A spanne, non tantissimi. E lì sarà davvero l’ultima, in tutto il continente, poi basta, fine, kaputt. Solo le sue parenti rimesse a nuovo per servizi turistici continueranno a sbuffare nel resto d’Europa, ma quella è roba per portare le famiglie alla sagra della salamella, o al lago nelle domeniche di maggio. Il lavoro vero, quotidiano, è tutto un altro paio di maniche. Forse rimarranno delle lontane parenti in Cina, in Eritrea, in Myanmar, ma chissà ancora per quanto. A un certo punto la pensione – volente o nolente – arriva per tutti, anche per chi non pare avere mai avuto un’età.

* Marco Carlone è un video reporter e fotografo freelance, ha collaborato lungamente con la RSI – Radiotelevisione svizzera facendo brevi reportage dall’Italia e dai paesi dell’Europa centro-orientale. Sulla carta stampata scrive e fotografa principalmente per La Nuova Ecologia, il mensile di Legambiente. Ha all’attivo pubblicazioni con più di venti testate italiane e straniere tra cui Internazionale, La Stampa, Il Corriere della Sera, Euronews. Nei suoi lavori giornalistici si occupa principalmente di ambiente, piccole comunità, conflitti sociali e geografie. Da un anno lavora altresì con un’associazione che organizza viaggi solidali, accompagnando piccoli gruppi di viaggiatori sulle ferrovie dei Balcani. Da sempre è appassionato di ferrovie: era uno di quei bambini che andavano a guardare con i nonni i treni alla stazione. Solo che, da allora, non ha ancora mai smesso di farlo. Ecco spiegata la caccia al treno a vapore.

Un altra storia ferroviaria in cui non si parla di un treno a vapore della Bosnia Erzegovina, ma di una ferrovia morta in Siberia. La trovate qui.

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Redazione
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