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Slavs and Tatars. Decostruire l’Eurasia attraverso l’arte

di Francesco Damiano Desantis*

Se tutti gli spazi sovranazionali, quelli che coprono regioni appartenenti a paesi diversi e i cui confini si intersecano senza essere particolarmente definiti, sono per eccellenza problematici – dal punto di vista geopolitico, culturale, identitario – il concetto di Eurasia è forse uno dei più complessi. Un enorme territorio a cavallo tra due continenti, uno spazio in cui coesistono la geografia reale e quella immaginata, una barriera che fronteggia il nostro sguardo occidentale: ciò che sta più a est di noi è percepito come un “grande Oriente” indomabile, oscuro e misterioso ancora oggi. Nonostante la Guerra fredda sia finita da un pezzo, le repubbliche che dal Caucaso si snodano fino all’Estremo Oriente sono poco più che sconosciute a chi vive dalla parte diametralmente opposta del mondo, abituato a liquidare il tutto come “civiltà altre”.

Dalla caduta dell’Unione Sovietica, salvo per alcuni media internazionali e le piattaforme indipendenti sapremmo poco o nulla di regioni come il Kazakhstan e la Cecenia, il Kirghizistan e la Buriazia, alcuni indipendenti e altre appartenenti alla Federazione Russa. In fondo il western gaze tutto appropria e alterizza: il Caucaso e l’Asia centrale sono qualcosa di diverso da noi, a maggior ragione se si tratta di popoli in buona parte di religione islamica, e per giunta con un passato coloniale sovietico. Almeno nell’ambito dell’arte contemporanea qualcosa si sta muovendo; sulla scia dell’invasione russa in Ucraina e delle manifestazioni in Georgia contro la leadership filorussa, molte artiste e artisti cosiddetti “post-sovietici” e in generale dell’ex-blocco orientale sono sempre più presenti nelle gallerie e nelle istituzioni dell’ovest, Italia compresa.

Slavs and Tatars, Samovar, 2021, PVC, pompe elettriche e legno, 1100 × 600 × 510 cm. Installazione presso la Hayward Gallery, Londra. Foto di Rob Harris, su gentile concessione della galleria Kraupa-Tuskany Zeidler, Berlino

In realtà, un collettivo artistico che lavora proprio sull’Eurasia e le identity politics delle sue nazioni esiste da tempi non sospetti: Slavs and Tatars è un esempio davvero interessante di ricerca visuale sullo spazio eurasiatico e sulle identità etniche, religiose, sessuali e di genere che lo abitano. Il progetto nasce nel 2006 a Berlino grazie a un’idea di Payam Sharifi e Kasia Korczak; entrambi artisti e designer, i fondatori amplieranno ben presto il numero di membri del gruppo. Ma chi sono gli Slavs and Tatars? Vale la pena dare la parola al collettivo, che sul suo sito ufficiale si presenta così: “Slavs and Tatars è una fazione di polemiche e conoscenza dedicata a un’area a est dell’ex Muro di Berlino e a ovest della Grande Muraglia Cinese, nota come Eurasia”. Non uno sguardo da fuori ma un punto di vista interno, che di rimando fissa il western gaze dritto negli occhi.

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Un’Orda d’Oro contemporanea

L’area d’indagine non potrebbe essere più chiara, il nome stesso che è stato scelto dagli Slavs and Tatars lascia spazio a pochi dubbi. In una delle loro prime interviste, Korczak e Sharifi – lei polacca, lui iraniano – parlano della natura provocatoria di un’espressione come slavi e tartari, “che è volutamente caricaturale: ovviamente richiama alla mente certe impressioni e immagini con cui non abbiamo paura di confrontarci. Non solo evoca una collettività, ma sfiora anche l’assurdo, come se un’orda di persone, o ‘scuri’, stesse arrivando all’orizzonte per conquistare i ‘bianchi’”. Una nuova Orda d’Oro, insomma, arriva da est, stavolta per mettere a ferro e a fuoco i paradigmi messi a punto dall’Occidente per giudicare, classificare, mappare l’altro da sé eurasiatico. All’inizio il collettivo prende forma come gruppo di lettura, ma la sua attività si espande rapidamente.

Quel che è certo è che Slavs and Tatars nasce subito come “un modo per studiare, condividere, preservare, provocare e discutere un’area del mondo che sembra fornire risposte a varie questioni di carattere, cultura e politica”, domande che secondo i suoi membri l’Occidente non è in grado di affrontare a causa dei pregiudizi. Non ci vuole molto perché le pratiche del collettivo comincino a spaziare dalle pubblicazioni alla creazione di opere d’arte e alla lecture performance, un ibrido tra ricerca culturale, arte visiva e azione teatrale che diventa il mezzo per interagire con il pubblico. Diciott’anni dopo la sua fondazione, Slavs and Tatars ha invaso il mondo dell’arte nel modo più pervasivo possibile: dalla partecipazione alle Biennali di Venezia, Berlino e Gwangju alle mostre personali e collettive a New York e in Europa, il gruppo è inarrestabile.

L’importanza dell’attività editoriale

In ogni caso, l’attività espositiva va di pari passo con quella editoriale – nel tempo sono arrivati a 12 pubblicazioni inclusa Mouth to Mouth, una monografia del 2017 che documenta i cicli di lavoro svolti da Slavs and Tatars fino a quel momento. È significativo quanto afferma Payam Sharifi in un’intervista in occasione di Salty Sermon, una mostra del gruppo nella galleria eastcontemporary: quelli di Slavs and Tatars non sono libri d’arte o cataloghi, almeno non nel senso che le persone potrebbero aspettarsi a prima vista. I libri stanno al centro di tutto. Per Sharifi, le sculture e gli oggetti di design passano in secondo piano rispetto all’importanza che hanno la parola scritta e le immagini per il collettivo, “un tentativo di invertire la piramide, in modo che tutti gli oggetti costosi che vengono commissionati siano in realtà oggetti di scena”, lasciando al testo un ruolo primario.

Wripped Scripped e Crack Up – Crack Down, Look Book  e Mirrors for Princes sono un fiore all’occhiello; questi libri hanno una veste grafica che cattura subito il lettore, vuoi per i logotipi che giocano con alfabeti differenti vuoi per le copertine tra un fumetto e una fanzine indipendente, come quelle che vanno nelle scuole d’arte e che prendono il meglio dalle subculture contemporanee. Una curiosità: per spirito democratico e di provocazione, i lavori editoriali di Slavs and Tatars si possono scaricare gratuitamente in pdf dal loro sito, oppure essere comprati a un prezzo simbolico sullo store o in qualche fiera del libro. Bello e urgente è The Contest of the Fruits, uno degli ultimi a essere stati pubblicati – oltre a una conversazione con il poeta uiguro Tahir Hamut Izgil, esplora la cultura e il folklore di questo popolo della Cina occidentale, vittima di genocidio.

Alfabeti, traslitterazione e irritabilità della lingua

Sbirciare all’interno delle uscite è d’obbligo, per entrare nel cuore della ricerca che il gruppo porta avanti; attraverso reportage visivi, contributi di curatori e artisti e mai senza un po’ di humor dolce amaro, lo spazio eurasiatico prende di petto i cliché che l’Occidente gli ha cucito addosso e li decostruisce, sottolinea la ricchezza dei punti di contatto tra popolazioni e identità e ne esalta le differenze. Non un magma indefinito ma un mosaico, un microcosmo popolato da corpi e tracce e migrazioni da e per l’Europa orientale, l’Asia centrale e il Caucaso. Per Slavs and Tatars, e questo vale per tutti i media che utilizza, la traslitterazione e le sue potenzialità contano più della traduzione. Il collettivo ha colto un aspetto cruciale, quando si parla di rapporti di potere e politiche identitarie: le parole e i suoni di una lingua sono il mezzo principale per diffondere tutto questo.

Slavs and Tatars, Mother Tongues and Father Throats, 2012, filato di lana, ca. 500 × 300 cm. Installazione presso la Fondazione Pejman, Tehran, 2017. Foto di Hamid Eskandari, su gentile concessione della galleria Kraupa-Tuskany Zeidler, Berlino

Ecco perché al centro di Mother Tongues and Father Throats, un grande tappeto del 2012, c’è una bocca spalancata con attorno alcune lettere in alfabeto arabo, cirillico e aramaico: ciascuna rappresenta il suono kh in altrettante confessioni – il giudaismo, l’islam e il cristianesimo ortodosso considerano sacro questo fonema. Passando per la gola e la cavità orale, kh raggiunge la lingua ed è lì che, dopo essere stato traslitterato, diventa uno strumento di affermazione dell’identità di un popolo, di un credo e del sistema di valori che ne è correlato. Trascrivere usando un sistema alfabetico diverso porta anche a trasferire nel processo, inevitabilmente, la propria visione del mondo: lo testimoniano le tantissime città del Nuovo Est che, nel corso della storia, si son viste modificare ancora e ancora il proprio nome, fino a prendere quello che portano oggi.

Non è un caso che Slavs and Tatars recuperi Czernowitz, la capitale del Ducato di Bucovina che oggi è Černivci in Ucraina, per un lavoro del 2018; sullo specchio di Love Me, Love Me Not, il gruppo scrive i toponimi che si rincorrono in otto secoli di dominazione rutena, moldava, ottomana, austriaca e poi sovietica. Ultimo baluardo di occidentalità per chi ci abitava, emporio troppo levantino e multiculturale per essere considerato europeo da chi stava più a ovest, la città natale di Paul Celan e Gregor von Rezzori si è chiamata Chern’ na Prut’, Ţeţina e Cernăuți, Czerniowce e Çernovi e non solo. Černivci rivive nella memoria collettiva grazie ai suoni che prende nei diversi idiomi, la stessa sillaba che masticata dà vita a qualcosa che non è una semplice variazione sul tema: e proprio sull’irritabilità della lingua, sull’ostinazione di affermarsi e affermare Slavs and Tatars basa tutto il suo lavoro.

Slavs and Tatars, Love Me, Love Me Not (Czernowitz), 2018, pittura acrilica sul retro dello specchio, cornice in alluminio, 85 × 60 cm. Installazione presso eastcontemporary, Milano, 2023. Gentile concessione della galleria eastcontemporary
Installazione Slavs and Tatars
Slavs and Tatars, Friendship of Nations (installation view), 2011, M HKA, Anversa, 2023. Gentile concessione della galleria Kraupa-Tuskany Zeidler, Berlino

In copertina: Slavs and Tatars, Molla Nasreddin the Antimodern, 2012, fibra di vetro, vernice laccata, acciaio, 180 × 180 × 80 cm. Installazione alla Biennale di Yinchuan, 2016. Per gentile concessione di Kraupa-Tuskany Zeidler, Berlino.

Si ringrazia Slavs and Tatars, e in particolare Payam Sharifi, per aver condiviso le immagini presenti nell’articolo.

* Francesco Damiano Desantis si occupa di studi decoloniali nel Nuovo Est, in particolare eurasiatico. Laureato in Visual Cultures e Pratiche Curatoriali all’Accademia di Brera, scrive d’arte contemporanea e identity politics per Antinomie – Rivista di scritture e immagini, Est/ranei – Letterature, cinema e culture dell’Est Europa e ha collaborato con il collettivo Altremuse; pubblica anche sull’edizione digitale di Harper’s Bazaar Italia.

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